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Messaggio Da Fante Scelto Dom Giu 20, 2021 1:13 am

***



“Ferme.”
Alzo una mano d’istinto. Camminiamo nel bosco ormai da un’ora o più, senza che sia capitato nulla d’insolito.
“Ferme, ferme.”
Il bosco non è silenzioso come la spiaggia; il bosco è inframmezzato di trilli, di canti di passeri, di cose che si muovono e che non vedi, per cui senti il cuore che balza, il sangue che gela, e poi espiri e cerchi di calmarti.
Il bosco non è silenzioso e quindi se c’è un rumore di cui devi preoccuparti, uno serio, non è detto che lo cogli.
“Sentito qualcosa?” Lucilla occhieggia allarmata.
Non lo so. La verità è che non lo so. Forse è un fruscio diverso, forse è niente; istinto, paura, tutto si mischia assieme. Un fruscio diverso comunque c’è.
Ora non più.
Ascoltiamo in silenzio, immobili, raggelate, cercando il suono che veniva da qualche parte poco più avanti, tra le frasche e il sottobosco più fitto. Ascolto i passeri e li sento cantare, di solito un buon segno.
Aspettiamo minuti interi, infiniti, prima di riprendere cautamente il cammino, spostandoci verso sinistra, per aggirare la vegetazione.
“Magari non era niente.”
“Magari.”
“Se c’è un pericolo di solito i volatili smettono di cantare, no?”
“Infatti.”
Appena oltre la barriera vegetale il terreno ritorna più sgombro e le frasche molto più rade.
Mi fermo col cuore che s’è fermato a sua volta; Lucilla mi sbatte contro la schiena.
Restiamo di sale per un attimo infinito mentre realizziamo cosa ci sta davanti, a neanche cinque passi. Sembra la scena di un film, di un cartone animato: tre cretine con gli occhi sgranati e un sauro accovacciato a terra, stravaccato, nella posizione in cui potrebbe stare un gatto, un’anatra, un coccodrillo.
Un sauro carnivoro.
Un carnosauro.
È un affare di almeno sei metri, accucciato come un fottuto animale domestico durante la pennica, con la coda che di tanto in tanto sferza i cespugli. Ha un colore improbabile, un grigio scuro che sconfina nel viola sul capo e il dorso, irto di bitorzoli. La testa, un dannato cranio corto e arrotondato, ciondola sollevata dal terreno con la palpebra socchiusa e una fila assurda di denti corti e storti. Un singolo cornetto gli sta sulla cima del capo come starebbe sulla punta di un elmetto da guerra del milleottocento.
Un fottuto dinosauro del milleottocento.
Ci vuole un lungo attimo perché i suoi riflessi di rettile gli facciano dilatare le palpebre e realizzare che siamo commestibili: anche questa sembra la maledetta scena di un cartone animato. In quegli occhi preistorici, chiari e freddi, riesco a vedere l’istante preciso nel quale meccanismi predatori sopiti dal sonno si risvegliano a fiume.
“VIA!” È tutto ciò che riesco a strillare, agguantando le due imbecilli che la paura ha bloccato sul posto, trascinandole in un dietrofront disperato, una corsa sfrenata.
La bestia ha un impulso aggressivo incontrollato: si alza e catapulta in avanti in un unico movimento, buttandosi frontalmente come un delfino, una balena, chiudendo le fauci a vuoto e spanciando il terreno in un fracasso di frasche mosse e piegate.
Si rialza un momento dopo, frustando la coda ed ergendosi sulle zampe posteriori, gettandosi all’inseguimento.
Corriamo a caso, senza altro impulso razionale che mettere distanza, con tutti i sensi impazziti dalla paura e l’adrenalina che pompa in circolo.
Non hai idea di cosa sia il terrore cieco finché qualcosa del genere non ti corre dietro, e poco importa se una qualche parte irrazionale di te prende il controllo e tenta di gestire la situazione: è assenza assoluta di ratio, è sentire la schiena che trema e vibra per conto suo come nel tentativo d’andare più forte, con l’orrore di sentirsi prendere alle spalle d’improvviso e trascinare indietro.
Pensiero di morte.
Corriamo spazzando il sottobosco, col rimbombo nelle orecchie che non sappiamo se è il cuore o sono i passi della cosa che ci viene dietro e ignoriamo quanto da vicino.
Corriamo attorcigliando i pensieri più assurdi e disperati, senza coglierli, con l’idea fissa di stare per morire in malo modo.
Corriamo.
Se vedo l’incavo nel grosso albero a sinistra, tra le radici, è un riflesso o istinto che deve arrivare da lontano, da qualche parte dentro; spingo Sigrid di forza e, di un niente, afferro Lucilla per il braccio, trascinandola con me. Roviniamo a terra accanto all’albero, “Lì!” Arranchiamo per buttarci dentro il buco, un’apertura di un metro e poco più sul terreno nel quale finiamo di schiena, strette come sardine, respirandoci addosso, con le gambe all’esterno. Lo spazio non basta.
Siamo mezze di fuori e mezze incastrate tra le radici.  Non c’è più tempo per rialzarsi e rimettersi a correre.
Attendiamo alcuni istanti scanditi dal pestare pesante della bestia che s’avvicina, che si ferma appena oltre l’albero.
La figura grigio-violacea si staglia nel bosco e noi siamo esattamente dietro di lui. Se si volta siamo fottute.
Sul serio.
Se si volta siamo fottute.
La mia testa lo ripete in un loop disperato e selvaggio.
Se si volta
siamo fottute.
Il sauro schiocca le fauci e caccia un rutto gutturale, mentre i fianchi gli si alzano e abbassano al ritmo del respiro.
Rimaniamo immobili, gelate, mezze sedute e mezze distese nel vano esiguo tra le radici dell’albero. Il cuore ce l’ho nella gola, non è una figura retorica.
Nello spazio tra le mie gambe divaricate, la bestia volta il capo percorrendo la boscaglia e la coda si muove di qua e di là come un serpente annoiato. Sarà a tre metri al massimo, forse meno, dal nostro effimero nascondiglio. Se mi accorgo che Sigrid, schiacciata alla mia sinistra, sta per cedere al panico è solo per caso: allungo la mano destra e le serro la bocca con tutta l’energia che trovo. I nostri occhi s’incrociano per un disperato momento nel quale vedo e leggo l’angoscia d’una ragazzina che ha di colpo orrore delle proprie scelte.
