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SUPERPREDATORI - parte 27

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Messaggio Da Fante Scelto Mar Lug 20, 2021 4:02 pm

***


Frammento 10 – Intervista a Caterina Morabito, psicologa (parte 1)

 
Luce soffusa in sala, l’applauso del pubblico è composto, signorile, adeguato alla seconda serata.
“Si è molto discusso,” Nadia giunge le mani in un gesto riflessivo, lo sguardo rivolto verso la donna di mezz’età seduta sulla poltroncina di fianco, “Di questa particolare concorrente al momento senza volto, Serenity. Una concorrente la cui identità è sconosciuta, per ragioni di privacy ma non solo.” Accenna ancora verso l’interlocutrice. “Ce ne parla la nostra ospite di questa sera: Caterina Morabito, psicologa, che segue molto da vicino il caso di cui tratteremo questa sera. Benvenuta, Caterina.”
Applauso morbido dello studio; lei, il viso ancora levigato nonostante l’età, i capelli cortissimi di un bianco tinto, gli occhi scuri e attenti, sorride con solo un lato della bocca.
“L’identità di Serenity non è stata resa nota,” prosegue Nadia, “Perché si tratta di una donna attualmente detenuta in carcere per reati gravi e che sta scontando la sua condanna. Una donna cui i giudici hanno accordato un permesso eccezionale: quello di partecipare allo show di Superpredatori. Ma, Caterina, a cosa è dovuta questa decisione che ha generato parecchio scalpore, soprattutto in rete? Tu hai seguito il caso molto da vicino.”
Un mezzo sorriso, lei, assenso studiato. “Sì, io ho avuto in cura Serenity per molti mesi. È una donna che esternamente può apparire distante e fredda, ma è dotata di una sensibilità fuori dal comune. E questo è uno dei motivi per i quali i giudici hanno accordato questo speciale permesso.”
Mormorii in sala.
“Come puoi intuire dalla nostra sempre ineccepibile platea, però, qualche dubbio permane: una persona che ha commesso dei reati gravi può ottenere l’uscita dal carcere per partecipare a uno spettacolo? Innumerevoli richieste di questo tipo vengono rigettate ogni mese.”
“Premettiamo una cosa importante, e cioè che non si tratta di partecipare a uno spettacolo qualsiasi, ma a uno che comporta dei notevoli rischi personali; Serenity non andrà a divertirsi, ma rischierà la sua vita in un contesto di estremo pericolo, paradossalmente molto superiore a quello già traumatizzante del carcere. Nessuno credo abbia il coraggio di pensare che quelle isole siano un luogo di vacanza. Con questo detto, sì, anche una persona che ha commesso reati gravi ha diritto a una chance di redenzione, una donna in particolar modo.”
Nadia sorride sorniona. “Questo è uno dei punti cardine della questione. Da quando esiste Superpredatori sembra che la donna sia diventata il fulcro della nostra società, almeno mediaticamente. Dai casi eclatanti di cronaca, come quello di Monica Varvato, agli incrementi di pena per il femminicidio, per arrivare ai piccoli episodi della vita quotidiana, dove sempre più personaggi femminili, spesso negativi, salgono in cattedra. Avrai letto del grave episodio di bullismo all’istituto Galilei.”
“Sì, sì, impossibile non sentirne parlare.”
 “Ecco: ma cosa sta succedendo? La società come l’abbiamo conosciuta per decenni sta finalmente cambiando?”
“Direi proprio di sì, Nadia. Molte delle azioni che hai citato sono il prodotto di secoli di mentalità patriarcale che oramai fatica a tenere il passo con l’evoluzione dei tempi.”
“In altre parole, l’uomo sarebbe la causa delle azioni della donna.”
“Semplificando molto, sì.”
“Non puoi parlarci per questioni di privacy delle responsabilità personali di Serenity, ma vorrei comunque chiederti: anche le sue azioni sono state determinate dagli uomini?”
Caterina sorride algida.
Lo studio risuona di respiri e leggeri colpi di tosse.
“Sì, certamente.”
“Non è una frase un po’ forte?”
Altro sorriso algido. “Quante volte hai sentito dire, di fronte a uno stupro, Se l’è cercata? Quante volte la morale comune ha dato parte della responsabilità alla vittima? Quante donne che hanno subito una violenza si sono sentite questionare su cosa facessero in giro a quell’ora, perché fossero da sole, persino il modo in cui vestivano? Come mai, nel raro caso di delitti a sessi invertiti, nessuno si chiede mai se la vittima non abbia parte della responsabilità?” Pausa. “Vedi, le donne stesse sono talmente abituate a veder soppressa la propria dignità che non lo realizzano. Non notano questa grave differenza, e nessuno, non uno dei mass-media si esime dall’utilizzare due pesi e due misure nell’attribuzione delle responsabilità. Prendi il caso di Monica Varvato: quanto è stato detto su di lei? Quanto veleno le è stato scagliato addosso dalla rete, dai giornali? Quanti si sono chiesti Ma è stata forse portata fino a questo atto estremo? Non è che una parte della responsabilità è anche delle vittime?
