L’estate aveva ormai fatto il suo inchino, lasciando la scena all’autunno e a una lunga serie di giornate grigie e piovose. Poi era tornato il sereno e la spiaggia, quella mattina, si era svegliata con la giusta atmosfera: un’aria stemperata in colori tenui; un gradevole profumo di alberi e salmastro; un silenzio nel quale le orecchie potevano riposarsi dopo il pieno di grida, giochi e chiacchiericci estivi.
La sabbia stessa sembrava essersi rassettata, ricomposta. Dopo il calpestio disordinato di passi, corse, salti di bambini, uomini e cani che generavano dune e avvallamenti innaturali, aveva pian piano ripreso le sue forme.
Franco restò ancora un po’ seduto sul confine erboso fra la pineta e la spiaggia, a respirare gli ultimi vapori di umidità notturna che si stavano disperdendo sotto i raggi del sole filtrati dal fitto dei rami.
È proprio questa, la mia oasi.
Un’oasi sognata e cercata per lungo tempo, negli anni in cui la routine giornaliera – alzarsi da letto, andare al lavoro, incontrare i colleghi, sbrigare le pratiche con il solo pensiero dell’ora di uscita – era diventata un incubo, una tortura, un dolore fisico e mentale.
Ed era riuscito a dire basta; a dare un taglio netto a quel poco che ancora restava da tagliare. A licenziarsi e trasferirsi in quel paesino a due passi dal mare nel quale si era imbattuto durante una breve vacanza.
Solo di una cosa avrebbe confessato il rimpianto: la pausa di metà mattina, il momento in cui lasciava l’ufficio per andare a prendere un caffè al bar all’angolo; il momento in cui il sorriso di Luana – la giovane barista – gli restituiva un breve lampo di serenità. Bastavano quattro parole banali scambiate con lei, un incrocio di sguardi un po’ complici (e forse anche interessati: dopotutto, lui era solo un cliente) ed era come fare il pieno di energia e, soprattutto, di umanità per arrivare fino a sera.
Accantonò il pensiero e si tolse scarpe e calze. Arrotolò i jeans fin quasi alle ginocchia e poggiò i piedi sulla sabbia, ricevendo in cambio un piacevole senso di fresco che si propagò con un brivido leggero per tutto il corpo.
Prese lo zaino, lo posò fra le gambe e cominciò a estrarre i pezzi dell’attrezzatura. Ormai era diventato esperto, e in quattro e quattr’otto il cercametalli era montato.
Indossò le cuffie e spinse il pulsante di accensione. Un breve ronzio, prima tenue e poi sempre più acuto, gli confermò che l’apparecchio era pronto. Condivise il bluetooth anche col cellulare e, sulle note di Walk of life, Franco cominciò a camminare sul leggero declivio della spiaggia, fra mare e pineta, oscillando l’asta a destra e sinistra in lenti segmenti ad arco a pochi centimetri dalla sabbia.
Non era certo la speranza di imbattersi in qualcosa di prezioso, a guidarlo, quanto piuttosto la voglia di prendersi una pausa dal lavoro in officina – auto, moto, trattori, quasi tutta roba del secolo passato – e godersi la pace del mare autunnale.
Passo dopo passo, il soffio del vento e il mormorio delle onde si infilavano nelle orecchie, insinuandosi sotto i padiglioni delle cuffie e creando un effetto-conchiglia che si mischiava alla musica.
Situazione ideale per dare il via ai ricordi.
Conosceva il paese, ma viverci era tutta un’altra storia rispetto a passarci un paio di settimane. Per giorni aveva girato in lungo e in largo, chiesto a quasi ogni abitante se avevano un buco da dargli in affitto o se magari conoscevano qualcuno… Niente da fare.
Poi, si era ritrovato davanti all’ingresso di un’officina, una di quelle con le pareti dipinte per tre quarti di azzurro e un quarto di bianco, fitte di schizzi e macchie d’olio e appena visibili dietro carcasse di macchine accatastate; una di quelle con un calendario appeso a ogni gancio, fermo al mese di marzo di quattro o cinque anni prima, tanto, non è certo importante la data quanto il prorompente seno nudo di una bellezza in tuta con la zip aperta fino al pube; una di quelle con l’unico meccanico sempre sdraiato sotto un’auto di una ventina d’anni che lascia intravedere solo i polpacci rivestiti di blu e le suole consunte di un paio di scarpe da lavoro.
