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SUPERPREDATORI - parte 26

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Messaggio Da Fante Scelto Mar Lug 20, 2021 12:23 am

***


Il sole sorge.
Non vediamo che i riverberi tra gli alberi, ma la luce è sufficiente per pensare di muoversi; non c’è più traccia del sauro.
“Andiamo noi,” scandisco rivolta a Sigrid, “Tu resta qui a sorvegliare il campo.”
Lei annuisce, siede su una pietra, il fucile tra le gambe. “Per favore, non metteteci troppo.”
“Faremo in fretta.”
Vorrei un fucile anche io, lo vorrei più di ogni altra cosa al mondo, invece ho solo un coltello. Mi rifiuto di prendere uno degli archi della Gang-Bang, non saprei neanche come tenerlo in mano.
Lucilla ha fretta, freme; mi precede senza una parola verso il bordo del campo, la spada a tracolla, la spada con cui ha assassinato Tania. Non ha una goccia di rimorso in viso, nello sguardo, da nessuna parte.
Non una goccia.
“Tanto è qui intorno, no? In questa direzione, giusto?” Indico grossomodo gli alberi verso i quali la dannata croce è volata stanotte.
Lei non risponde, uno sguardo profondo come sapesse, leggesse che ho una paura fottuta ad andare di primo mattino tra gli alberi, disarmata, anche se siamo vicine al campo, anche se non dovrebbe volerci molto per ritrovarla.
Un respiro pieno e varca la linea immaginaria dell’accampamento, senza paura o senza mostrarla; io ne avrei, di paura, se avessi perso il mio talismano. Mai creduto nei talismani.
Ho paura comunque.
“Al minimo pericolo,” le ricordo una volta di più, “Di corsa qui.”
Lucilla neanche si volta.
La seguo con un’ultima occhiata a Sigrid e le due creature sopravvissute alla nostra furia.
È andata così.
Me lo ripeto come un mantra.
È andata così.
 
La boscaglia è quieta, il suono dei passeracei rado e cadenzato. La luce del primo sole filtra e s’incunea tra le frasche, illuminando gli spazi e l’aria ma non il terreno, che scrutiamo con l’aiuto della torcia sul telefono.
È una piccola croce d’argento, dovrebbe notarsi facilmente.
È stata lanciata a mano, per quanto forte, non può essere né lontana né troppo nascosta.
È mezzora che razzoliamo come galline senza aver trovato niente.
“Lu…”
“No.” Il suo sguardo è torvo. “Io non me ne vado senza averla recuperata.”
Non dovrei insistere, non dovrei suscitare discussioni, ma è più forte di me. “È solo un pezzo d’argento, Lu.”
“Saresti morta senza questo pezzo d’argento.”
Freddo.
“Ascoltami.”
“Non cambierò idea.”
“Lu, ascoltami.” Mi avvicino, comprensiva, il più rilassata possibile. Il bosco intorno a noi è placido ma questo non mi fa stare più tranquilla. “Lo so che per te è importante, lo so, ma metti che è caduta in un buco, dico per ipotesi! Possiamo cercarla per giorni e noi abbiamo un salvataggio da tentare, però adesso, oggi, prima che sia tardi. Te lo ricordi questo, sì?”
Lei ravvia i capelli platinati, occhi da cerva fissi al terreno. “Dev’essere qui, dobbiamo solo scorgerla.”
“Lu…”
Alza lo sguardo nel mio, brusca, tesa. “La dobbiamo ritrovare.”
Espiro paziente, la osservo mentre si rimette a camminare intorno, spostando l’erba coi piedi, scandagliando le foglie cadute con un bastone. Il rumore che facciamo mi agita e rende nervosa.
“Lu.”
“Smettila.”
“Lu, te la posso dire una cosa senza che dai di testa?”
“Cerca, invece di parlare.”
“Lu,” mi sforzo con tutta me stessa di dosare le parole, non farmi prendere dalla stizza, non replicare a tono, “Credi che a Dio importi se hai perso un piccolo simbolo? Non può importargli, credimi. Lui ti protegge comunque, perché sei una brava cristiana, che tu abbia quel monile o meno. Sono sicura che è così.”
Si ferma. Mi guarda con quella sottile forma di astio che continua a essermi nuova, sgradevole, lontana dalla Lucilla che ho conosciuto per due giorni nella foresta. “Sei credente?”
Esito, spaesata. “No, cioè non lo so. Non lo so se Dio esiste, non l’ho mai saputo.”
Le sue labbra si tendono in una smorfia fiera. “Sei una soldatessa?”
Esito ancora. “Lo ero.”
“E accetteresti consigli militari da me? Su come fare il tuo lavoro?”
Espiro, gli occhi socchiusi. “Lu…”
“Ho accettato di far dare a te gli ordini perché sei la più capace, perché è il tuo mestiere. Mi hai fatto promettere di attenermi alle tue indicazioni, e l’ho fatto. Ma su queste cose, su queste, sei TU che devi ascoltare ME.”
