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SUPERPREDATORI - parte 9

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Messaggio Da Fante Scelto Mar Giu 01, 2021 5:24 pm

***

“Guarda lì!”
Punto di colpo un indice verso il sottobosco, da qualche parte tra le felci e i cespugli di piante che non conosco. Lei si volta, troppo tardi.
“Cosa?”
“C’era una luce.”
Il silenzio, rotto dal canto dei passeracei, diviene per un attimo più freddo; c’era una luce, io l’ho vista, lei no. Magari è un principio di schizofrenia.
La luce si ripete, un bagliore giallo che per un attimo rapisce la nostra attenzione.
“Vedi?”
Ci muoviamo, nell’acqua bassa, smuovendo il fondo.
“C’è qualcuno?”
“Non saprei.”
Brivido.
Gli uccelli cantano: se cantano non c’è niente di troppo grande. Spero.
Il bagliore lampeggia di nuovo.
“Stai qui.”
Le faccio segno di acquattarsi e lei ubbidisce, incerta; avanzo cauta nell’acqua come un incursore di marina, peccato lo stare nuda come una cagna tolga ogni dignità alla cosa. Peccato la caviglia faccia male e il mio passo sia malfermo.
“Zoppichi?” fa lei guardando perplessa.
“Mi hai colpita tu, cretina.”
“Mi stavi strangolando!”
“Zitta.”
Mi sposto verso la luce che, nel frattempo, brilla di nuovo.
Mi accosto alle frasche, mi chino a terra: al lampeggio successivo realizzo di stare guardando un faretto interrato e nascosto tra le piante.
“È una lucetta del cazzo,” biascico, “Solo una luce del cazzo.”
Attendo che s’illumini di nuovo ma non succede. “Non funziona più.”
“Ce n’è un’altra!”
Alzo lo sguardo, attendo qualche secondo poi un identico bagliore giallo, una ventina di metri più avanti, mi riempie le retine.
“Questa si è spenta e se n’è accesa un’altra.”
Scambiamo uno sguardo.
“Sembra…”
“Una traccia da seguire. Era nel corso d’addestramento: segui le luci…”
“…trova qualcosa. Me lo ricordo.” Le faccio un cenno brusco. “Muoviti, andiamo.”
La guardo uscire dall’acqua, inerpicarsi sulla riva, raggiungermi; ci dirigiamo verso il bagliore.
Vaghiamo tra l’erba e i sassi attorno al corso d’acqua, controcorrente, saettando sguardi intorno nel timore di un’insidia. Mi offre un aiuto a camminare che respingo con un gesto stizzito.
Raggiungiamo la luce che smette d’illuminarsi e se ne accende una più distante.
Seguiamo quella e altre ancora fino a un punto, un grosso albero morto, dove la luce è nascosta nel tronco e lampeggia a intermittenza: deve essere l’ultima della trafila.
“Senti?”
Quello che sento è un suono noto, una vibrazione leggera; butto la mano nella cavità del tronco, c’è qualcosa e la forma è quella di un ordinario smartphone. Vibra, vibra come il mio telefono personale quando mia madre mi cerca per dire che ha fatto un casino. Che le serve qualche euro per la spesa.
Davanti agli occhi attenti della suora sollevo il dannato telefono, fisso lo schermo, la chiamata anonima in arrivo.
Trascino il disco verde di risposta.
“Pronto.”
“Mercury.”
“Chi parla?”
“Sono il Master.”
“Tu sei il Master? Il capo di tutto, quello che ha creato lo show, il Master, sì?”
“Sono il Master.”
“Magnifico, signore, ci state guardando, no? Ci guardate?”
“Possiamo vedervi, sì.”
Copro la passera con una mano, bestemmio, la suora fa altrettanto ma senza bestemmia, con un braccio sempre premuto contro il seno.
“Beh, noi ci siamo salvate, sai? Sì, per distruggere le Erinni c’è ancora del lavoro da fare ma abbiamo il problema che siamo nude come troie e senza un’arma, per cui… ci servirebbe un piccolo aiuto, un piccolo aiuto per andare avanti nello show, Cristo Santo.”
“E lo avrete presto. Ora passami Radiosa.”
Storco i tratti. “Chi cazzo è Radiosa?”
Un istante di vuoto, poi capisco, mi volto verso di lei, le allungo il telefono. “Vuole te.”
“Me?”
“Prendi.”
Lei accetta il telefono con riluttanza, lo porta all’orecchio. “Pronto.”
“Buongiorno, Radiosa.”
Ha un respiro incerto. “Buongiorno.”
“Dobbiamo parlare, ragazza, ma saremo brevi. Ti chiedo di allontanarti dalla tua compagna perché non ti senta.”
“Ma io…”
“Allontanati da lei, o revocherò il vostro invio di rifornimenti.”