Siamo in due.
Il fucile.
Il fucile sta lì, abbandonato tra la mia e la sua coscia. Con la mano libera arrivo frenetica al grilletto, sollevo la canna quel poco che occorre per metterla sul ginocchio. Non ho idea se ci sia la sicura. Probabilmente c’è.
Non ho modo di toglierla.
Prego non sia inserita.
Se la bestia ci vede, se ci viene addosso, avrò un colpo da sparare e dovrà bastare.
Uno solo.
Uno solo.
Uno solo.
Il rettile emette un altro verso di gola, oscilla il capo, la coda, continua a guardare le piante. Le narici fremono mentre inspira rumorosamente e con ritmo irregolare.
“Vai più in là,” Lucilla sussurra in un soffio, facendo pressione col corpo: è mezza fuori e l’attesa la sta snervando. Non ho spazio per spostarmi, faccio segno di no con la testa, pregando non ceda anche lei alla tensione.
L’indice sul grilletto trema. Sigrid ansima dietro la museruola della mia mano e rimane immobile, fissando con occhi lacrimosi la creatura che si prende tutto il tempo del mondo.
Vattene.
La mano trema.
Sotto il ponte, quando Panzer-2 stava per prendermi, quando era lì, sopra di me, e tutto stava per finire, la sensazione era diversa. La paura era diventata rassegnazione. Preghiera di sentire meno dolore possibile.
Qui, con la bestia voltata di schiena, qui la paura è scatenata, libera, è la sensazione più orribile del mondo; è sapere che puoi vivere o morire e dipende tutto dal caso, la sorte, che non si sbriga a decidere.
Siamo mezze sdraiate tra le radici di un albero e non possiamo fare nulla se non pregare che lui non si volti.
Si volta.
Non si volta.
Vattene, bastardo, vattene.
Lucilla stringe la croce.
La croce non ci salverà, non stavolta.
Non è la stessa situazione.
Abbiamo paura e la paura toglie forza ai miracoli. Il coraggio non è una scelta. Il coraggio è istinto.
Se qualcuno tifa davvero per noi, dall’altra parte del mare, se la starà facendo addosso a sua volta.
Una tensione assurda.
Mai vissuta una cosa del genere.
Mai.
Mandalo via, mandalo via, via, via.
Un ultimo verso sconnesso e il sauro infine leva le tende; lo guardiamo scostarsi a passo pesante, allungato in avanti su gambe corte e muscolose, stiracchiare le braccia piegate ad angolo e contratte.
Il senso di sollievo è catartico.
Mi viene da ridere ma mi guardo bene dal muovere un muscolo, anche dopo diversi minuti che il mostro è sparito dalla vista e non se ne sentono più i passi. Mai fidarsi, mai rischiare, mai.
I nostri respiri sono l’unica cosa rimasta da sentire, a parte il canto dei passeri che continua imperterrito.
“Non gridi, no?” Mormoro alla volta di Artemis e lei fa segno di no: la lascio e, per quel che vale, recupero l’uso della mano destra; sposto il fucile tra le ginocchia, reggendolo in una posizione più comoda.
Aveva la dannata sicura inserita.
“Se n’è andato,” Lucilla bisbiglia guardandomi, coi capelli argentati che le hanno coperto parte della faccia.
“Nessuna si muove finché non lo dico io.”
Ho un duplice assenso che poco mi conforta. Fisso le mie scarpe dorate e la frazione di bosco che c’è nello spazio tra l’una e l’altra. Mordo le labbra, normalizzo il respiro.
Aria nei polmoni, aria fuori.
Certe cose che t’insegna l’esercito, gestione del panico, dello stress da combattimento, non avrei mai creduto potessero servire in un fottuto reality. Lo stress da dinosauri non l’ha mai previsto nessuno.
Fanculo a tutto, vorrei solo tornare a casa.
A casa.
Aspetto un tempo interminabile prima di tirarmi su, pressando coi gomiti sulle due caricature di guerriere che mi sono toccate in sorte, ascolto la foresta, osservo, e forse ce la siamo cavata. Della cosa non c’è traccia.
Aiuto Radiosa a rialzarsi in piedi, l’altra il mio aiuto non lo vuole: deve bruciarle non poco l’aver rischiato di perdere la testa.
Ci sta. Al suo posto farei lo stesso.
Respira a fondo per ritrovare equilibrio e cerca di non darlo a vedere. Al suo posto farei decisamente lo stesso.
“Tutto bene?” La apostrofo per sdrammatizzare. A me darebbe un fastidio folle e per questo lo faccio con lei.
Annuisce senza replicare, osserva il fucile rimasto nella mia mano, poi me.
Non avrebbe sparato se la bestia ci fosse venuta addosso, era troppo spaventata, troppo persa; lei lo sa, io lo so. Rimetto la sicura e le getto l’arma con un gesto di superiorità che mi merito ampiamente.
Lei lo sa, io lo so.
“Cos’era quello?”
Per quanto fosse grosso non era della taglia di Panzer-2; saranno stati sei metri di animale, un po’ tozzo, muscolare, col muso corto e arrotondato. Una roba diversa dall’aberrazione nel canyon.
Lei mima il gesto del corno sul capo. “Majungasaurus crenatissimus.”
“Ma che bel nome.” Allungo un buffetto sul viso ancor più pallido del solito di Lucilla. “Dai, oh, non è successo niente.”
“Se ci avesse prese…”
“Quelli sono dei diavoli,” il tono di Artemis è quello da film horror, da profezia di sventura, “Ti sbranano viva, neanche t’ammazzano prima…”
“C’è differenza?”
“C’è una GROSSA differenza.”
Vero. Panzer-2 prima uccide e poi mangia. Majunga invece fa tutto assieme. Stronzo d’un dinosauro.
Se ci penso mi sale l’ansia.
Non ci penso.
“Muoviamoci,” riprendo le redini dell’improbabile scampagnata, “Quanto manca al posto?”
Sigrid controlla il telefono, le trema la mano. “Non molto, ancora una mezzora.”
“Sticazzi. Avanti, allora.” M’incammino per prima per dettare il passo, Lucilla si spolvera la terra dal culo dei jeans con un gesto tanto erotico quanto involontario.
Sembra assurdo che una così esista sul serio. È il ritratto dell’innocenza.
Torniamo a marciare nel bosco, coi nervi tesi e l’attenzione di nuovo a mille.
 