“Lu, stiamo perdendo tempo prezioso, è questo che mi preoccupa.”
“Senza la croce io non posso aiutarti col tuo piano.”
“Ma non capisci che ti stai limitando da sola? Che è tutto…” Nella tua testa, ma non lo dico. Giungo le mani. “Per favore, te lo chiedo per favore: l’abbiamo cercata, la tua croce, e doveva essere qui, ma se non l’abbiamo trovata…”
“Vuoi tornare al campo? Tornaci. Continuo io a cercare.”
“Non è solo il tornare al campo! Sigrid sta aspettando lì, se arrivano le Erinni? Se le succede qualcosa? Se succede a qualcosa a noi? Non ha proprio nessuna importanza per te?”
Scende un silenzio grave, carico; la guardo soppesare le mie parole o così credo e spero, prima di scuotere la testa con espressione altrettanto grave. “Non posso restare senza.”
Si scosta, nervosa; riprende a ispezionare il terreno con la torcia e il bastone.
Non c’è verso di farla ragionare.
M’ero illusa, per un attimo.
Poi la croce è sparita, ovviamente. Potevamo trovarla subito, che ci voleva: poteva fare due passi e trovarla, quanto lontano può essere stata lanciata? Invece no, ovviamente, invece no. Come nei film horror, dove le cose non funzionano mai, dove tutto deve andare male.
La mia vita per certi versi è un film horror, una sequenza di cose che ovviamente vanno male o non come dovrebbero.
C’ero io in mezzo alla strada, a Kandahar, quando quella donna ha deciso di venirci contro con un’arma in mano. Ovviamente c’ero io. Magari un altro al mio posto avrebbe gestito meglio la cosa. L’avrebbe neutralizzata. Ma ovviamente c’ero io. Io le ho sparato, pensando di fare la cosa giusta.
E ho perso tutto.
Ovviamente.
“Senti,” controllo quell’impulso di rabbia che mi prende quando rimesto nel calderone del passato recente, “Ti do dieci minuti. Dieci. Io vado di là,” indico verso sinistra, dove c’è il pendio che scende e porta giù dal crinale del rilievo, “Vado a controllare il corpo di Saetta, d’accordo? Dieci minuti e se non hai trovato niente torniamo al campo. Mi dai la tua parola?”
“Non ti do niente.”
“Lu, per favore.”
Neanche mi risponde.
“Dieci minuti,” le ricordo prima di avviarmi, infastidita, verso il pendio.
Tornerò tra dieci minuti, lei non avrà trovato la croce e non vorrà tornare al campo.
Dovrò incazzarmi, litigare, Dio sa come andrà a finire.
È partito tutto dalla croce, l’eccidio della Gang-Bang, il fatto che siamo di nuovo sole, il fatto che ora stiamo perdendo tempo anziché pensare a tirar fuori le altre dal forte. Che dovrò litigare tra dieci minuti, quando tornerò qui.
Che nel frattempo può succedere di tutto, ma perlopiù cose spiacevoli.
Ovviamente.
Cammino tra il fogliame rado, mentre la pendenza del terreno aumenta e il pendio sgombro d’alberi si apre pian piano davanti.
La religione fa questo: indurisce la testa e trasforma tutto in fottuti imperativi. Fa litigare. Uccidere anche. Salva cretine nude dall’assalto di un mostro preistorico.
Brivido.
Mi fermo: controllo in alto, verso il limitare del campo che dista una trentina di metri, poi giù lungo il pendio. Il corpo di Saetta dovrebbe vedersi, lo vedevamo ieri sera, anche dalla distanza.
Grossomodo deve stare qua, dove sono adesso.
Il corpo di Saetta non c’è.
Punto la luce del telefono: lì, a un metro neanche, c’è la macchia di sangue sull’erba. Lì, a un metro neanche, la Lepre è crepata sotto i colpi in night vision di Artemis.
“Cazzo.”
Sposto la luce verso sinistra, lenta, con la mano che trema leggermente. Il sangue non è una macchia, è una scia. Una scia rossa che si perde tra gli alberi.
“Cazzo…”
Qualcosa si è preso il corpo di Saetta, la Sabri, e se l’è portato via.
Controllo il respiro dominando un leggero senso di panico che si muove alla base dello stomaco. Il bosco, intorno, sembra di colpo più buio e freddo nella luce del primo mattino.
Umetto le labbra, deglutisco.
La scia rossa si perde tra i fusti e le frasche.
Forse il sauro di stanotte: ha trovato il cadavere e si è ripagato dell’attesa.
Perché trascinarlo via?
Forse non lui ma qualcosa di più grosso.
Brivido.