Radiosa annuisce, si scosta, mi fa cenno di non seguirla: di nuovo, l’idea di essere tagliata fuori dalla conversazione mi causa l’orticaria. Espiro e accetto la legge del Master, getto occhiate alla boscaglia, al rivo d’acqua che ora è più distante, sulla sinistra. Vogliono parlare con lei senza che io ascolti: queste sono le cose che mi fanno incazzare.
Osservo la suora annuire più volte, spiegare qualcosa, poi sedersi a terra quando realizza di non avere più una mano libera con la quale coprirsi la fica. È del tutto ingenua, quasi infantile, sembra uscita da un cartone animato.
Radiosa.
Si chiama Radiosa, questa specie di monaca, di ragazza prodigio: ancora non so chi sia veramente. Si chiama Radiosa e non lo ricordavo, o forse neanche l’ho sentito durante il briefing; non mi è mai importato molto dei nomi degli altri.
Parlano per un paio di minuti, poi lei si alza, viene a riconsegnarmi il telefono. “Rivuole te.”
Glielo prendo di mano con un gesto brusco. “Pronto.”
“Ascoltami bene, Mercury. Vi sarà inviato un kit di rifornimenti, al crepuscolo, sarà paracadutato da un drone. Cercheremo di farlo cadere più vicino possibile alla vostra posizione.”
“Conterrà dei vestiti, voglio sperare.”
“Li conterrà.”
“Se non ci date dei vestiti io… io pianto su un casino. Tutto il mondo ci ha viste nude e diventeremo materiale per siti porno, Cristo d’un Dio, dateci dei fottuti vestiti o impazzisco.”
“Li avrete, ho detto.”
“E delle scarpe. Voglio un paio di stramaledette scarpe.”
“Avrete anche quelle.”
“Stivali.”
“Non seguo io la casistica dei modelli.”
“Allora dillo a chi se ne occupa: per-me-dei-dannati-stivali.”
“Riferirò.”
“GRAZIE.”
“Ora ascoltami. Dovete andare via da lì. Quelle zone non sono sicure.”
“Per dove?! Non abbiamo una mappa, non abbiamo niente. Non so neanche dove siamo, qui è un attimo, cazzo, è un attimo che finiamo ammazzate da qualcuna o qualcosa.”
“Andate verso la costa, Mercury. Verso il mare: le vostre avversarie cercheranno altrove e i carnosauri avranno più difficoltà a fiutarvi.”
Annuisco, tetra. “D’accordo, verso il mare.” Pausa carica. “Dove cazzo è il mare?”
“Dalla posizione in cui sei rivolta, alla tua sinistra.”
Volto il capo oltre il corso d’acqua, verso la boscaglia più rada. “Sinistra, ho capito.”
“E sfruttate gli alberi, le cime degli alberi, per passare la notte.”
“Okay.”
Una breve pausa all’altro capo del telefono.
“Ora chiudi la telefonata e riponi l’apparecchio dove l’hai trovato. Ne riceverete uno nel kit con dentro le mappature e un canale di contatto ricevente con la Base.”
“Solo ricevente? E se ho bisogno di contattarvi che faccio?”
“Tu non puoi contattarmi, sono io a chiamare voi se e quando lo ritengo necessario. È nel regolamento.”
“Fanculo, grande capo, noi abbiamo visto la morte in faccia, oggi. Noi abbiamo visto la morte, e io non so come sopravvivere a questo posto, quindi non potete abbandonarci così, non siamo in un cazzo di videogioco, contratto o non contratto. Ci avete dato la missione di ammazzare le Erinni, ma io non posso farlo senza una squadra, senza il resto della fottuta Ondata 9, quindi dovremmo cominciare tutti a pensare di rivedere i nostri maledetti obiettivi!”
“Questo è un problema tuo, Mercury. La missione non cambia, dovrai solo cambiare metodo. E non hai alternative.”
“Oh ma io ce l’ho un’alternativa: mi sparo un proiettile in testa e buonanotte al reality, agli obiettivi e a tutti voi sadici del cazzo. È questo che volete? Perché io risolvo tutti i miei problemi in un colpo solo, sai?”
“Sei libera di farlo e di dare la colpa a chi credi: me, il network, la rete o persino alla tua ludopatica madre.”
Silenzio attonito.
“Che ne sai tu di mia madre?”
“Io so molte cose di voi, donna-soldato. Siete le mie creature, le mie principesse guerriere: non avete segreti per me.”
Umetto le labbra, lo sguardo vagato intorno, inquieta. “Non posso sconfiggere le Erinni da sola. Datemi una chance di vincere questo fottuto reality, una sola chance.”
“L’avrai”.