***
 
Frammento 7 – Intervista a Taif Cammarata, concorrente Ondata 9
 
Il pubblico applaude forte.
“Benvenuta, benvenuta.”
Taif si volta verso la platea, manda un bacio accennato, sorride con tratti che sono la sintesi perfetta tra splendore d’Europa e splendore d’Africa, come la carne, di una tinta appena ramata; ringrazia con un cenno della mano. Versi di approvazione si mischiano agli applausi mentre lei si accosta alla poltroncina e siede con gesto aggraziato.
“Non capisco,” Nadia sorride e scuote la testa, “Se questo plebiscito sia per te o per i tuoi jeans.”
Taif ride, così il pubblico.
“Eh, tutto può essere.” Si appoggia le mani sulle cosce, sui jeans di un blu elettrico attillati e decorati da fitti strappi sotto i quali splende pelle lucida come uno specchio.
“Mica li porterai sull’isola?”
Ride. “Non ho ancora deciso…”
“Quanti anni hai, Taif?”
“Venticinque.”
“E hai origini sudafricane, anche se sei nata qui.”
“Sì, mia mamma è di Pretoria.”
Nadia giunge le mani. “La prima domanda che ti faccio non sarà originalissima, ma è quella che importa di più. Tu hai venticinque anni: sei laureata?”
“Sì, laureata in Economia.” Pausa divertita, sorride col candore dei denti in evidenza. “Pensavo chissà cosa.”
Nadia ammicca. “Non era questa la domanda, in realtà.”
“Ah!” Ride, il pubblico abbozza un applauso.
“Taif, tu hai venticinque anni, sei laureata, hai davanti mille possibili futuri professionali e sociali, so che hai anche lavorato nel campo nella moda.”
“Sì, ho indossato per alcuni marchi.”
“Perciò: cosa ti spinge a rischiare la vita in un’impresa come questa?”
Silenzio. Ravvia una cascata di capelli folti, ricci, di un biondo color messi di grano che parte da un castano d’Africa alle radici. Sorride ma è in imbarazzo. “Non so spiegarlo.”
“Qualcosa dovrai dire, o qui ti mangiano viva.” Una mano sulla bocca all’accorgersi tardivo del pericoloso doppio senso. Voluto.
Taif ride, vaga lo sguardo a terra, accavalla le gambe, si arriccia i capelli con una mano. “È come una specie di… pungolo della coscienza”. Pausa. “Io sono una persona fortunata. La mia famiglia non mi ha fatto mancare niente, ho studiato, preso la laurea, ho fatto la modella. Sì, è vero, potevo continuare così e sarebbe stato normale. Però era da tempo che ci pensavo, che pensavo a quella parte della mia famiglia che sta in Sudafrica, come i miei nonni, che non ha la stessa fortuna e che vive allevando le mucche e le capre, e non posando per i marchi di moda o facendo la influencer su Instagram. Mi sono detta: ma sarebbero fieri di me? Di quello che sono? E così ho pensato: faccio qualcosa di straordinario. Divento una persona diversa ma dentro rimango la stessa; imparo a sopravvivere in un luogo lontano da tutte le cose che ho, lontano da questo,” tira fuori di tasca lo smartphone, modello costoso, “E magari sarò apprezzata per qualcosa che non sia solo il mio viso o il mio corpo.”
Applauso composto.
“Tu sai, ovviamente, che su quelle isole si rischia la vita. Non è un modo un po’ estremo per essere apprezzati?”
“Sì, sì, lo so… Sembra assurdo anche a me, lo giuro, e non ci tengo a essere ammazzata da una di quelle pazze furiose delle Erinni, o mangiata da un… quei mostri. Però l’idea di andare in un luogo che nessuno ha mai visitato prima, fare e vedere cose che nessun uomo, anzi nessuna donna, ha mai fatto e visto prima, beh… Io credo che valga più di una popolarità dovuta solo alla mia faccia e al mio corpo. In fondo,” indica se stessa, il bel fisico tonico e fibroso, “Tante donne possono avere un corpo magnifico, ma molte non sanno farne un uso che vada oltre lo stare immobili di fronte a un obiettivo. Io non voglio più fare parte di queste.”
Mormorii d’assenso.
“A proposito di corpo, ti sei allenata moltissimo negli ultimi mesi in previsione della partenza.”
“Sì,” annuisce, “Ho un personal trainer molto, molto esigente. Ma sono fiera dei risultati.”
Sommovimenti di pubblico, brusio malizioso.
“Penso vogliano tutti una dimostrazione: San Tommaso era niente a confronto.”
Lei ride, si volta verso la platea, scuote la chioma folta e solare, torna da Nadia. “Ma posso far vedere?”