Nadia esita, le palpebre sbattute un paio di volte. “Monica Varvato ha avvelenato a morte cinque persone, tre delle quali dichiaratamente senza ragione.”
“Cambia l’esito ma non la sostanza: per arrivare a un atto del genere che livello di disperazione deve raggiungere una donna?”
“Il caso di Serenity è simile a quello di Monica Varvato?”
“Per certi versi. Anche con lei i media non sono stati teneri, a suo tempo, e nessuno ha mai insistito più di tanto sulle ragioni del suo gesto. Per cui io dico sì, a una donna come Serenity e molte altre che sono state portate al limite della sopportazione deve essere data la possibilità di trovare una strada diversa dal carcere per redimere il proprio passato.”
Mormorii diffusi.
“Serenity è stata inserita ufficialmente nella celebratissima Ondata 9; il merchandising ufficiale e la pagina dello show la ritraggono sempre incappucciata e col volto adombrato per le ragioni che abbiamo esposto; puoi dirci qualcosa sul suo stato d’animo? Come vive questa imminente avventura?”
“Oh, lei è molto contenta, rilassata, il suo morale è ottimo. Si addestra in carcere e occasionalmente presso le strutture dedicate dalla Visions, sempre in rigoroso isolamento. Mi ha confidato di non avere timore delle creature di Illumina, ma di averne molto delle altre concorrenti. Le sue esperienze l’hanno segnata e non nutre particolare fiducia nelle persone. Stiamo lavorando parecchio su questo aspetto.”
“Parlando delle altre: le sue future compagne di squadra hanno idea di chi Serenity sia? Hanno avuto perplessità su questa scelta?”
“Ti dirò: la produzione è stata molto vaga in merito, e le altre concorrenti dell’Ondata 9 sono troppo concentrate sulla preparazione, come è giusto che sia, per pensare a chi farà parte della loro squadra. Ricordo infatti che lo show prevede solo saltuari allenamenti in comune, e che le concorrenti non hanno modo di approfondire la conoscenza prima di partire per le isole: si tratta di un esperimento sociale importante e ben collaudato, teso a simulare un ambiente nel quale estranee complete devono cooperare per un fine comune. Penso che ci sarà ben poco tempo e modo di pensare al passato di ognuna quando quelle ragazze verranno mandate sull’isola.”
“Farai il tifo per loro?”
“Farò il tifo per Serenity. Ti dirò: Superpredatori è un’opera a suo modo geniale nonché una miniera di approfondimenti psicologici, con tutto quello che abbiamo visto nei mesi scorsi e quanto ancora vedremo. Non ti nascondo che questa Ondata 9 promette bene e, per quanto io sia contraria alla violenza, non posso negare che uno spettacolo così crudo abbia i suoi risvolti positivi per chi riesce a leggerli.”
“Tu sei vicina alle posizioni di Eleuteria in merito a femminismo e diritti della donna.”
“Sì, Eleuteria è un punto di riferimento importante, e credo, come Kabanda ha più volte ribadito, che ci sia del buono in questo esperimento pur ricco di contraddizioni e violenza.”
“Staremo a vedere, allora, con la partenza che si avvicina di giorno in giorno.”
“Ti confido un segreto: la mia speranza per lo show è che su quelle isole venga a costituirsi una vera e unica società delle donne, composta solo da donne e da esse gestita in armonia e senza alcun uso della forza. Credo fermamente che una possibilità, per questa sorta di utopia, esista e vada perseguita. Sarebbe il trionfo di quelle idee che io, come molte altre donne di cultura e istruzione, sosteniamo da sempre.”
“Insomma,” Nadia ammicca sottile, “Senza più uomini avremmo un mondo di pace e prosperità.”
“Senza uomini e senza denaro, perché una donna mai e poi mai avrebbe inventato il capitalismo.” Risata composta. “Freud ha reso celebre l’invidia del pene, senza accorgersi quanto più grande sia l’invidia dell’uomo, inteso come maschio, verso l’utero, la maternità, l’incredibile atto di dare alla luce un figlio. La donna è la culla della vita.” Pausa. “La donna merita un trio di isole sulle quali ricominciare da capo la storia del nostro mondo.”
 