Per un attimo scende un silenzio pesante, come se entrambi sapessimo che non sarà facile, in nessun caso, in nessun modo.
“Mercury.”
“Ti ascolto.”
“Illumina, tutte e tre le isole, sono piene di pericoli, e non parlo solo dei mostri preistorici. Ci sono cose che non potete neanche immaginare, e io voglio mostrarle al mondo. Voglio mostrarle a tutti attraverso di voi”.
“Cos’è questo posto? Perché ci vivono delle cazzo di bestie rettiliane?”
“Scopritelo: avete i mezzi e le qualità per farcela. Ci sono segreti nascosti laggiù, cara, cose da sfidare la ragione. Io le ho viste, prima che questo reality iniziasse, le ho viste, le ho comprese, adesso tocca a voi. Portate avanti lo show, svelate le ombre di Illumina, e ti garantisco che alla fine sarà meraviglioso. Dimostrate al mondo che ho ragione.”
“Ragione su cosa?”
Lo intuisco sorridere ed è la sensazione più brutta del mondo.
“Sopravvivi, ragazza, è l’unica cosa che conta. Trova il modo: è tutto a tua completa discrezione. E poi,” lo sento respirare carico, “Avete fermato un carnosauro con una croce: avete di che cavarvela.”
Sposto gli occhi su Radiosa che attende immobile, con lo sguardo leggermente dilatato. La linea cade.
Rimango a fissare il nulla per un momento lunghissimo, prima di riporre il telefono nel tronco, dove l’ho trovato.
“Che facciamo?” mormora lei.
“Andiamo verso il mare. Ci mandano dei rifornimenti, ma stanotte. Dobbiamo andare verso il mare.”
“E dov’è il mare?”
Le faccio un cenno del capo verso sinistra. Non attendo risposte: m’incammino a passo malfermo nella boscaglia e lei segue da presso.

***

Frammento 3 - Intercettazione telefonica (Silvia Irace – I)

“Mamma."
“Silvì, ciao. Dove sei? Ma stai bene?”
“Sto bene sì, quando mai me lo chiedi?”
“Ma dove sei?”
“Sto in banca, in coda.”
“Ah, brava Silvì, e preleva qualcosa che devo fare un po’ di spesa.”
“Mamma non c’è niente sul conto, sto qui a supplicare che mi facciano un prestito dilazionato, lo capisci, sì?”
“Ma bastano cinquanta euro, che sarà mai?”
“Ma per cosa, cosa devi comprare?”
“Eh un po’ di spesa, qualche cosetta per la settimana…”
“Mamma sei già andata sabato! E se non ti seguivo tu neanche ci andavi al market! Cristo, tu stavi andando alle slot! Coi miei fottuti cento euro!”
“Silvì non mettere in mezzo Gesù che Lui non c’entra niente.”
“Ah, okay! Non abbiamo un soldo, sono in banca a supplicare come una pezzente di merda e il problema è mettere in mezzo Gesù!”
“Ma dal lavoro più niente ti mandano?”
“Sono stata congedata! Cosa non ti è chiaro?! CON-GE-DA-TA! Non mi spetta niente e ancora grazie che non mi hanno sbattuta dentro! Ma forse era meglio se finivo dentro, Cristo, almeno tutte queste cose di soldi io non ne sapevo più niente e vivevo felice!”
“Non dire queste cose, Silvì, che in prigione è una brutta cosa.”
“Sempre meno brutta di stare qui fuori alla fame.”
“Ma non lo puoi trovare un altro lavoro anziché supplicare alla banca?”
“Ma a fare cosa, mamma? Chi mi prende? Io non so fare niente, ho un diploma che se me lo scrivevo io sulla carta da cesso valeva di più! Dove vado a lavorare io?!”
“Vai da zio Carmine, già te l’ho detto, che vuole una segretaria carina e gli fai da segretaria.”
“Sììììì, come no! La segretaria, io! A quel cornuto pervertito, lo sai cosa vuole quello? La segretaria ma un altro tipo di segretaria”.
“Ah, tutte le volte con questa cosa. Ma quel pover’uomo che ti ha fatto mai?”
“Lo sai che mi ha detto cose schifose quando stavo da lui i pomeriggi, quindici anni fa. Mi ammazzo piuttosto che lavorare da lui.”
“Eh, sempre tutti a te vanno a cercare i pervertiti e i porcelli, guarda un po’. Ma sei l’unica al mondo che c’ha la cosina tra le gambe?”
“Mamma quando dici queste cose io, veramente, ringrazia che sto in banca.”
“Ma poi tu ti schifi a fare la segretaria, ma se staresti così bene col vestito elegante e gli occhiali.”
“Ma non è che una che fa la segretaria deve per forza avere… oh, ma perché non posso avere una madre normale?”