Attratto da quel luogo, Franco non aveva potuto fare a meno di entrare. Appena varcata la soglia, era stato investito da un miscuglio di odori, quello dell’olio motore misto a un sentore di carburante e copertoni consumati, che lo aveva riportato indietro negli anni, a quando da ragazzo, durante le vacanze estive, lavoricchiava come garzone nell’officina dello zio Ernesto.
«Salve, ha bisogno?»
Franco, perso nei ricordi evocati da quelle esalazioni, non si era accorto che l’uomo al lavoro sotto la macchina era scivolato fuori, svelando una figura corpulenta sopra il paio di gambe rivestite di tela blu. Il meccanico, un uomo brizzolato di mezz’età dalla figura imponente, stava ripulendosi le mani dal grasso in uno straccetto logoro, ma lo sguardo interrogativo sotto le folte sopracciglia era benevolo e la voce profonda aveva un tono gentile.
«Salve», aveva risposto Franco con un cenno della mano «Veramente mi domandavo…»
L’omone in tuta blu si era avvicinato di qualche passo, l’aria interrogativa nel volto largo.
«Sto cercando casa. E un lavoro…» aveva confessato Franco tutto d’un fiato, come se il viso dell’altro non gli lasciasse altra scelta che essere sincero.
Ancora adesso, al pensiero di quel pomeriggio d’estate di due anni prima, a Franco scappò un sorriso. Quell’incontro aveva rappresentato la vera svolta della sua esistenza. Sì, perché Domenico, che si era presentato come il titolare dell’officina, non si era limitato a stringergli la mano, ma aveva lanciato un’occhiata al vecchio orologio da parete e aveva deciso che era l’ora di tirare giù la saracinesca e di condividere con lui un bicchiere di rosso nell’osteria di fronte.
Così, tra un bicchiere di vino e l’altro, gli aveva rivelato che stava giusto cercando un aiuto per le riparazioni e che era disposto a metterlo alla prova. Quanto a un posto per dormire non c’era problema; se si accontentava, proprio sopra l’officina c’era un minuscolo appartamento rimasto vuoto da anni.
Non ci era voluto molto a Franco per convincersi che valeva la pena afferrare al volo il gancio che Domenico gli stava lanciando e così fece. Nel giro di pochi giorni aveva dunque trovato un nuovo posto dove vivere, un letto in cui dormire e un lavoro. Una tale fortuna aveva dell’incredibile perfino per lui, che si era sempre considerato un inguaribile ottimista.
Certo, lo stipendio non aveva niente a che vedere con quello che era abituato a vedersi bonificato ogni mese col vecchio impiego, ma del resto era consapevole del fatto che la scelta di cambiare vita avrebbe inevitabilmente comportato dei profondi mutamenti anche negli standard abituali. Compresa quella fitta che provava ogni volta che ripensava al sorriso della giovane barista.
Mentre la mente vagava, improvvisamente la sua attenzione fu catturata dal metal detector che stava facendo oscillare sopra la sabbia ormai da una buona mezz’ora. Passando su una duna ricoperta da una rada vegetazione, il suono dello strumento si era fatto acuto. Franco si arrestò: ormai aveva l’orecchio allenato e quel suono così alto poteva significare solo una cosa e cioè che lì sotto si nascondeva un oggetto di rame, di bronzo o magari addirittura d’argento.
Posò il cercametalli a terra ed estrasse dallo zaino una piccola pala. Cominciò così a scavare nel punto dove l’apparecchio si era messo a suonare. La sua curiosità si faceva sempre più accesa, finché gli parve di intravedere qualcosa di piatto e rotondo, non molto grande.
“Una vecchia moneta”, pensò, ma quando la prese in mano si accorse che sul bordo aveva un occhiello.
“Una medaglia!”.
Si rigirò tra le dita il piccolo oggetto che, nonostante l’ossidazione, su una facciata lasciava intravedere l’immagine di profilo di un soldato con l’elmetto. La scritta sul retro invece era illeggibile, proprio a causa delle cattive condizioni del metallo.
Franco, allora, sfregò la medaglia ossidata con un lembo del vecchio giaccone, finché finalmente riuscì a leggere quanto vi era stato inciso: “Coniata con il bronzo nemico 1915 – 1918”.