Per un attimo rivedo Rita tra le fauci di Panzer-2. Finire in bocca a una cosa del genere è qualcosa di osceno. Orribile. Assurdo. Impensabile. Anche se sei già morta, orribile uguale. Essere fatta a pezzi, sbranata.
La scia rossa è lì, serpeggia tra gli alberi; dovrei seguirla per maggiore sicurezza, per avere qualche indizio. Potrei trovare dei resti. Potrei trovare dei pezzi. Potrei non trovare niente ma l’idea di trovare dei pezzi mi mette lo stomaco in rivolta.
Non seguirò quella scia per niente al mondo.
Non ce n’è bisogno.
I dieci minuti non sono passati ma decido che lo sono; giro sui tacchi e faccio la strada inversa, ritorno verso il tratto di boscaglia dove la suora sta ancora cercando la sua croce, immagini da obitorio che si accavallano nella testa.
“Lu,” vago lo sguardo tra alberi e frasche, invano. “Lu?”
Silenzio.
Controllo di non aver sbagliato direzione, la tensione, i pensieri da obitorio, quelle cose che ti distraggono: sono nel posto giusto. Possibile che si sia allontanata?
“Lu…”
Non posso e non voglio gridare, pensieri da obitorio, perché non è qui, dove cazzo è andata?
“Lu, maledizione.”
Occhieggio, muovo qualche passo; la natura sta riprendendo il suo posto coi suoni canonici del giorno, il verde della vegetazione illuminata dal sole che sorge.
Di lei non c’è traccia.
Queste cose le odio.
Queste cose sono le fottute cose che succedono nei film, non nella vita reale. Non è pensabile che su una cazzo di isola piena di cose orribili una cretina si allontani senza dir niente e l’altra cretina ritorni e non la trovi. Sono quelle cose di merda che succedono nei film e non nella vita reale, invece ora scopro che succedono davvero.
La odio.
Mi odio per essere stata così stupida da lasciarla da sola.
Odio di più lei.
“Lu.” Cammino, senza direzione, vagando intorno nella speranza di vederla, accucciata da qualche parte a ravanare sul terreno, a tastare le frasche col bastone: ascolto la foresta. Faceva rumore, prima, adesso non sento nulla.
Potrei tornare al campo, dovrei tornare al campo; il bosco non è così fitto da perdere di vista qualcuno a meno che qualcuno non voglia essere trovato. Improbabile. Illogico.
Idee inquietanti mi si accavallano nella testa. Potrebbe essere stata rapita. Potrebbe essere così stronza e stupida da essersi allontanata. Potrebbe essere un sacco di cose e mi sta salendo una certa ansia.
“Lu, andiamo, cazzo.”
Dovrei tornare al campo ma qualcosa mi spinge a restare, a cercarla, a capire se ha bisogno d’aiuto o se devo romperle la testa a pugni. Dovrei tornare al campo ma l’idea che le sia capitato qualcosa mi preoccupa, e non nel modo distaccato cui sono abituata.
Mi odio.
“Lu…”
Mi odio.
La cosa che scatta quando muovo un ulteriore passo tra le frasche è come un sibilo, uno stridore improvviso. È un colpo diretto alla caviglia.
Non ho il tempo di pensare, di capire. Non ho il tempo di nulla.
Il mio verso soffocato si perde nel fracasso delle frasche smosse, mentre il mondo cambia inclinazione senza un motivo o un preavviso; una sferzata al fianco e alla schiena, un vorticare subitaneo di colori e luce.
Non capisco, non comprendo, non realizzo.
Guardo il cielo che è schiarito e annaspo le braccia come un’imbecille, a caso, col fiato tagliato e gli occhi sgranati, la paura addosso, lo spavento, il panico.
È quando sento i capelli pendere indietro che capisco, che realizzo, mentre pian piano riprendo il controllo di me stessa. Piego il collo per guardarmi, per vedere oltre il seno che sporge nella direzione errata: c’è la mia gamba, una delle Nike dorate, c’è la corda che mi s’è chiusa alla caviglia.
Sono appesa per un piede a un grosso ramo, a testa in giù, dondolo come un sacco di carne, la gamba libera che cerca invano un punto d’appoggio, le braccia mosse intorno.
Cristo Santo.
È una di quelle trappole da cartone animato, quelle del coyote sfigato, una trappola, qualcuno ha messo una trappola, ci ho camminato dentro, sono appesa a testa in giù.
È un cazzo di incubo.
Un maledetto incubo.
Vorrei strillare come un’aquila, come sono abituata a fare quando l’adrenalina impazzisce, quando mi sale la rabbia, quando m’incazzo, adesso sono incazzata e assieme ho una paura maledetta: mi tappo la bocca con una mano per non farlo, perché siamo in un maledetto bosco pieno di cose orribili.
Ci sono anche le trappole.
Le trappole.
Ci ho camminato dentro. Distratta. I pensieri da obitorio.
Rimani razionale, razionale, pensa, pensa.
Respiro.
Il coltello.