“Anche perché sennò non ti fanno andare via.”
“Faccio?”
“Prego.”
Taif si alza, le gambe forti e solide quasi brillano a specchio tra gli squarci del jeans. Abbranca l’orlo inferiore della maglia a maniche lunghe, attillata, grigio silice, e la solleva a metà altezza: muscoli addominali guizzano per un momento sotto pelle del colore del rame. Il pubblico applaude di gusto, Taif mostra la lingua tra i denti e un piercing giada fa capolino per un attimo, strizza un occhio, ringrazia, abbassa la maglia.
Si risiede sullo strascico dell’entusiasmo.
“Una tartaruga da Spartano, praticamente.”
Ride. “Sì, sì, me lo dicono tutti!”
“Una buona preparazione fisica è importante per affrontare le insidie di Illumina, ma da sola non basta. Occorre anche saper usare delle armi: in cosa ti sei addestrata?”
“Eh, ho dovuto spaziare. Il maestro d’armi che il network ci ha messo a disposizione insegna tutto, mi ha aperto un mondo, è una persona straordinaria. Uno pensa che un fucile d’assalto sia pericoloso solo con la canna puntata, invece no: ci sono modi incredibili coi quali puoi colpire un nemico. Non avrei mai immaginato niente di tutto ciò fino a pochi mesi fa.”
Silenzio ammirato.
“A proposito di quello che hai accennato: non ti spaventa l’idea di dover usare la violenza contro altri esseri umani, altre donne in particolare?”
Respiro profondo, capelli ravviati con una mano. “Guarda, è un pensiero che ti fai, ce lo saremo fatte tutte prima di firmare. Alla fine è violenza relativa. In Sudafrica i miei nonni hanno patito l’apartheid, l’odio per il colore della pelle. Quella è violenza che mi spaventa, quella vera, senza regole o con regole ingiuste: questo invece è come un gioco di ruolo; non premerò il grilletto contro persone innocenti o sprovvedute, ma contro altre donne che hanno il mio stesso scopo. Alla fine siamo tutte d’accordo e lo si accetta. Poi io non odio nessuno, se dovrò uccidere lo farò consapevole delle mie azioni e senza rancore.”
Nadia annuisce con un certo meravigliato stupore. “Non so quante al tuo posto avrebbero la stessa pacatezza.”
“Beh, per diventare straordinarie bisogna pur cominciare da qualche parte. È una forma mentis.”
Risate incerte del pubblico.
“Siete state molto criticate per questo. Una parte della rete, quella che considera Superpredatori un’aberrazione, trova ingiusto che la violenza venga enfatizzata e spettacolarizzata come il reality propone, anche se chi vi partecipa è adulto e consenziente. Qual è la tua opinione?”
“Mah, guarda, io credo che come si è liberi di far del male a se stessi, lo si deve anche essere di farlo agli altri, purché ci sia il consenso. Alla fine, come dicevo, è una specie di sport estremo, non è guerra o violenza vera e propria.”
Vociferare misto a cauti applausi.
“Il nome di battaglia che hai scelto è Cerbera: ce lo spieghi?”
 Ridacchia. “Sì, sì, tutti pensano che c’entra il cane a tre teste, ma in realtà è il fiore.”
“Quale fiore?”
“La gerbera. Ma io da piccola pensavo che fosse la cerbera, e poi mio papà dice che sono gelosa di lui come un cane da guardia, e così… Cerbera.”
Ridacchia e il pubblico con lei.
Nadia sorride della sua ingenuità.
“E come vedi l’Ondata 9? Non sei preoccupata dello strapotere delle Erinni? Hanno falciato tutte le ondate precedenti.”
“Sì, beh, sarà una bella sfida. Le Erinni sono forti, conoscono il terreno, ma noi siamo più toniche, più preparate, più fresche soprattutto. Mi dicono che sarò in squadra con una soldatessa veterana, un’esperta di caccia, una tiratrice scelta: batteremo le Erinni, è un impegno che mi sento di prendere.”
“Sicura? Altre sono partite con la stessa baldanza, ma poi…”
“Non deluderemo i nostri fan. In tanti ci chiedono di far piazza pulita di quelle pazze assassine, e ti confesso che un po’ sono contenta di poterle affrontare e sconfiggere: dopotutto sono state loro a portare la violenza nello show a un livello nuovo e mai visto prima, loro sono il cattivo del film e noi le brave ragazze che le prenderanno a calci nel culo.”
L’applauso del pubblico diventa ovazione.
La telecamera indugia sul sorriso smagliante di Taif Cammarata.
 
