Ora siamo qui, ora e ancora, così.
Ore, le ore.
Le ho contate ogni settimana per rivederti, fino a quell’ora, quel giorno, ogni settimana, ogni volta come fosse l’ultima possibile.
Le ore.
Due soltanto, due, per scambiare poche parole in una palestra poco frequentata, mezzo saluto, un’occhiata indifferente.
Ore che volano, passano, ore, la settimana intera e poi ancora.
Per rivederti, due ore di più, ancora due, e se non c’eri, ore perdute, fino alla prossima, le prossime due.
Ora siamo qui, senza che le ore abbiano più significato.
Perché t’ho trovata quell’ora, quel giorno, persa come me.
Ora ti ringrazio per essere nata.
Per essere te.
Prima di morire, conoscere l’amore.
Prima dell’inverno, conoscere l’amore.
Avevo in mente quella canzone, quando è iniziato tutto. Era l’ultima che suonava sulla playlist nell’USB della macchina.
Quella canzone lì.
“Quante ne sono passate?”
“Di giornate?”
“Di ore.”
Non lo so. Ho smesso di contarle, già da parecchio.
Continuiamo a guardare la porta basculante chiusa: noi siamo dentro, loro sono fuori.
Tre mura di cemento dall’intonaco scrostato e una porta basculante chiusa, la Honda parcheggiata nel mezzo, una lampadina pendente: tutto uno spettacolo migliore delle nostre facce stanche, perse, arrabbiate.
Abbiamo percorso ogni centimetro percorribile di questo spazio angusto. Ci siamo seduti in auto e poi alzati. Davanti, dietro, aperto e chiuso portiere. Abbiamo guardato da sotto il battente sperando che loro se ne andassero, ma loro sono sempre lì, barcollanti, assenti, infaticabili.
“È colpa tua.” Lo dici e lo ridici, come cambiasse la realtà delle cose. “È tutta colpa tua.”
“Certo.” La pandemia, il caos, le combinazioni di eventi, gli incontri casuali, le scelte fatte in un momento. Colpa mia.
“Dovevo arrivare alla mia macchina.” Lo stesso tono spezzato, sempre uguale. “Potevo farcela.”
“E dillo ancora, tanto ormai.”
I passi strascicati degli infetti, fuori dalla porta, nel locale dei garage.
Scuoti la testa e quegli occhi chiarissimi che ti ritrovi. “Sei proprio uno stronzo.”
“Certo.”
Sono ore, forse giorni, che voglio dirtelo, dirti tutto, dalla prima all’ultima lettera, e ogni volta penso che non è ancora il momento. Che ne verrà uno migliore. Che ci troveranno e ci porteranno via da qui, e che non meriti di sapere tutto quanto, tutta la storia.
Vaghiamo tra quattro mura, sei metri per tre, con un’auto nel mezzo e una lampadina che pende dal soffitto. Se si brucia, neanche più quella.
“Dovevo arrivare alla mia macchina.” Singulto e viso arrossato. “Potevo farcela.”
Erano cento metri. Non potevi farcela. T’avrebbero presa prima, morsicata, fatta a pezzi. E pure me, perché sarei venuto a prenderti, difenderti, proteggerti, anche se non te lo meriti.
Non ti meriti il mio sacrificio.
Non ti meriti che ti abbia trascinata dentro il passo carraio, nel locale garage, dentro il mio, che era aperto, perché stavo uscendo. Dovevo lasciarti in strada.
“Sei proprio uno stronzo.”
Lo sono. Verso me stesso: mi sono sempre trattato male. Sempre fatto del male. Con te e quelle come te.
“Dovevi proprio uscire stasera?” Ammesso che sia ancora sera, che sia ancora oggi. Le ore passano e non abbiamo nulla per contarle.
“Ma che cazzo vuoi, è sabato!”
“E dovevi proprio venire al Jamaika.”
“Sì, infatti.”
Cento metri da casa mia, uno stupido pub, sabato sera. E io stupido che ho pensato d’uscire, anziché stare a casa a giocare alla Play Station. Magari t’incontravo. Per caso, come è già successo, qui intorno, o in altri posti meno logici. Per un saluto accennato, indifferente.
Magari t’incontravo.
E ti ho incontrata, nel mezzo dell’apocalisse. Il caso, a volte. Chiudersi in garage, aspettare che gli infetti vadano via; ma non se ne sono andati, sono rimasti lì fuori, nel passaggio buio, a trascinarsi e mormorare.
Sono ancora lì, da ore e ore. Forse di più.
Non se ne andranno mai.
“E hai pure perso il telefono!” Lo dici con quella nota stridula che sono unghie sulla lavagna. La tua voce è tutto un fastidio viscerale.
“E le chiavi della macchina.”
“E bravo, a posto così.”
Le ho perse per portarti via dalla strada e dal caos, sgomitando con gli infetti. “Potevo lasciarti lì.”
“E dovevi, cazzo!”
Scuoto la testa.
“E adesso moriremo qui.”
Possibile. Probabile, per mera statistica.
Sbatti le mani sui tuoi pantaloni leggeri color vinaccia e le porti al viso. Singhiozzi.