Porto una mano dietro la schiena mentre oscillo e ondeggio in circolo come un fottuto insaccato, il coltello c’è, tocco il manico, l’impugnatura. Posso farcela a tirarmi su, fino al piede, a tagliare la corda, magari in più tentativi. Posso farcela. Il coltello non deve cadere. Non deve.
Respiro, gonfio il petto, il ridicolo top che m’è toccato in sorte che però è aderente e non s’è sollevato.
Puoi farcela.
La gamba libera continua a cercare un appoggio che non esiste. Se almeno m’avesse preso entrambi i piedi sarebbe tutto più facile.
Puoi farcela.
Respiro.
Stringo l’impugnatura e con l’altra mano sbottono il fodero.
Il coltello non deve cadere.
Non deve cadere.
Non
deve
cadere.
Lascio ciondolare in giù le braccia, la lama stretta nella destra. Ravvio quella ciocca di capelli sfuggita alla coda, un gesto distensivo.
Puoi farcela.
Spingo di addominali con un verso, tiro su il busto di prepotenza, di rabbia, allungo verso la corda un fendente che non arriva a destinazione: ricado in giù con tutte le fibre protese nel tenere stretto il coltello.
Dio Santo.
Ansimo, di fatica, adrenalina.
Chi cazzo ha messo una trappola qui? La Gang-Bang? Le Erinni?
Vorrei urlare, bestemmiare.
Ansimo.
Nel caos dei sensi la caviglia fa male, stretta nella corda, sollecitata dalla capovolta improvvisa.
Respiro a fondo, rallento i battiti. Devo scendere ora, subito. Non resisto qui così, sottosopra, in balia del bosco, dell’isola. Il terreno sotto di me sarà ad un metro e mezzo, forse due. Se cado non dovrei rompermi niente. Se non cado sono all’altezza giusta per le tonsille di una bestia grossa.
Madonna l’ansia.
“Lu!”
Non dovrei gridare ma la paura per un attimo ha il sopravvento. Lu, dove cazzo sei, dove sei, perché va tutto sempre male, tutto sempre male, sempre male, tutto, “Lu!”
C’è il bosco e i suoi rumori, i primi stridii dei passeracei.
Stringo i denti e tento un altro piegamento; con la mano libera cerco di arrivare al piede, alla scarpa, niente, ricado indietro serrando il coltello che è l’unica speranza che ho. Assieme a Lucilla che non so dov’è.
“Sigrid!”
Deve sentirmi dal campo, non è così lontana, deve sentirmi, deve.
“SIGRID!”
Ansimo.
Il bosco, sottosopra, è ancora più inquietante.
“Dove siete tutte, dove cazzo siete…”
Mi agito in un moto di sconforto, di disperazione, mordo le labbra per tenere l’urlo dentro. Maledetti tutti, tutte, maledetta isola, le trappole del coyote, i sauri, tutto.
“Sigrid, cazzo…!”
Stringo i denti. Indurisco gli addominali per un terzo sforzo, impreco sommessa.
Passi.
Passi nel fogliame, nel verde.
“Oddio.”
Mi abbandono per un attimo, vagando lo sguardo intorno, annaspando le braccia.
“Chi c’è?!”
Passi.
Lenti, cadenzati.
“Chi c’è?!”
Passi.
Dio, Dio, l’ansia, l’orrore, la paura, l’adrenalina.
Mi volto, oscillo come un animale morto in balia degli spasmi.
“Lu?!”
Stringo il coltello, forte, fino a sbiancare le nocche. È l’unica cosa che ho, l’unico appiglio nel caos, nel disastro, l’unica.
Appesa per un piede di prima mattina sull’isola delle cose oscene: la giornata inizia così.
“Oh,” la voce tiepida che arriva da dietro le mie spalle so di conoscerla ma non realizzo, “Eccoti qui.”
Annaspo per voltarmi, disperata, nella più patetica delle convulsioni.
C’è una figura che è apparsa tra gli alberi e che ora sta proprio davanti a me, sottosopra come il resto del bosco, una figura di donna che sorride sorniona sul volto cotto dal sole.
“Oh, Cristo.”
Sorride tra le rughe profonde e i segni pitturati con terra colorata, nello stesso abito lungo, largo e logoro, di colore smorto eccetto le maniche tinta salmone, sotto gli stessi capelli grigi decorati con rami, germogli secchi e monili.
“Eccoti qui, finalmente.”
La stessa voce melliflua.
“No!” Annaspo braccia e lama per tenerla a distanza, patetica e in balia di tutto come sono, “No, no, no…”
La guardo sollevare il suo grosso bastone nodoso con ambo le mani.
“NO!”
Contorsioni disperate.
L’ultima cosa che vedo e la mazza di legno che mi spiove sulla testa e il sorriso diabolico della vecchia strega, assieme alle immagini da incubo del suo albero cavo.
Bonus pugno alla Masca.