***
 
Il bosco si è infittito e ha preso a salire.
Ci avviciniamo, stando alle mappature, al massiccio centrale: un’area di rilievi piuttosto estesa e variegata che spazia dalle brulle rupi verso nord ai più lievi e verdeggianti costoni a sud.
Che il terreno salga è una buona notizia: tra gli alberi più ammassati e gli spazi ridotti non ci vedo carnosauri di grossa taglia ad aggirarsi troppo liberamente. Non è il loro terreno.
Pensavo di essere stanca, invece è più di mezza giornata che camminiamo e ancora si va avanti, con solo qualche remota stilla di fame e sete.
L’acqua l’abbiamo riempita in un ruscello che per un certo tratto ha fiancheggiato il percorso.
Saliamo, anche se è una salita graduale, non impervia, tra alberi di largo fusto e felci, seguendo grossomodo il costone che delimita il dislivello.
“Ci siamo,” Sigrid si anima di colpo, consulta brevemente il telefono poi accelera il passo, “Ci siamo, è qui.”
Speravo di sentirglielo dire da un’ora a questa parte, forse più.
“Qui, qui,” punta diritta verso lo spazio aperto, il costone, dove il cielo è sgombro e la vegetazione finisce; la seguiamo a passo sostenuto.
“Da qui dovrebbe vedersi.”
Scostare le poche frasche che ancora si frappongono è un piccolo gesto liberatorio, è scoprire il cielo terso del pomeriggio dopo che s’era dileguato all’infittire della boscaglia.
Siamo piuttosto in alto.
Sotto di noi c’è la foresta, un corso d’acqua, c’è il pendio che sale e che si delinea in ambo le direzioni. Per un attimo sono Exilles sopra la parete a strapiombo e davanti a me c’è Illumina nella sua parte visibile.
Un brivido.
Quel suono.
La cosa immensa dietro di lei.
“Ehi,” la mano di Artemis mi s’appoggia sul braccio, un contatto insolito, “Giù”: m’accovaccio sull’erba, tra piante che assomigliano a insalata. Seguo il puntare del suo indice, verso sinistra, in tutt’altra direzione.
Il posto è lì, in piena vista.
Il secondo covo delle Erinni dopo quello sulle rupi.
Dischiudo le labbra in un moto che è sorpresa, meraviglia e una fottuta dose d’invidia.
Non so quante centinaia di metri distante, in basso, incastonato contro la parete rocciosa dei primi rilievi a nord, sistemato in un’ampia radura, sta quello che più assomiglia a un accampamento militare fortificato. Penso alla nostra torre in rovina e mi viene da piangere.
“Che roba,” Lucilla mormora meravigliata, “L’hanno costruito loro?”
“Non è possibile, no.”
Anche da questa distanza si distinguono i blocchi di cemento sagomato che formano il perimetro, sormontati da rete d’acciaio e filo spinato in cima. Una roba che anche cento stronze messe su un’isola non potrebbero mai fare, mai, neanche fossero tutte e cento come me. Neanche fossero cento Atreja.
“È un altro set del cazzo. Ci vuole un reggimento e dei genieri per costruire una cosa del genere. E delle gru. Porco schifo, guarda là,” indico la recinzione che, a intervalli regolari, ostenta delle piccole luci rosse che lampeggiano con flemma. “Sono elettrificate. Queste bastarde hanno una recinzione elettrificata per tenere fuori i dinosauri di merda, e noi abbiamo le foglie. E la palizzata di legnetti.”
Vorrei bestemmiare, mi trattengo solo perché la croce e Panzer-2 vagano per un momento nel mio personale subconscio.
“Te l’avevo detto,” mastica Sigrid, nervosa, “È un fortilizio, una cosa imprendibile, anche fossimo tutte e dieci.”
“Le altre sono state portate qui?”
“Sì.”
“Ne sei sicura?”
“Ho detto di sì!”
Scruto il campo fortificato mordicchiando le labbra, la mente lanciata in piena corsa su pensieri più o meno assurdi. Una parte di me ha una voglia folle di dare fuoco a quel posto, vederlo bruciare e ballare in mutande sulle sue ceneri.
Ha ragione Artemis: non è prendibile in dieci, figurarsi in tre. Senza armi.
C’è un cancello, piuttosto piccolo, a metà del perimetro, che sembra essere l’unico punto d’accesso. C’è una garitta, sul lato destro. Oltre la muraglia di blocchi di cemento c’è un piazzale vuoto, sabbioso, e oltre ancora tutta una serie di prefabbricati in lamiera e qualche tenda, in un certo vago ordine, prima della parete rocciosa che, sul lato nord, chiude la pianta del campo con una barriera invalicabile.
“Se minassimo la rupe e gliela facessimo crollare addosso?”
Mi guardano come se avessi ruttato col succo di frutta. A dieci anni lo sapevo fare.
“E quello?” L’occhio mi cade su qualcosa che non avevo colto a prima vista. Indico verso la parete di pietra con un certo, malcelato nervosismo. C’è una fenditura a metà esatta della muraglia, come un passaggio aperto nella roccia, naturale, che porta chissà dove del tutto fuori dalla nostra visuale. Appare persino protetta, l’entrata, da una rudimentale, grossa porta di legno.
“Sembra quasi,” mimo con le mani, “Che tutto il fottuto campo sia messo a protezione di quel passaggio.”
Ed è vero, so che è vero. È proprio a metà del muraglione naturale, con il perimetro di cemento, a semicerchio, quasi equidistante da quel particolare punto.
Assurdo.
Logico.
“Cosa c’è dall’altra parte del passaggio?”
Il silenzio di lei dice che ne ha idea quanto me.
“Va bene,” rompo gli indugi, “Voglio vedere più da vicino. Scendiamo.”
“A che serve? Non possiamo attaccarlo!”
“Devo avere un indizio, uno, che le altre siano ancora in vita.”
“Tanto non le possiamo salvare!”
“Lo vuoi far decidere a me, cazzo?”
Tace spazientita. Attende un lungo attimo poi accenna col capo, “Scendiamo, allora.”
Si avvia di nuovo tra gli alberi facendo strada.
Non ha i nervi saldi. È una ragazzina spaventata che si è cacciata in qualcosa di più grande di lei. E ha una paura fottuta delle conseguenze.
Tutte ce l’abbiamo, ma io non ci penso. Non ci voglio pensare.
Lei ha troppo da perdere.
Lucilla attende me per avviarsi al seguito.
 