Volevo salvarti, non lo dico.
Vorrei dirlo, da ore. Un sacco di ore.
Vorrei dirti anche il resto.
“Cazzo, che eroe che sei!”
Eroe, le ore.
“Dacci un taglio. Anche basta.”
“Dovevi lasciarmi arrivare alla macchina, ce l’avrei fatta!”
Volevo salvarti, non lo dico.
“E adesso devo morire qui dentro.”
“Volevo salvarti,” l’ho detto.
Mi guardi con tutto quell’astio che hai sempre avuto, che non ho mai capito. “Ma se praticamente neanche ti conosco.”
“Vero.”
“Non potevi farti i cazzi tuoi, no?!”
“Non potevo.” Non dopo averti trovata così, in strada, con dietro gli infetti e il mondo che di colpo non aveva più una direzione.
“Perché?!”
Perché mi hai sempre fatto uno strano effetto, non lo dico.
“Perché provo qualcosa per te,” l’ho detto.
Resti in silenzio e con gli occhi dilatati, ma non è sorpresa, è banale indignazione. Ho sempre quella canzone in testa.
Sbatti i palmi e agiti appena le mani, come di fronte alle cose patetiche della vita, con quel sorriso tanto amabile quanto odioso. “Siamo alla pazzia.”
La pazzia è qui dentro e non là fuori, con le folle di malati, il panico e la distruzione, la fine dei giorni. Le ore che passano.
“È la verità.”
“Oh,” il tono è compassionevole solo per la prima sillaba, poi diventa acre, “ma guarda che lo sapevo.”
“Certo.”
“Lo sapevo, invece. Stavi sempre a guardarmi, in palestra.”
“Certo. È come mi guardi tu, il problema.”
“Come ti guardo io?”
“Come adesso: con tutto ‘sto astio, ‘sto fastidio.”
“E ci mancherebbe pure!”
Due ore, quelle due ore di martedì per incontrarti in palestra, non lo dico. “Pensa che volevo venire pure di giovedì, perché sapevo che c’eri tu. Ma non riuscivo con gli orari.”
“E meno male.”
“Posso dirtelo?”
Alzi di spalle. “Tanto ormai.”
“Sì, ormai.”
Prendo un respiro per il momento che ho atteso da così tanto tempo.
“Sei,” la scelta di termini più difficile, “sei un dito in culo. Sei la ragazza più irritante del mondo. Non so come si faccia a stare con te più di dieci minuti. Se ho ancora sanità mentale dopo tutte queste ore è perché ho il principio inchiodato nella testa di sopportare tutto e tutti, ma tu vai oltre ogni mio limite. Sei la somma dei peggiori difetti che una donna può avere, a parte essere figa, e io non so neanche da dove iniziare a elencarli.”
Silenzio.
Hai le iridi che sembrano lune e le labbra piegate all’ingiù. “Hai finito?” Lo dici con la voce che oscilla.
“Ho finito.” Non un grammo d’aria nei polmoni e sempre quella canzone in testa.
Scende un silenzio atroce. Ora io ti guardo, ora tu mi guardi.
Scoppi a piangere senza un suono e con le mani a coprire metà del viso. Gli infetti, fuori dalla porta, si lamentano come a farti il verso.
“E che cazzo, qualcuno doveva dirtelo prima o poi, oh.”
Persino i tuoi singulti sono una tortura cinese.
Passano minuti che sembrano ore.
Ce ne vorrebbero molte altre, di ore, per dimenticare tutto questo.
Sospiro. “Ehi.” Fai segno di no, di lasciar stare. Se riesci a farmi sentire in colpa è solo perché ho un animo gentile. “Dai, sfogati tu. Di’ quello che pensi, di me, di tutto. Vai.”
Ti levi le lacrime a ditate nervose. “Mi sei sempre stato sul culo, sempre.”
“Lo so. Ma non so il perché.”
“Perché ti dai un sacco di arie, ti credi chissà chi.”
“Io?”
“Invece sei stupido e insulso.”
“Vai.”
“Non sei simpatico, non fai ridere, non c’è niente di te che sia interessante, nulla. Sei come un buco nero che assorbe la luce degli altri.”
“Questa l’hai preparata, si sente.”
“Ma io dovevo essere salvata proprio da te?!”
“Io in te dovevo imbattermi quando sono uscito in strada a vedere che stava capitando?!”
Restiamo così, soli al mondo, tra quattro mura scrostate, con un’auto in mezzo che non posso mettere in moto. Ci vuole un po’ per guardarti alzare di nuovo lo sguardo, per la prima volta carico di una qualche sensazione che non intendo.
“Mi stavi seguendo, vero?”
“Certo che no.”
“Sì, invece. Ne sei capace, te lo si legge in faccia. Hai una faccia da psicopatico.”
L’ho fatto, una volta, seguirti. Volevo capire dove abiti, per incontrarti più facilmente per caso, un giorno: non lo dico.
“Pensavo avessi finito.”
“Ammetti che mi stavi seguendo.”