Il dolore che esplode dalla fronte s’annebbia quasi subito in un buio precoce, mischiandosi col pulsare selvaggio delle tempie e un senso d’abbandono. Il coltello scivola dalle dita, le braccia penzolano inerti.
Fine dei giochi.
Buio.
Tutto.
Buio.
 
***
 
Pierantonio Di Marzo, responsabile del monitoring, guardò la figura piena di Max Tambori entrare nella sala di controllo con espressione accigliata; controllò l’ora per essere sicuro di non aver preso un abbaglio.
“Ehi.”
“Max.”
Tolse la cuffia con un cenno interrogativo ma lui non parlò, non subito, gettando occhiate nervose al grande schermo della postazione sul quale scorrevano le immagini del corpo trascinato tra le frasche, un corpo inerte, esanime, senza segni vitali.
Tambori gesticolò un paio di volte con la mano, seccato, prima di scuotere la testa e tornare a guardarlo, cupo. “Brutta situazione, eh?”
Pier guardò d’istinto la figura priva di sensi di Mercury, trascinata per le braccia, senza fatica apparente, dalla Masca dell’Est. La cantilena sommessa della vecchia strega gli risuonava ancora nella testa nonostante avesse abbassato le cuffie.
“Brutta, sì.”
Aveva il presentimento che stesse per arrivare una richiesta.
“Secondo te si può perdere una così, intendo una concorrente così valida, per una vecchia vendicativa?”
Pier vagò lo sguardo. “Un peccato davvero.”
Max gli si accostò di più ancora, il tono abbassato e l’espressione torva. “Non possiamo fare niente, no?”
Lui dilatò gli occhi, si strinse nelle spalle. “Del tipo?”
“Ma non so, un aiutino, qualcosa. Se la stavano cavando bene prima che arrivasse quella… quella…” Guardò con odio la figura impaludata della Masca. “M’ero scordato di lei.”
“Sai come fanno le Masche: se ti prendono sono dolori.”
“E una volta era pure divertente guardarle fare i loro giochetti, ma ora… ora proprio non è il momento. Le detesto, capisci?”
“Max,” Pier s’accigliò, incerto, “Cosa mi stai chiedendo, esattamente?”
Lui piegò bocca e baffetti, torvo. “Di tirare fuori la mia starlet da questo casino.”
Respiro profondo, espressione attonita. “Sai bene come la pensa Gioele sull’interferire con Illumina.”
“Lo so, lo so, ma possiamo fare una cosa in sordina, senza telecamere, non c’è bisogno che lui lo sappia.”
“Non posso farlo, Max, veramente: sai che io e le regole andiamo a braccetto, non voglio fare cose sottobanco.”
Occhiata nervosa intorno, alla stanza deserta eccetto che per Leandro, nella sua postazione, che lo guardò brevemente di rimando.
“Non pensi al bene dello show? Se perdiamo Mercury perdiamo la star, a questo punto.”
“Potrebbe capitarle qualsiasi cosa anche se la salvassimo ora.”
“Andiamo, Pier, è solo una piccola forzatura, non stiamo interferendo con le fazioni, è solo un piccolo aiuto.”
Lui scosse il capo, costernato. “Convinci Gioele e ti aiuterò volentieri, ma così… così non posso farlo, Max, davvero.”
“Gioele non accetterà mai, neanche in cambio dei miei coglioni su un vassoio.”
“Avrà i miei se interferisco con Illumina.”
“Non puoi proprio?”
Silenzio carico.
“Mi dispiace, Max. Mercury deve cavarsela da sola.”
Guardarono entrambi, d’istinto, il corpo esanime trascinato nella boscaglia, la cantilena della Masca un sinistro sottofondo in cuffia.
 
***
 
Apro gli occhi.
Le palpebre pesano, la testa pure.
Mi sembra di non fare altro ultimamente: aprire gli occhi, avere la testa pesante, non capire un cazzo.
Prima di partire per questo posto maledetto mi svegliavo ogni mattina così, nel mio letto, senza sapere chi fossi o dove fossi.
Poi ricordavo tutto: il congedo, mia madre, i soldi bruciati alle slot. E mi veniva da piangere.
Adesso è uguale.
Ricordo che avevo una divisa, un fucile automatico, nove cretine dietro le spalle: poi di colpo più nulla, neanche un pezzo di stoffa addosso, solo le fauci di un dinosauro e un bosco, una torre, abiti da troia, un coltello, una croce, tre scellerate morte che abbiamo ammazzato noi.
Adesso di nuovo dolore e vuoto.
Di nuovo.
Apro gli occhi, più volte.
La testa pulsa come un alveare impazzito.
Le prime due cose che m’assalgono all’arma bianca sono l’odore e il senso di caldo alla fronte.
L’odore.
Osceno.
Un tanfo di brodo marcio che arriva fino in gola, un miasma che ho già sentito, che mi ha già stomacato una volta.