***
 
Scendere in direzione del fortilizio delle Erinni è più semplice di quanto credessi; il rilievo degrada senza eccessiva cattiveria verso il forte, procedendo quasi a terrazzamenti, del tutto naturali, densi di alberi e cespugli che offrono protezione.
Il punto più vicino che riusciamo a trovare dista meno di duecento metri dal perimetro e svariati di altezza, celato dalla vegetazione fitta; se questo campo è ben protetto da bestie e attaccanti, di certo ha i suoi limiti in quanto a riservatezza.
Acquattate nell’erba, celate da ampi arbusti, osserviamo pigramente la struttura e le alte reti che la circondano; fantasie cinematografiche di mostri preistorici che la devastano cullano il mio ego criminale.
Sigrid ravana nello zainetto, ne toglie un binocolo, me lo porge: il suo modo per farsi perdonare la pochezza sul costone, prima. Nel bosco, ancora prima.
“Non ci facciamo mancare niente,” commento rigirandomi l’apparecchio, che deve costare un fottio, roba da professionisti. Mi metto comoda, inizio a scrutare verso il cancello, poi la garitta: è una torretta con copertura in lamiera, sopra e ai lati. Sembra vuota, al primo sguardo, ma una sentinella dentro c’è, una donna seduta che legge.
Un’Erinni, col berretto da ranger, che legge. Riesco persino a vedere il tavolino che ha a fianco, con dell’acqua, dei biscotti, un mini-cactus dentro un vasetto fatto con la latta dei pomodori. E una radiolina.
Ha una radiolina accesa che, quando portata dal vento, spande le sue canzoni.
Dev’essere una giornata impegnativa la tua, eh, stronza? Chi vi viene a dar fastidio a voi, chiuse dentro questa bella fortezza?
“Pazzesco.”
Legge, ascolta la musica, non ha neanche bisogno di fare la guardia: in pieno giorno, con tutto quel tratto sgombero intorno, si accorgerebbe dell’arrivo di un sauro o di tre cretine con largo anticipo. Anche bendata.
Intravvedo un fucile di precisione, poggiato lì accanto.
Abbasso il binocolo con la mente che vaga su sentieri di rabbia e frustrazione.
“Puntala,” accenno verso Sigrid; lei mi guarda, chiede se faccio sul serio, io faccio sempre sul serio.
Impreca; si mette su un ginocchio, sistema il fucile, ravvia i capelli, appoggia l’occhio sulla lente del mirino.
“Hai una linea di tiro?”
Fa una smorfia, concentrata sull’allineare la canna.
“La vedo.”
“Riesci a spararle?”
Ha una leggera contrazione, muove le dita che tiene vicine ma non sul grilletto. “Penso di sì. Ma è un attimo che sbaglio, tra la tettoia, la paratia…”
“Non voglio scuse: se ti dico di farlo, le fai saltare la testa?”
Deglutisce. “Ci posso provare.”
“Provare un cazzo: ce la fai o no?”
Lucilla osserva preoccupata, io guardo Artemis: la postura è buona, la concentrazione meno. È tesa e se sei tesa non puoi sparare bene. Sicuro. Garantito.
“Perché vuoi che le sparo? Non ci faremo scoprire?”
“Non ti ho dato l’ordine di ucciderla, ho solo chiesto: ce la faresti a seccarla?”
Silenzio nervoso. Respira profondo. “Sì.”
“Allora preparati.”
Toglie la sicura, aggiusta ancora la postura.
La osservo, ogni dettaglio, ogni muscolo: ha un’altra leggera contrazione. La sto facendo giocare con la vita di quella donna ignara e il suo corpo manda qualche segnale di dubbio.
“Al mio ordine.”
“Va bene.”
Il respiro le accelera di un ulteriore grado.
“Rispondi sissignora, cazzo.”
Esita. “Ma non ci scopriranno così?”
“Non è un problema. Voglio vedere la testa di quell’Erinni bucata da parte a parte.”
Esita di nuovo. “Okay.”
Ne ho già vista una, di testa bucata da parte a parte, in Afghanistan, a Kandahar. Ce l’ho spedito io il colpo. Era una donna incinta. Armata.
Non mi hanno creduto.
“Al mio ordine.”
“Sissignora.”
Ha un che di eccitante farsi ubbidire da questa ricca biondina dell’alta società. Sarà anche una buona cacciatrice di fagiani, ma sparare a una persona è un’altra cosa.
Momento carico.
Silenzio.
La mano le trema leggermente.
Accenno distratta. “Abbassa l’arma.”
Ubbidisce espirando duro, guardandomi in cagnesco. “La devo ammazzare o no?”
“Sei scema? Vuoi farci scoprire?”
Occhi glaciali mi scandagliano per capire se sono pazza, stronza o se la prendo palesemente per il culo. È un misto delle tre cose. Lucilla sorride tenue.
“Quando ci sarà da sparare sul serio,” scuoto la testa, grave, “Tu non ce la farai. Me lo sento.”
“Vaffanculo. Io ce la farò.”
Non le do la soddisfazione di una replica e ritorno a osservare il forte col binocolo. Oltre perimetro di cemento e rete elettrificata c’è uno spiazzo vuoto e sabbioso prima delle tende e dei prefabbricati. Da vicino si vedono più dettagli, come le rastrelliere sulle quali grandi foglie asciugano al sole, o i tini dove viene raccolta l’acqua piovana. Gli strani totem che punteggiano qui e là la struttura, come acchiappasogni degli indiani d’America.