“E se non vuoi fare la segretaria perché non fai di nuovo la soldatessa? Andiamo a Brindisi, lì so che c’è un cugino di tuo padre che stava nell’esercito…”
“Mamma ma non è che ti cacciano qui e vai a farlo in un’altra città! Io ho sparato in testa a una per difendermi, loro non ci credono e io non posso più fare il soldato né qui né a Brindisi né in culo a Giove! Cazzo!”
“Ma quanto sei volgare, Silvì, mamma mia, non ti si può sentire quando fai così. Ma una bella ragazza come te può esprimersi come una pecoraia?”
“Ma saranno affari miei?!”
“E poi frigni che nessun uomo ti vuole, e hai trent’anni, e stai da sola, e quelle cose lì.”
“Ma quando mai? Ma stai sugli alcolici oltre che alle slot adesso?!”
“Perché non puoi fare come Alessandra, che è così fine? Lo vedi quanti le girano attorno tutti i momenti?”
“Mamma non farmi alzare la voce che già mi guardano tutti. Possiamo parlarne in un altro momento? Che sennò bestemmio.”
“Non si bestemmia Gesù, mai.”
“*incomprensibile*”
“E ricordati i cinquanta euro da prelevare, grazie.”
“Non ce ne sono! NON-CE-NE-SO-NO!”
“Ma sì, ma sì, fai con calma.”
*un singhiozzo come di pianto*
“Mamma mi hai speso tutto, ti sei giocata tutto…”
“Ci vediamo a casa. Stasera faccio la pasta al forno.”
 
***
 
La foresta si è infittita. Le piante hanno assunto forme nuove che non ricordo d’aver mai visto prima.
Il canto degli uccelli si alza e abbassa senza una logica apparente; in certi punti diventa così intenso da assordare e non cala neppure al nostro passaggio. Interi rami brulicano di passeracei dalle tinte azzurre che pigolano, schiamazzano e si affollano come per guardarci camminare nude tra il fogliame: sembrano schiere di minuscoli pervertiti.
La caviglia fa male anche se ho trovato il modo di camminarci sopra col minimo sforzo. Non siamo veloci, tutt’altro.
La mente insegue pensieri limitati, il nesso pericoloso tra una gamba malferma e la comparsa, non so quanto probabile, di uno di quei mostri. Non ho idea di come abbiano fatto bestie del genere a conservarsi in vita per tutto questo tempo su un trio di isole vergini, non ce lo hanno mai spiegato. Forse non lo sanno neppure loro.
Sono davvero dei dinosauri? Erano così i dinosauri?
Non sono animali di questo mondo, o non più. Mi piacciono gli animali, di solito più delle persone.
Conosco gli animali. Da piccola leggevo un sacco di cose sugli animali.
I dinosauri no, non erano per me.
Non li conosco, non ho idea se fossero verdi, belli, brutti, stronzi o buoni. So solo che erano grandi e alcuni fottutamente arrabbiati.
Conosco gli animali, ma questi no, questi sono un altro paio di maniche.
“Cosa vi siete detti?” Rompo il silenzio che sta diventando oppressivo, “Prima, al telefono.”
Radiosa occhieggia, alza di spalle. “Voleva sapere anche lui come ho fatto.”
“La croce?”
“La croce.”
“E che gli hai risposto?”
Occhieggia di nuovo, infastidita. “Lo stesso che ho risposto a te.”
“Dio, eh?” Sorrido ma un brivido mi passa tra le spalle.
“C’è un quadro,” la sua voce incupisce come il volto, “Un quadro nell’abside di San Candido. Un uomo di fede solleva la croce e allontana il demonio nei suoi tre volti. Ho usato l’unica arma che avevo.”
Altro brivido. “Quali tre volti?”
“L’Uomo. La Bestia. L’Incubo.”
Mi sfugge un riso nervoso e un certo freddo sulla pelle, l’aria che va rinfrescando. “In questo posto di merda abbiamo Donne e Bestie: speriamo il demonio ci risparmi almeno la terza faccia.”
“Non parlare di queste cose. Non ne voglio parlare.”
Di nuovo la sensazione di qualcosa di più grande s’insinua tra un respiro e l’altro.
Odio Dio. L’ho sempre odiato, dal primo momento in cui ha cominciato a costellare la mia strada di ostacoli.
Non lo so se c’è Dio. Spero di no, ma ho paura di sì. A volte ho paura di sì.
Ti è brillata la testa mentre alzavi quella dannata croce, ma non lo dico. Vorrei ma non lo dico.
Non trovo la forza, il fiato, il coraggio. Forse neanche è successo, l’ho immaginato, avevo paura, era la vita che mi passava davanti. Forse la vita splende e balugina quando sta per finire. Forse per Rita è stato così: l’immagine del suo corpo sbalzato in aria e compresso tra i denti della bestia s’insedia da qualche parte e lì rimane, in loop. Per un attimo, io sono lei e guardo la terra dall’alto, con zanne nel costato e sangue sulla pelle.