L’odore.
Il vomito.
Odore di vomito.
Dio onnipotente.
La scarica che mi pervade le fibre è elettricità pura, panico, orrore, terrore.
L’albero cavo.
Scatto come un fottuto meccanismo e vengo trattenuta, obbligata in qualunque posizione mi trovi, seduta, sono seduta, seduta dentro l’albero cavo. Seduta su un ceppo. Un ceppo dentro l’albero cavo. Un ceppo intagliato come una specie di seggio.
Le mani non si muovono, i piedi non si muovono.
Non si muove niente, è tutto vincolato. Sento sulla pelle la stretta del legno, m’hanno legata col legno, con i viticci, con qualsiasi cosa sia che non mi fa muovere niente, giusto le dita, mentre mi agito invano sul dannato ceppo.
Intorno è buio ma una certa luminosità lascia intravvedere i contorni di una stanza da incubo, con oggetti abbandonati, sparsi, vestiti intrisi, scaffali invasi dalle foglie secche.
Poi la voce. La voce non mi esce, non esce, un verso sconnesso è tutto ciò che riesco a emettere, un lamento prolungato, un suono stupido e disperato. Ho qualcosa in bocca che non è un bavaglio, è ferro, m’hanno messo qualcosa di ferro in bocca, ferro che sa di ferro.
Dio, Dio, è l’albero cavo.
L’odore del vomito.
Ci ho camminato scalza nel vomito, senza sapere che era vomito. Le scarpe le ho ancora, anche i vestiti, non come l’altra volta.
L’altra volta sono uscita sulle mie gambe, stavolta sono seduta su un ceppo e non mi posso muovere, non posso neanche chiudere la bocca: c’è qualcosa di ferro che mi hanno messo lì, tra le mascelle, come un anello cacciato tra i denti, per esteso.
Sto tremando come una foglia.
Il calore sulla fronte è sangue. Sangue dalla botta che ho preso, la mazzata sulla testa. In testa ho un alveare.
E del sangue che scola sul sopracciglio.
“Tranquilla, è bello qui.”
La voce arriva da destra, proprio accanto: strillo e sobbalzo, i legami sollecitati, l’ansia che parte, il respiro pure. Mi volto a guardare e, come in un gioco di prestigio, alla mia destra sta seduta un’altra, seduta su un ceppo come me, legata come me.
Non la distinguo bene nella penombra, sembra avere lunghi e disordinati capelli chiari. È magra, magrissima, stremata, il viso scavato con chiaroscuri orribili. La guardo con due occhi da pazza isterica dove i suoi sono quieti e lattiginosi.
“È bello qui: la giagia, la nonna, si prende cura di noi.”
Rispondo solo con un verso attonito che è tutto ciò che riesco a produrre col ferro in bocca e l’ansia a mille.
Il cuore batte come un martello. Mi ricordo di lei. Era già qui l’altra volta, quando ho camminato scalza nel vomito, quando sono entrata qui cercando qualcosa e trovando il telefono. Era qui e mi aveva parlato, in questo stesso modo.
M’ero presa male, terrore puro, come adesso.
Respiro. Cerco di calmare i battiti.
Il telefono.
Trovato qui.
In questo posto di merda, nel vomito, tra i vestiti gettati, dove qualche altra balorda come me è andata a morire in mano a una vecchia che è una strega, un mostro, io l’avevo capito subito. È tutto uno schifo su quest’isola, tutto.
Cerco di guardarla, lei, la prigioniera dentro l’albero cavo, qui chissà da quanto. Devo avere lo sguardo più ebete e impaurito del mondo. “Exilles?” Spero capisca nel verso sconnesso che emetto, le lettere mangiate, soffocate dal bavaglio, “Sei Exilles?”
Lei sorride. “La giagia ci vuole bene, si prende cura di noi. Non vuole che pensiamo a niente, solo a bere, come alle feste, solo quello.”
“Sei Exilles, Cristo?!”
Non si capisce, non mi capisco, sto guaendo suoni senza senso, mi vien da piangere. Sto piangendo. Le spalle mi sussultano nello stress e nel dolore fisico, sto singhiozzando. Forse questo relitto di donna al mio fianco è Exilles e non ci sta neanche più col cervello. Forse anche il mio, di cervello, è agli sgoccioli, tra fumi d’oppiacei e colpi violenti.
Exilles, la ragazza dei video, le cose incredibili che ha visto, solo per finire qui, così, in questo buco d’inferno.
Potessi spegnermi come un giocattolo a pile mi spegnerei. Non voglio soffrire più.
Non voglio più avere paura, temere questa penombra, il vomito, l’odore osceno che mi entra fino in gola e non posso chiudere la bocca. Fottuta Radiosa. Fottuta isola. Fottuta vecchia.
È tutto un gigantesco orrore.
Tutto
un
gigantesco
orrore.