Il cuore ebbe un tuffo per l’emozione: era la prima volta che Franco teneva fra le mani un reperto della Prima Guerra Mondiale.
La sabbia stessa sembrava essersi rassettata, ricomposta. Dopo il calpestio disordinato di passi, corse, salti di bambini, uomini e cani che generavano dune e avvallamenti innaturali, aveva pian piano ripreso le sue forme.
Franco restò ancora un po’ seduto sul confine erboso fra la pineta e la spiaggia, a respirare gli ultimi vapori di umidità notturna che si stavano disperdendo sotto i raggi del sole filtrati dal fitto dei rami.
È proprio questa, la mia oasi.
Un’oasi sognata e cercata per lungo tempo, negli anni in cui la routine giornaliera – alzarsi da letto, andare al lavoro, incontrare i colleghi, sbrigare le pratiche con il solo pensiero dell’ora di uscita – era diventata un incubo, una tortura, un dolore fisico e mentale.
Ed era riuscito a dire basta; a dare un taglio netto a quel poco che ancora restava da tagliare. A licenziarsi e trasferirsi in quel paesino a due passi dal mare nel quale si era imbattuto durante una breve vacanza.
Solo di una cosa avrebbe confessato il rimpianto: la pausa di metà mattina, il momento in cui lasciava l’ufficio per andare a prendere un caffè al bar all’angolo; il momento in cui il sorriso di Luana – la giovane barista – gli restituiva un breve lampo di serenità. Bastavano quattro parole banali scambiate con lei, un incrocio di sguardi un po’ complici (e forse anche interessati: dopotutto, lui era solo un cliente) ed era come fare il pieno di energia e, soprattutto, di umanità per arrivare fino a sera.
Accantonò il pensiero e si tolse scarpe e calze. Arrotolò i jeans fin quasi alle ginocchia e poggiò i piedi sulla sabbia, ricevendo in cambio un piacevole senso di fresco che si propagò con un brivido leggero per tutto il corpo.
Prese lo zaino, lo posò fra le gambe e cominciò a estrarre i pezzi dell’attrezzatura. Ormai era diventato esperto, e in quattro e quattr’otto il cercametalli era montato.
Indossò le cuffie e spinse il pulsante di accensione. Un breve ronzio, prima tenue e poi sempre più acuto, gli confermò che l’apparecchio era pronto. Condivise il bluetooth anche col cellulare e, sulle note di Walk of life, Franco cominciò a camminare sul leggero declivio della spiaggia, fra mare e pineta, oscillando l’asta a destra e sinistra in lenti segmenti ad arco a pochi centimetri dalla sabbia.
Non era certo la speranza di imbattersi in qualcosa di prezioso, a guidarlo, quanto piuttosto la voglia di prendersi una pausa dal lavoro in officina – auto, moto, trattori, quasi tutta roba del secolo passato – e godersi la pace del mare autunnale.
Passo dopo passo, il soffio del vento e il mormorio delle onde si infilavano nelle orecchie, insinuandosi sotto i padiglioni delle cuffie e creando un effetto-conchiglia che si mischiava alla musica.
Situazione ideale per dare il via ai ricordi.
Conosceva il paese, ma viverci era tutta un’altra storia rispetto a passarci un paio di settimane. Per giorni aveva girato in lungo e in largo, chiesto a quasi ogni abitante se avevano un buco da dargli in affitto o se magari conoscevano qualcuno… Niente da fare.
Poi, si era ritrovato davanti all’ingresso di un’officina, una di quelle con le pareti dipinte per tre quarti di azzurro e un quarto di bianco, fitte di schizzi e macchie d’olio e appena visibili dietro carcasse di macchine accatastate; una di quelle con un calendario appeso a ogni gancio, fermo al mese di marzo di quattro o cinque anni prima, tanto, non è certo importante la data quanto il prorompente seno nudo di una bellezza in tuta con la zip aperta fino al pube; una di quelle con l’unico meccanico sempre sdraiato sotto un’auto di una ventina d’anni che lascia intravedere solo i polpacci rivestiti di blu e le suole consunte di un paio di scarpe da lavoro.