Ti è brillata la testa.
Ma non lo dico, mi fermo, una vertigine. Vorrei lei lo notasse, mi chiedesse e vorrei chiudere la cosa con un gesto brusco. È da tanto che nessuno mi chiede come sto, quali cazzi ho per la testa. Cosa pensi, sei felice?
Non sono felice. Non ricordo di esserlo mai stata.
Vorrei mi chiedesse come sto.
“Mercury.”
Grazie. La guardo ma lei non guarda me. Si è fermata qualche passo più avanti e fissa il bosco, tra gli alberi più massicci.
“Mercury.” La sua mano minuta ha un cenno nervoso.
“Cosa?”
“Guarda lì.”
Impiego svariati secondi per mettere a fuoco cosa sto guardando; un albero enorme, dal tronco obeso, incastonato tra le altre piante, talmente grosso da averlo preso, a colpo d’occhio, per un pinnacolo di pietra. I rami, nodosi e massicci, si allungano intorno come braccia di piovra, alcuni toccando terra altri protendendosi verso l’alto.
La cosa peggiore non è l’albero in sé quanto l’incavo ovale e irregolare che si apre nel tronco, un incavo che assomiglia a un ingresso. Un ingresso che parla di tana, di casa, di dimora, come i bastoni piantati nel terreno e sui quali stanno immobili dei piccoli campanelli d’ottone.
“Possibile?” La guardo perplessa, “Ci vive veramente qualcuno qui?”
Scrutiamo intorno, il bosco che trilla e fruscia al ritmo dei perversi volatili di Illumina. Siamo sole.
“E che facciamo?”
L’interno è buio e nessuna logica al mondo, eccetto quella di prendere qualcosa di utile, ci porterebbe a entrare.
Qualcosa di utile.
“Voglio dei fottuti vestiti. Uno straccio per coprirsi. Qualsiasi cosa.”
Radiosa mi guarda preoccupata. “Io non entro lì.”
Espiro. “Vado io. Tu stai qui e se arriva qualcosa, qualsiasi cosa, urla.”
“Non puoi lasciar stare?”
Potrei. Ma il mondo guarda, e non lo sopporto. Poi magari non c’è niente, nessun pericolo, è solo un minuto, un’occhiata dentro, solo un minuto. Cos’è un minuto?
“Resta qui.”
Cammino verso la soglia con tutta la cautela del mondo, scruto, c’è della luce dentro, naturale, fioca. Mi fermo. L’istinto, il pensiero, tutto suggerisce di non addentrarsi.
Vince la vergogna.
Il passo che faccio per entrare s’interrompe a metà del percorso quando qualcosa si frappone tra l’ingresso e la mia caviglia, e quel qualcosa è un filo teso sulla soglia. Mi blocco d’istinto con in mente l’illogica immagine d’un esplosivo a innesco classico, il respiro si blocca a metà.
Dio.
I campanelli alla mia sinistra tintinnano pungenti sollecitati dallo stesso filo: il suono sembra riecheggiare in tutta Illumina, nitido nel silenzio.
Dio.
Riappoggio il piede a terra con tutta la lentezza del mondo e la bocca asciutta.
“È tutto a posto,” scandisco più a me stessa che a lei, “Tutto a posto.”
“Mercury.” La sua voce è tremula.
“Ho detto che è tutto a posto!”
“Mercury…”
Il silenzio che segue è il momento nel quale realizzo che non siamo sole.
Non
siamo
sole.
È la sensazione più brutta e aliena del mondo.
Mi volto con la morte nel cuore: lì, a pochi passi da noi, dove un attimo fa c’era il nulla, una vecchia ci osserva con perplessa attenzione. Ha il viso segnato dal sole e la pelle seccata dalla salsedine, impaludata in un vestito lungo, largo e logoro, di colore smorto eccetto le maniche tinta salmone. Nei capelli, grigi, lunghi e sfatti, ha piccoli rami e frammenti d’osso annodati. Ci guarda come si guarda il vassoio delle paste dopo il pranzo della domenica.
“Oggi,” scandisce incredula e con voce gioviale, “È la mia festa?”
Mi sfugge un sorriso da nervoso dilagante, qualcosa per stemperare la tensione: è tutto talmente surreale da apparire ridicolo. Per un attimo mi s’imprime nella testa l’immagine d’un compleanno di lusso tra vecchi depravati, una tavolata imbandita, Mercury e Radiosa che escono nude dalla torta con un fiocchetto rosso sulla passera e la panna sui capezzoli. Devo averla vista in un film. Un b-movie spazzatura.