Passi strascicati dall’ingresso echeggiano nella cavità dell’albero, la poca luce che filtra dall’entrata s’oscura; il cuore batte più forte, i vincoli sembrano ancora più stretti.
“All’inizio è dura, ma poi ti abitui,” recita il relitto al mio fianco, “Devi solo bere, solo bere, nient’altro. Come a una festa.”
Solo bere, non ha senso, non può averne. Il vomito che intasa il pavimento.
“Da quanto sei qui?” Ma esce solo un altro verso sconnesso.
Veste una maglietta e dei calzoncini fradici, roba che deve avere addosso da quando è stata rinchiusa in questo antro, le sue gambe sono secche e con le ossa che affiorano sotto la pelle: non si muove da parecchio, forse non s’è mai alzata da questo ceppo cui è legata, come me, forse neanche io mi alzerò più da qui.
L’ansia cresce, divora, stride, morde.
L’ombra sull’ingresso diventa una figura, la figura è quella della vecchia che anche nel buio sorride, per nulla toccata dall’odore caldo e nauseante. Si avvicina reggendo il bastone, quello che mi ha quasi spaccato la testa: sarà la paura, l’agitazione, la penombra, ma non la ricordavo così orrida. Sembra vecchia più del mondo, la pelle scavata dal tempo e seccata dal sole; sembra essere qui da sempre, come i sauri, le bestie, e se c’è un male assoluto che vive su quest’isola non può che essere lei, lei solamente, forse più di Atreja e il suo codazzo sanguinario.
“Ho sete, giagia,” mormora l’avanzo di donna al mio fianco e il suo tono è quasi felice, di quella felicità indotta, irreale, ebbra, da sindrome di Stoccolma. Guardo l’essere in panni da anziana accostarsi a lei, in volto ha la soddisfazione dell’artista: toglie dalla cintola una grossa fiasca scura, gonfia, uno stomaco essiccato che a malapena le sta in mano.
“Bevi, tesoro, bevi.”
Il collo di lei si piega indietro, la fiasca appoggiata sulla bocca aperta. Il flusso del liquido le riempie la gola a sorsi smodati.
Bevi, tesoro, bevi.
Mi piaceva bere, a diciassette anni, a diciotto, il sabato sera, il Pavillion, la calca dei liceali come me, come noi. Bere e dire cazzate, con quel giro di pessimi amici che m’ero costruita, solo perché amiche non ne avevo, troppo stronza, manesca, troppo intrattabile.
Mi evitavano tutte, allora, tutte quante; le guardavo passarmi intorno veloci come acqua corrente, piena di vodka e col sorriso sfatto, e bastava niente, niente, perché mi partisse l’embolo di umiliarne qualcuna, col ventaglio di stronzi che rideva e rideva. Che voleva di più.
Di più.
Bevi, bevi!
Che se Irace beve va fuori di testa. Che già di suo Irace è una tamarra, un pessimo elemento, ma se beve fa dei numeri fuori di testa.
Ci sono donne che se bevono perdono la dignità, le ho viste, ne ho viste a pacchi; io invece diventavo solo più aggressiva ancora, più cattiva, più me stessa. Più fottutamente me stessa.
Ho fatto cose brutte da ubriaca, fatto piangere ragazzine. Una ha cambiato istituto per colpa mia. Perché aveva paura di me. Perché ero così, lo sono sempre stata. Una vessatrice, è nella mia natura.
Nel mio DNA.
E se perdo il controllo è anche peggio. La Gang-Bang mi ha tolto la ragione: io ho sterminato la Gang-Bang.
L’ho sterminata.
Sono arrivata al passo finale: uccidere. Ho ucciso. Per difesa, per reazione, per necessità. Ho ucciso.
Finito il liceo, quando mio padre se n’è andato di casa per non far finire tutto in tragedia, mia madre ha cominciato a bere. L’ho vista perdere la dignità un grado di alcool alla volta, e mi sono vergognata.
Ho provato una vergogna infinita.
Non ho più bevuto, neanche una goccia.
Mai più.
Ho odiato l’alcool e gli alcolizzati, ho odiato quella enorme massa di merda minorenne che ogni sabato sera si riversava nel Pavillion per bere e ammazzarsi di musica, ho odiato ogni singolo stronzo di essere umano che avesse in mano una bottiglia o un bicchiere con una gradazione alcolica.
Non ho mai smesso di odiarli.
Mai smesso.
Non ho più avuto bisogno dell’alcool per essere me stessa.
Mai più.
La fiasca recede, la vecchia si scosta. Guardo inorridita mentre lei, la Exilles che è venuta qui per morire, ansima e tossisce dopo un’apnea lunghissima, si scuote e contrae. I suoi occhi roteano per un attimo al bianco, la testa oscilla paurosamente.