Attratto da quel luogo, Franco non aveva potuto fare a meno di entrare. Appena varcata la soglia, era stato investito da un miscuglio di odori, quello dell’olio motore misto a un sentore di carburante e copertoni consumati, che lo aveva riportato indietro negli anni, a quando da ragazzo, durante le vacanze estive, lavoricchiava come garzone nell’officina dello zio Ernesto.
«Salve, ha bisogno?»
Franco, perso nei ricordi evocati da quelle esalazioni, non si era accorto che l’uomo al lavoro sotto la macchina era scivolato fuori, svelando una figura corpulenta sopra il paio di gambe rivestite di tela blu. Il meccanico, un uomo brizzolato di mezz’età dalla figura imponente, stava ripulendosi le mani dal grasso in uno straccetto logoro, ma lo sguardo interrogativo sotto le folte sopracciglia era benevolo e la voce profonda aveva un tono gentile.
«Salve», aveva risposto Franco con un cenno della mano «Veramente mi domandavo…»
L’omone in tuta blu si era avvicinato di qualche passo, l’aria interrogativa nel volto largo.
«Sto cercando casa. E un lavoro…» aveva confessato Franco tutto d’un fiato, come se il viso dell’altro non gli lasciasse altra scelta che essere sincero.
Ancora adesso, al pensiero di quel pomeriggio d’estate di due anni prima, a Franco scappò un sorriso. Quell’incontro aveva rappresentato la vera svolta della sua esistenza. Sì, perché Domenico, che si era presentato come il titolare dell’officina, non si era limitato a stringergli la mano, ma aveva lanciato un’occhiata al vecchio orologio da parete e aveva deciso che era l’ora di tirare giù la saracinesca e di condividere con lui un bicchiere di rosso nell’osteria di fronte.
Così, tra un bicchiere di vino e l’altro, gli aveva rivelato che stava giusto cercando un aiuto per le riparazioni e che era disposto a metterlo alla prova. Quanto a un posto per dormire non c’era problema; se si accontentava, proprio sopra l’officina c’era un minuscolo appartamento rimasto vuoto da anni.
Non ci era voluto molto a Franco per convincersi che valeva la pena afferrare al volo il gancio che Domenico gli stava lanciando e così fece. Nel giro di pochi giorni aveva dunque trovato un nuovo posto dove vivere, un letto in cui dormire e un lavoro. Una tale fortuna aveva dell’incredibile perfino per lui, che si era sempre considerato un inguaribile ottimista.
Certo, lo stipendio non aveva niente a che vedere con quello che era abituato a vedersi bonificato ogni mese col vecchio impiego, ma del resto era consapevole del fatto che la scelta di cambiare vita avrebbe inevitabilmente comportato dei profondi mutamenti anche negli standard abituali. Compresa quella fitta che provava ogni volta che ripensava al sorriso della giovane barista.
Mentre la mente vagava, improvvisamente la sua attenzione fu catturata dal metal detector che stava facendo oscillare sopra la sabbia ormai da una buona mezz’ora. Passando su una duna ricoperta da una rada vegetazione, il suono dello strumento si era fatto acuto. Franco si arrestò: ormai aveva l’orecchio allenato e quel suono così alto poteva significare solo una cosa e cioè che lì sotto si nascondeva un oggetto di rame, di bronzo o magari addirittura d’argento.
Posò il cercametalli a terra ed estrasse dallo zaino una piccola pala. Cominciò così a scavare nel punto dove l’apparecchio si era messo a suonare. La sua curiosità si faceva sempre più accesa, finché gli parve di intravedere qualcosa di piatto e rotondo, non molto grande.
“Una vecchia moneta”, pensò, ma quando la prese in mano si accorse che sul bordo aveva un occhiello.
“Una medaglia!”.
Si rigirò tra le dita il piccolo oggetto che, nonostante l’ossidazione, su una facciata lasciava intravedere l’immagine di profilo di un soldato con l’elmetto. La scritta sul retro invece era illeggibile, proprio a causa delle cattive condizioni del metallo.
Franco, allora, sfregò la medaglia ossidata con un lembo del vecchio giaccone, finché finalmente riuscì a leggere quanto vi era stato inciso: “Coniata con il bronzo nemico 1915 – 1918”.
Il cuore ebbe un tuffo per l’emozione: era la prima volta che Franco teneva fra le mani un reperto della Prima Guerra Mondiale.
Ultima modifica di Albemasia il Sab Mag 25, 2024 4:26 pm - modificato 1 volta.