Odio la mia immaginazione autolesionista. La odio.
Pigia, pigia, col pigiare.
Sopprimo tutto.
“Sì, vabbé,” scuoto il capo incredula verso la suora, “Ci sono anche le comparse del cazzo in questo reality?”
Lei non risponde. Mostra una mano, senza smettere di coprirsi il petto, umetta le labbra.
“Ci perdoni,” balbetta verso la vecchia che scruta inespressiva, “Non volevamo fare nulla di male. Ce ne stavamo andando.”
La donna batte una volta le palpebre. Ammicca. “Volevate rubare in casa mia?”
“No! No, signora, siamo solo dovute fuggire, cercavamo un… un riparo.”
“E perché siete tutte nude?”
Intervengo con un gesto brusco stoppando Radiosa prima che, da cretina ingenua qual è, inizi a dire cose fuori luogo. Non sappiamo chi sia, non sappiamo nulla. “Ci hanno fottuto i panni stesi, neanche fossimo in Africa. Non è che hai qualcosa da mettere addosso, nonna?”
Lei mi squadra con lievi movimenti del capo, come a studiarmi da diverse angolature. Ha lo stesso sguardo vagamente pervertito che sembra avere qualsiasi cosa su quest’isola. “Avete sete? Bevete con me? Siete così belle, giovani e in forma,” mugugna con inaspettata giovialità, “Ma pure io lo ero, un tempo, sapete? Fica e tonica, proprio come voi.”
Ribrezzo. Pensieri pungenti sulla caducità della vita.
Sopprimo.
Non ho sete, nonostante la calura. Zero sete, zero fame.
“Niente sete, nonna, grazie. Ho detto: non hai qualche straccio da mettere addosso?”
Ci pensa o finge di pensarci per un lungo attimo. “Ma sì, sì, ho della roba, dentro, della roba avanzata. Venite, care, venite, vi faccio coprire, qualcosa lo trovo, sì…”
“Oh, ma che gentile.”
Si muove verso l’ingresso dell’albero. “Che qui vi guardano tutti, sapete? Vi spiano le poppe, la farfallina, qui tutto ha occhi. E voi siete così belle e tutte nude…”
“Eh, già, già. Qua tutto ha occhi,” le faccio eco, “Non puoi stare dieci minuti in mutande che tutti ti fissano. È una cosa indecente.”
“Avete sete? Io ho sete, bevete con me? Alle ragazze giovani piace bere, sì, tutte in compagnia, e poi…”
Nel momento in cui mi passa davanti, diretta all’albero cavo, prendo un respiro profondo: le scarico un destro diretto alla tempia.
Lo schianto delle nocche sull’osso echeggia nel sottobosco.
Suono orribile.
La vecchia si blocca sul posto per un istante lunghissimo, poi crolla faccia a terra come un mucchio di stracci.
Radiosa mi guarda con in viso tutto lo spavento e la sorpresa del mondo. “Che hai fatto?!”
Rido, mi viene da ridere. Rido, scuoto la mano destra che pulsa di dolore, emetto un latrato da stadio e alzo due dita in un gesto di trionfo da cartone animato. “KO tecnico, nonna!”
Adoro la boxe, sono bravina, la vecchia stesa a terra è una botta di ego che ci voleva dopo tutte le umiliazioni.
“Che hai fatto?!” La voce stridula della suora spezza l’incantesimo, “Voleva aiutarci!”
“Non mi piaceva.”
“Tu sei pazza!”
“EHI!” Aggiro il corpo disteso e piombo su di lei con enfasi, “Ehi! Ti sei dimenticata dove siamo?!”
“Che vuol dire?!”
“Abbassa la voce!”
“Tu sei fuori di testa!”
“Zitta, Cristo, abbassa la voce!”
“Non sto gridando!”
Cerca di scostarmi, la afferro per le spalle, si ribella, sposto le mani alla sua faccia.
“Ferma. Ferma, cazzo!”
“Non mi toccare!”
“Calmati!”
Si contorce, mi cinge i polsi nel tentativo di liberarsi: le do una scrollata così forte da imporre obbedienza; lei si ferma, respirando forte, gli occhi da cerbiatta sgranati e fissi nei miei.
“Calmati.”
Siamo di nuovo incollate l’una all’altra, nude, con le mani avvinghiate, a respirarci addosso: la scenografia di un porno lesbo di pessima fattura.
“Tu sei pazza.”
“Non sono pazza. Non sono pazza! Guardala,” la obbligo a fissare la vecchia abbattuta, “Guardala: chi cazzo è? Perché è qui?”