“Ma quante sono?” Lucilla osserva perplessa e la sua obiezione ha un senso. Erano una ventina quando ci sono saltate addosso, poco dopo il nostro arrivo, ci aspettavano. Erano una decina quando ci hanno scortate alla rupe, e altre le attendevano lì. Ora scopriamo che hanno un intero campo fortificato, che qualcuna avrà presidiato in assenza delle altre.
Controllo i vari tendaggi e le casupole: non saranno tutti occupati né pieni, ma almeno una ventina di persone è logico che questo posto le ospiti.
Possibile che siano così tante?
“Le prime Ondate erano più grosse,” puntualizza Artemis, scrutando a sua volta il forte.
“Atreja era nella seconda Ondata. Può aver perso così poche compagne in tutti i mesi passati qui?”
“Secondo me ha reclutato nelle Ondate successive. Per questo sono così tante.”
Ha un senso. Al suo posto avrei fatto lo stesso: tieni le più valide e massacri le altre, per fare spettacolo. L’ho fatto anche io, le ho detto che volevo diventare un’Erinni, tradire le mie compagne. Non ne vado fiera, non avevo scelta.
Non mi ha voluta.
Non si fidava, forse.
“In fondo ha preso Candy con sé.” Lucilla vaga con la mente e nel dirlo non ha quel senso di fastidio viscerale che invece sento io.
“Vero.”
Ha salvato una di noi, la più scarsa e inutile, perché ucciderla non sarebbe stato produttivo quanto uccidere noi, darci alla bestia. Per la visibilità, l’indice di gradimento, eravamo le migliori, le più seguite dal pubblico: non poteva tenerci in vita.
Come sapeva tutte queste cose?
La suora guarda consapevole, in fondo l’aveva detto, Atreja sa parecchio, su tutte noi: fatti due domande.
Mi faccio due domande ma non ho risposte, o nessuna concreta.
“Se le volesse convertire? Le nostre cinque compagne.”
Abbasso il binocolo e la guardo, la suora dai capelli di platino, che fissa il campo dell’arcinemico con serena noncuranza.
“Reclutare, semmai.”
“Sì.”
Reclutare le nostre compagne, farle diventare Erinni. Ha un senso. E quando avrà quaranta, cinquanta seguaci? Che s’inventerà il QG per tenere vivo lo show? Nuclearizzeranno l’isola?
“Allora è doppiamente inutile tentare di salvarle,” Sigrid inspira e siede in terra, occhiate truci verso la garitta dove la sentinella s’è alzata, ha fatto un breve giro nell’esiguo spazio della torretta, controllando i dintorni, e s’è riseduta.
“Magari invece loro non vogliono tradirci.” L’ingenuità di Lucilla è sempre in qualche modo confortante.
“Avranno detto loro che siamo morte, che non hanno scelta, unirsi alle Erinni o crepare: tu che faresti al loro posto?”
Lei porta una mano al crocifisso che le pende sulla maglietta. “Il martirio è sacro, l’apostasia peccato.”
“Non ho capito che hai detto,” intervengo diretta, “Ma la cecchina qui non ha torto: se vogliono convincerle a passare dalla loro parte non faranno fatica. Non conosco nessuna di quelle là, ho solo stretto loro la mano prima di salire in elicottero. Non mi ricordo neanche che faccia abbiano, a momenti, non so dirti se resteranno con noi o passeranno con le Erinni, ma so che sarebbero stupide a non farlo. Stupide o folli,” un po’ come te, ma non lo dico. Fino a una settimana fa non mi sarei fatta lo scrupolo.
Lucilla fissa il vuoto, poi me. I suoi occhi scuri sembrano quelli di un dipinto su tela. “Allora cosa facciamo ancora qui? Tanto vale tornare indietro finché c’è luce.”
Riporto il binocolo su e riprendo a scrutare il forte; non sembra esserci anima viva, anzi no, due Erinni stanno bivaccando verso il fondo del campo, non lontano dalla recinzione di legno che protegge il varco nella parete di pietra, del quale non scorgo alcun dettaglio rilevante; entrambe con uniforme oliva e corpetto beige. Siedono accanto a un fuocherello sul quale una qualche bevanda scalda.
Se la contano come due fottute comari, i fucili lì accanto. Sembrano giovani, dalla distanza.
Nessun’altra è in vista, saranno tutte rintanate nelle tende o magari nel fabbricato più grande, lungo e stretto, che sta in centro all’area e ha tanto l’aspetto d’una sala comune, unica struttura col tetto spiovente, per evitarsi le ore più calde della giornata.
Come passeranno il tempo? Avranno le carte? Una radio? La televisione?
Mi sovviene tutta la noia di stare chiuse lì, per giorni e giorni, in attesa della prossima Ondata da annientare. Andranno a caccia di dinosauri? A pesca? Si terranno in esercizio o saranno lassiste e pigre?
“Che facciamo?” Sigrid alza di spalle, “Ce ne andiamo?”
Atreja le avrà informate della nostra fuga? Atreja sarà qui o sulle rupi?
“Quindi?”
Abbasso il binocolo, seccata. “Stasera esci?”
“Cosa?”
“Che fretta hai? Ci siamo fatte il culo a venire fin qui, minimo voglio vedere tutto quello che c’è da vedere prima di andare via. E capire se almeno una di quelle cretine della nostra squadra è ancora viva.”
“Se fa buio e non siamo arrivate alle spiagge io non lo so come passiamo la notte.”
“Sugli alberi.”
“Sì, vabbé.”
“Non sto scherzando.”
 