È un solo momento, poi il suono del conato riempie il silenzio, il suono, quel suono del liquame che sale l’esofago, riempie la bocca, poi esce. Si riversa come un fiume in piena sulle ginocchia, sul suolo, un flusso osceno di materia gastrica, con le contrazioni del ventre e le vibrazioni dei polmoni: ogni parte di lei suona una melodia d’autodistruzione, di caos.
D’orrore.
Guardo lo spettacolo perverso d’una giovane donna che vomita la sua anima in terra e sono di nuovo lì, fuori dal Pavillion, diciotto anni e torrenti d’alcool nel sangue. Come me altre.
Siamo lì, nel vuoto dei sensi, l’ebbrezza, nel caos della testa, a sentirci chiedere un pompino o di scopare sui sedili dietro di una Punto.
Qualcuna non ha detto di no.
Mi sento prendere per il mento e sollevare la testa; davanti a me c’è la creatura più orribile di Galena che sorride nella penombra. Non è un essere umano o ha smesso di esserlo molto tempo fa. Negli occhi della Masca dell’Est io vedo la soddisfazione dell’artista e la sottile cattiveria di quella parte di mondo che gode nel vederci crollare sotto i colpi dell’alcool, ogni sabato sera, ogni volta, morire dentro di una morte che abbiamo scelto con le nostre mani.
L’abbiamo scelta noi.
Non ci hanno puntato una pistola per essere qui oggi.
L’abbiamo scelto noi.
Vorrei chiudere la bocca, serrare i denti, ma l’anello che ho tra le mascelle rende tutto inutile. Non serve scuotere la testa, gridare, strattonare i legami.
La fiasca mi si conficca tra le labbra.
“Bevi, tesoro, bevi”.
Chiudo gli occhi per non vederla, la forma umana del demone dell’alcool, quello che ha preso mio padre prima e mia madre poi, il ventaglio di stronzi coi quali uscivo il sabato sera, e via via tanti altri.
Il beverone che scende a colpi violenti nella mia gola è un fermentato di potenza, un incendio in forma liquida, un flusso di magma che arroventa stomaco e viscere, vaporizza i polmoni. Lacrime bollenti spiovono sulle mie guance avvampate.
La testa esplode in un coacervo di visioni in fiamme, di calore, i pensieri disciolti in un oceano caustico e ribollente. Ogni cosa di me, ogni angolo del mio corpo e della mia anima, s’incendia. Soffoco in un’apnea di fuoco e fiamme, di lava, d’orrore tinta brace, colori incandescenti scatenati dietro le palpebre.
Poi finisce, com’era iniziata.
La fiasca lascia l’incavo della bocca e l’aria ritorna: è un respiro folle, immenso, è un grido di dolore infinito e infinito sollievo, è ossigeno che torna a scorrere dove c’era solo liquido in fiamme. Grido e piango lacrime di fuoco mentre lo stomaco va in insurrezione e si ribella all’abuso, al torrente di magma che ci si è riversato dentro.
Inizia così, con un conato che strozza la voce, che sconquassa i polmoni. Poi tutto risale, lo sento fare la strada inversa come un lurido serpente di materia gastrica.
L’impulso, l’unica cosa razionale che resta in me, è quello di chinarmi in avanti, alla disperata, spalancare le gambe per non mandarci sopra quel che sta arrivando.
Vomito.
Tutto, tutto quanto. Un torrente di rigetto drena il mio corpo provato, strizza e contorce le interiora, rovescia fiotti e spruzzi sul pavimento ligneo dell’antro.
È il tripudio del reflusso, l’apoteosi del vomito.
Dietro i miei occhi serrati scoppiano fiori di lava e allucinazioni di corpi in fiore, di amplessi su sedili luridi, improbabili geometrie di sperma.
Tossisco, sbrodolo e piango assieme. Non sento gusti, odori, pulsioni: tutto è bruciato nell’inferno che ora è il mio corpo dissestato, la mia anima in frantumi.
Ansimo senza sosta e nelle orecchie un fischio assordante cancella qualsiasi altra percezione.
“Alle belle ragazze piace bere,” la voce della Masca è assieme femminile e maschile, è un concerto di grida e strepiti, piacere e dolore, nella mia testa.
“Facciamo festa,” lettere che s’imprimono come aghi, bruciano, marchi a fuoco, “Una grande festa.”
Legata a un ceppo, in balia di un demone, i miei giorni saranno questo e questa sarò io: l’orrore che vive nelle isole non è così diverso da quello che abbiamo lasciato al di là del mare.
L’orrore.
Come in quel film con gli elicotteri.
L’orrore.
L’orrore.


***
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SUPERPREDATORI - parte 26 Empty Re: SUPERPREDATORI - parte 26

Messaggio Da Petunia Lun Ago 30, 2021 1:45 pm

@Fante Scelto mammamia che pezzo! Angosciante, adrenalinico, mozzafiato. Nel suo genere mi ha proprio convinta. Bello (se si può dire)
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