“Ci stava aiutando…”
“No, no, no, qui nessuno ti aiuta, l’hai scordato? L’hai scordato, sì? La ragazza legata all’albero, pelle e ossa, chi ha detto che dovevamo spararle? Tu, tu l’hai detto, stronzetta, perché sei stata più furba, avevi capito che qui non si scherza, qui non c’è misericordia. E noi coglione stupide l’abbiamo liberata, e sai come è finita. Lo sai, no? Lo sai?”
Annuisce. È spaventata, lacerata, non so se per quello che abbiamo scampato o perché Illumina con lei ha vinto facile.
“Questa ti sembra una concorrente? No, no che non lo è, una vecchia che partecipa al reality, ti pare? Non hai visto come ci guardava? Non hai visto, no? Ci voleva leccare come un gelato, te lo dico io. Ti devi fidare di me, bimba, dobbiamo fare a modo mio, capito? Hai capito?”
Annuisce ancora.
“Ti posso lasciare? Ti sei calmata? Sei calma, concentrata?”
Annuisce, butta giù la saliva. La lascio con delicatezza, ambo gli indici alzati davanti ai suoi occhi ad imporre calma. Radiosa arretra di un passo, respira fitto, raccolta su se stessa a coprirsi le nudità.
“Stai qui. Faccio in un attimo.”
“Non andare lì dentro…”
“Stai qui. Io arrivo subito. Arrivo subito, d’accordo?”
Non attendo un assenso. La lascio a dividere occhiate spaventate tra la vecchia stesa e gli alberi intorno. Mi avvio spedita verso il tronco cavo; vorrei avere un’arma, una cosa qualsiasi. Mi fermo sulla soglia, cercando di fendere il buio. Prego che sia solo l’illogica casa di un’illogica vecchia.
Scavalco con cura il filo teso, entro nell’oscurità, a tentoni. Vorrei avere un bastone, una luce, qualsiasi cosa.
Il terreno ha cambiato consistenza: non è più erba, è liscio, duro, sembra legno. È legno.
L’odore.
L’odore mi assale i sensi e causa un giramento di testa: è una zaffata acida, di vomito, un odore caldo e penetrante.
Dio santo.
Mi appoggio di schiena alla parete interna, stordita, una mano sul muso per cercare di non respirare. Anello e barbigli m’impacciano e feriscono.
“Porca troia…”
Mi sposto di lato verso quella che intravvedo come un’ampia camera. La luce che filtra dall’ingresso proietta solo un barlume che non basta a penetrare l’oscurità.
L’odore.
Mi sforzo di avanzare ancora, col culo che striscia rasente la superficie di legno; lo sciaguattio improvviso, disgustoso, è niente confronto alla sensazione di aver appena poggiato i piedi nudi dentro qualcosa di bagnato e caldo.
“Dio.”
L’odore è atroce, non vedo niente. Suggestioni di liquame corporeo assalgono la mia mente già turbata scatenando un principio di panico: la cosa che più mi disgusta al mondo è toccare coi piedi qualcosa di sporco.
Pigia, pigia, col pigiare, dentro un tino pieno d’uva lurida.
Non cammino scalza neanche per casa, mai, e adesso ho appena infilato i piedi dentro qualcosa che può essere vomito, piscio, merda liquida, bile, qualsiasi altra cosa calda e acida.
Qualsiasi
cosa
calda
e acida.
Barcollo, m’appoggio alla parete per non cadere, finisco contro qualcosa che è sparso per terra, forse dei panni, della stoffa, roba abbandonata; mi ci chino sopra cercando febbrile a tentoni. Sollevo una camicia zuppa, dei jeans ancora peggio: sono abiti femminili, abiti che non possono appartenere alla vecchia bastarda; lascio cadere tutto con un assalto di nausea.
Devo uscire, andarmene, lì dentro c’è l’orrore, il tanfo, c’è qualcosa che non voglio sapere cos’è. È tutto bagnato, per terra, il pavimento è zuppo e caldo, è denso di liquame.
Devo uscire.
L’odore è una cappa asfissiante, una cortina che prende alla testa e allo stomaco: se noto il minuscolo lampeggiare nel buio è un caso, una combinazione, un istinto, e se per un attimo penso d’aver sognato realizzo che la luce c’è davvero.
È un singolo puntino rosso abbandonato in terra, a un metro da me, poco più avanti, un puntino che sa di elettronica, di dispositivo dimenticato ma con la batteria ancora in funzione.
La scelta è tra fiondarsi alla luce del sole, all’aria aperta, e affrontare l’inferno acido ancora per qualche istante.
Una sottile vena autolesionista mi fa scegliere la seconda.
Stringo ancora di più la mano sul muso, persino gli occhi mi lacrimano nel tanfo marcio che ammanta la cavità; barcollo avanti senza più la forza di pensare ai miei piedi infradiciati, mi appoggio alla parete, barcollo, lo sciaguattio assale l’udito.