“L’ho fatto una volta,” l’ho detto, “ma ti ho persa al primo semaforo. Come segugio faccio schifo.”
“Lo sapevo! Psicopatico!”
“Piantala. Io abito qui. Questa è casa mia, anzi è il mio garage. Sei TU che sei andata al Jamaika, che hai parcheggiato qui davanti. È colpa tua.”
“Sì, certo.”
“Sono sceso giù perché volevo prendere la macchina e andare a fare un giro in notturna. Poi ho sentito le urla, il caos, sono uscito in strada. E ho visto te.”
“Sì, certo.”
“Quando ero lì, quando ho capito che era l’apocalisse, sai cosa ho pensato?”
“Non lo voglio sapere.”
Che c’era una sola persona che desideravo stesse bene, ed eri tu: non lo dico.
“Che se t’incontro in versione infetta non lo so se ho il coraggio di abbatterti.” L’ho detto.
Hai la faccia grave come un lutto. “Tu sei del tutto pazzo.”
“Volevo salvarti, non ho pensato ad altro.”
“Non hai pensato, appunto. Adesso siamo chiusi qui, senza un telefono, senza le chiavi dell’auto. Senza niente da mangiare, da bere, con quei mostri lì fuori.”
“Arriveranno i soccorsi.”
“E se non arrivano?”
Non ho una risposta. Chiudi ogni contatto aprendo la portiera del passeggero, salendo in macchina e isolandoti dal resto del mondo, che sono soltanto io.
Ci metto minuti per aprire quella del guidatore e salire a mia volta.
“Aspetta,” ammonisco quando stai già per scendere, “ho esagerato, d’accordo? È una situazione estrema e siamo sotto pressione.”
“Io non ho esagerato niente, penso esattamente quel che ho detto.”
“Anche io. Solo non andava detto in quel modo.”
“Infatti. Sei uno stronzo.”
“Lo so. È che non ti sopporto, non ti reggo. E non parlo di adesso, parlo già della palestra. Ti atteggi come una dea, cazzo, guardi tutti dall’alto in basso anche se sei alta come un barattolo. E poi hai questa voce antipatica, stridula, che martella nella testa.”
Fermo la vena pulsante che è ripartita da capo mentre ricominci a singhiozzare con gli occhi sgranati.
“Okay, scusa, basta.” Le ore qui dentro. “Basta, non ha senso. Mi piacevi, ma mi stai troppo sulle palle. Anche se fossi l’unica rimasta al mondo non ce la farei, non con te.”
“Guarda che per me è lo stesso!”
“Appunto.” Poggio le mani sul volante. “Forse gli ultimi al mondo lo siamo per davvero.”
“Non dirlo neanche.”
Là fuori, in queste ore, può essere successa qualsiasi cosa. La pandemia potrebbe aver spazzato via la civiltà.
Le ore passate, le ore.
Chiusi in un’auto, tra quattro mura scrostate, una lampadina che pende dal soffitto. Una canzone nella testa.
“Senti,” lo dico senza guardarti, “ho una proposta.”
Asciughi le lacrime, hai ancora la voce rotta e il respiro intasato. “Quale?”
“Amami. Come se avessimo un solo giorno per far l’amore.” Hai gli occhi come fanali nel buio. “Amami. Come se fossimo soli al mondo: amami.”
Ora io ti guardo, ora tu mi guardi.
“Ora l’universo trattiene il respiro, mentre noi, qui, camminiamo sul filo.”
È l’attimo più lungo della mia vita, e forse anche della tua.
Ora io ti guardo, ora tu mi guardi.
Ora io ti cerco.
Ora ti nascondi.
Ora io ti trovo.
Ora siamo qui.
Ora, e ancora, così.
Ora che ti tocco, ora non mi blocco.
Ora le mie mani ti accarezzano la schiena.
Ora la mia piena scioglie la catena.
Ora una scintilla, poi un antro di balena.
Ora ti ringrazio per essere nata.
Per essere te.
Perché t’ho trovata, quell’ora, quel giorno, persa come me.
Ora ti accarezzo, e lo fai anche te.
Amami.
Come se fossimo soli al mondo, soli al mondo.
Amami.
Prima di morire, conoscere l’amore.
Prima dell’inverno, conoscere l’amore.
L’amore.
Le ore.
La porta basculante si apre, forzata dall’esterno.
I due operatori in tuta gialla anti-contaminazione illuminano il garage buio: la lampadina che pende dal soffitto ormai bruciata.
C’è una Honda grigia e tre pareti di cemento dall’intonaco scrostato.
Il rilevatore nella mano guantata segnala cospicue tracce umane all’interno.
L’uomo si accosta, illumina l’abitacolo.
L’espressione perplessa trapela anche attraverso il casco isolante.
“Cos’è successo qua dentro?” incalza quello dietro, la voce resa cupa dallo scafandro.
Lui tentenna, sposta la torcia più volte su un sedile e poi l’altro. “Non ne sono sicuro,” mormora.
“Sii più specifico.”
“Forse,” si scosta dall’auto con un sospiro che l’ossigeno amplifica, “forse il rilevatore è guasto. Non c’è nessuno qui.”