Non so quanto tempo è che osservo, cazzeggio, riosservo e ricazzeggio. Non succede molto laggiù.
Qualcuna girovaga, c’è un cambio della guardia sulla garitta, qualcuna si avvicenda al fuocherello.
Le mie due compagne danno segni d’insofferenza. Lo capisco. Di solito non sono paziente neppure io, ma stare qui, in relativa sicurezza, a osservare il nemico ignaro mi conforta.
È come essere, per una volta, in vantaggio su di loro.
Per una volta.
Mi sento come stessi facendo il mio lavoro, il mio dovere, senza patemi e senza affanni, senza neanche pensare che tra qualche ora farà buio e noi saremo ben lontane dalla sicurezza della torre.
Ci vuole ancora qualche minuto perché le cose cambino.
Sono in quattro, anzi cinque: escono dal caseggiato lungo, quello che sta in mezzo a tutti gli altri, puntando a passo deciso verso la zona sgombra che sta tra quello e la recinzione.
“C’è movimento,” mormoro per risvegliare l’interesse.
Il quintetto avanza, poi si ferma.
C’è qualcosa, sul suolo, qualcosa che non ho colto in tutto il tempo che ho passato a osservare. Si fermano accanto a una lastra di metallo a terra, un rettangolo coperto di polvere della grandezza d’una bara. Una botola, un vano interrato, qualcosa che sta sotto il terreno.
Un ferro viene tolto, poi la lastra sollevata sui cardini, come una porta.
Due delle Erinni si chinano fin dentro l’esiguo spazio e quello che portano fuori sono un paio di braccia, poi una chioma chiara e arricciata, folta come una criniera. È una testa che ciondola inerte e poi un corpo, un corpo di donna in abiti laceri.
“Cazzo,” mormoro a mezza voce, con Sigrid che punta il fucile per guardare attraverso il mirino e Lucilla che sforza gli occhi dalla distanza, una smorfia stupida dietro l’altra.
“Quella,” umetto le labbra ora asciutte, “Quella è dei nostri.”
Sto guardando la figura esanime di una delle prescelte dell’Ondata 9, quelle che avrebbero dovuto distruggere le Erinni, ribaltare il pronostico, ridare ossigeno allo spettacolo.
Il nuovo fenomeno di Superpredatori.
Non ricordo il nome ma ricordo i capelli leonini, inconfondibili.
È la mezza sudafricana.
Tenuta in un buco nel terreno, chissà da quanto.
Un brivido.

***
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Messaggio Da Petunia Gio Ago 26, 2021 3:20 pm

Allora @Fante…
altri pezzo ad alta tensione. Tanti, troppi, come ti ho già detto, i fottuti fottuta fottute…
Mi aspettavo l’ingresso della sudafricana, ma da ciò che hai pubblicato non pensavo che si trattasse di un flashback. Cioè, mi spiego, non pensavo di trovarla prigioniera in una buca dalle Erinni.

Altro filo che è rimasto appeso e comincia a recarmi fastidio, come lettore,. è la faccenda della password fantasma sullo smartphone. Spero che tu “sblocchi” il dubbio prima possibile altrimenti non riesco a gustare appieno quello che viene dopo.😜 perché ho questo interrogativo che mi blocca
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Messaggio Da Fante Scelto Gio Ago 26, 2021 4:14 pm

Petunia ha scritto:Allora @Fante…
altri pezzo ad alta tensione. Tanti, troppi, come ti ho già detto, i fottuti fottuta fottute…
Mi aspettavo l’ingresso della sudafricana,  ma da ciò che hai pubblicato non pensavo che si trattasse di un flashback. Cioè, mi spiego, non pensavo di trovarla prigioniera in una buca dalle Erinni.

Beh, sì, ogni Frammento è sempre un flashback, e ha la funzione di introdurre un personaggio che sta per entrare in scena, oppure approfondirne uno già noto.

Altro filo che è rimasto appeso e comincia a recarmi fastidio, come lettore,. è la faccenda della password  fantasma sullo smartphone. Spero che tu “sblocchi” il dubbio prima possibile altrimenti non riesco a gustare appieno quello che viene dopo.😜 perché ho questo interrogativo che mi blocca

Eeeehm, la password fantasma è una delle tante cose che non ha soluzione. O meglio, coincidono con la soluzione finale (di cui Exilles è parte) e che quindi arriverà decisamente più avanti. 
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