Non vomitare, non vomitare, non…
Il conato sale, una contrazione al petto, apro la bocca per rovesciare ma è solo un fiotto di saliva che sputo e sbrodolo avanti.
“Dio santissimo.”
Ansimo e recupero il respiro, nel buio, mi chino con un verso per afferrare la cosa che sta lì, in terra, in mezzo a ciarpame che non distinguo: le dita si chiudono sulla silhouette inconfondibile di uno smartphone.
Via di qui.
Via ora, adesso, subito.
“Sei tu, giagia?”
Gelo.
Rimango bloccata, paralizzata, col respiro a metà e gli occhi dilatati.
Non sono sola.
La voce, una voce femminile, esile, emette un raspo disgustoso.
“Ho sete, giagia, voglio bere…”
Freddo.
È un assalto di freddo, sono i muscoli del corpo che non si muovono e la paura congela al loro posto.
Non sono sola.
È un fottuto film horror.
Come un film.
Horror.
Non sono sola.
C’è un’altra donna nella cavità dell’albero e dev’essere da qualche parte a pochi metri da me, vicina, immobile, nel buio, nel vuoto, nell’incubo, nel cuore di questo tanfo allucinante.
Giagia…”
L’ultima lettera della parola si allunga in un rigurgito. La sento vomitare con violenza, riversare sul pavimento un litro di liquame gastrico e d’improvviso so su cosa io abbia camminato fino a quel momento.
L’orrore è niente confronto all’assalto dei sensi.
Disgusto, paura, buio, odore.
Odore allucinante, di bile, di succhi gastrici.
“Ho sete…”
I muscoli si sbloccano in uno scoppio di adrenalina, barcollo verso l’uscita appoggiandomi alla parete, incespicando, con lo smartphone stretto nella mano e i piedi che scivolano sul viscido.
Esco, è come rinascere.
Luce naturale, aria.
Aria.
Aria.
Dimentico il filo teso, le mie caviglie ci s’infrangono contro, i campanelli suonano; cado di faccia ma annaspo per tornare in piedi, ignoro il dolore.
“Mercury!” Radiosa mi si accosta, cerca di aiutarmi, la scosto brusca mentre barcollo di nuovo eretta, con occhi dilatati e una nausea che ottunde tutto il resto.
“Cos’è successo?!”
Scuoto la testa, la coda di capelli si agita come viva, con il dorso della mano premuto sulla bocca.
Non sboccare.
Non sboccare.
Non…
Mi chino in avanti con un verso rotto: tossisco e sputo quel poco di saliva e rigurgito che ho nello stomaco; ansimo come una pazza, lottando per normalizzare il respiro.
“Mercury…”
Il tono di lei è rotto, spaventato.
“Sto bene.”
“Cos’è successo?”
Barcollo avanti, la afferrò per un polso. “Andiamo via.”
“Cos’è successo?!”
Non rispondo. Aggiriamo la vecchia che giace stesa a terra e riprendiamo il bosco.
Cammino spedita, diretta, incerta, trascinandomi Radiosa dietro, il telefono sempre stretto nella mano. Poi corro. Corro per quel che posso correre, incespicando tra le piante e i sassi, perdo la sua mano ma non m’importa.
Scendiamo un leggero declivio, arranchiamo tra gli alberi.
Acqua.
Voglio dell’acqua, un fiume, un lago, una pozzanghera. Qualsiasi cosa.
Me lo sento addosso, sulla pelle, sul viso, sulle mani, quell’odore mostruoso, viscerale. Me lo sento addosso, è un velo, un sudario.
Forse c’è davvero un Dio se dopo cento metri il suono d’acqua corrente mi riempie le orecchie e mi trascina verso un miserabile rigagnolo che è pur sempre un sollievo, un’immagine celestiale, un miraggio. Ho il buon cuore di lasciare il telefono sulle pietre prima di scagliarmi d’impeto dentro, e chi se ne fotte se è fredda, se sguazzo come una demente in trenta centimetri d’acqua: è come uscire da un incubo e il sollievo che mi prende è libertà.
È meraviglia.
È pace nell’abisso.
***
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Messaggio Da Petunia Mar Ago 24, 2021 1:54 pm

Ho il buon cuore di lasciare il telefono sulle pietre prima di scagliarmi d’impeto dentro, 


Ora chiudi la telefonata e riponi l’apparecchio dove l’hai trovato. Ne riceverete uno nel kit con dentro le mappature e un canale di contatto ricevente con la Base.”



Quando lo ha riavuto il telefono? Oppure non ha restituito quello trovato nel tronco?

altro frammento avvincente…
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Messaggio Da Fante Scelto Mar Ago 24, 2021 2:55 pm

No no, è quello che ha raccolto un attimo prima nel tronco cavo.
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