***
 
Ho perso la cognizione del tempo.
Potrebbero essere ore, forse un giorno intero; l’interno dell’albero cavo è sempre uguale, con la stessa flebile luce che arriva dall’esterno, il medesimo odore rivoltante.
La mia mente ha viaggiato per strade che non conosco, alternando momenti di lucidità a lunghe catatonie fatte di pensieri illogici, ricordi sconnessi, lampeggi d’immaginazione. Riempimenti dettati dall’alcol per rendere meno vuoto lo scorrere delle ore.
Bruciori alle viscere mordono con occasionale forza, ricordandomi che sono all’inferno. Che ci resterò a lungo. La testa pesa, abbandonata sul petto, senza la forza per star su da sola.
Exilles, al mio fianco, parla di tanto in tanto, recita concetti ancor più sconnessi di quelli che mi si agitano dentro, in buona parte neanche li intendo. Non credo le avanzi alcuna goccia di razionalità: è un relitto bruciato dalla tortura alcolica cui è ormai assuefatta.
La Masca, il demone, appare e scompare dal mio campo visivo offuscato, impossibile dire se sia sempre lì con noi, se guardi la mia, la nostra agonia, o se svanisca nel mondo di fuori e poi ritorni.
Calori salgono e scendono col ritmo del mio respiro, incendiando aree sempre diverse: il petto, il ventre, la testa, la gola, le orecchie.
Più di una volta mi sono ritrovata a casa, nel mio letto, buttata tra le lenzuola, con Illumina e tutto il resto relegato a pessimo sogno. Un paio di volte, invece, mi sono rivista nel dannato tino, e Pigia, pigia, col pigiare, nuda e sudata, affondata nell’uva rossa fino alle caviglie.
Il mio fottuto incubo.
Non sono a casa né in un tino.
Sono qui.
Nell’albero cavo.
Divorata dall’alcol, il cervello bruciato.
“Hai sete, bella ragazza?”
Apro per metà gli occhi, perché più di metà è un’impresa che non posso affrontare. La voce, comunque, la riconoscerei tra mille.
“Io sì, giagia, io sì!” cinguetta Exilles, il tono stridulo, malato, perso. La vecchia si sposta, amorevole, a versarle in gola un altro robusto flusso di bevanda di fuoco.
Io non ho neanche smaltito la prima dose. Io continuo a svegliarmi nel mio letto, in un tino gonfio d’uva e su questo maledetto ceppo, a rotazione, io sento il cervello accendersi e spegnersi senza ordine né logica: adesso arriva la seconda dose e non ho idea di come reggerla.
Non ho idea.
Di
come
reggerla.
Suono di conato, al mio fianco, poi è vomito, è liquame che spurga e sgorga dalle viscere e si spande sul pavimento. Vorrei piangere.
L’alcol non mi fa piangere.
L’alcol fa ridere le belle ragazze, le rende ancor più belle. Più libere. In balia del mondo.
In balia.
Del mondo.
Presa per il mento la mia testa si solleva. Non posso chiudere la bocca e neanche ho l’impulso di farlo.
La fiasca s’appoggia sulle labbra.
Arriva.
L’onda di fuoco, l’inferno liquido, arriva.
È solo un momento, quello in cui sembra che l’incubo riprenda, invece no.
La Masca irrigidisce con un verso disumano, un verso di dolore; si scosta brusca, come una grossa bestia ferita, si volta: la fiasca cade sul pavimento con uno sciaguattio orribile.
Non sono sicura di ciò che sto guardando. Non vedo niente, non capisco niente, non distinguo, non interpreto, la testa mi scoppia. C’è qualcuno sull’ingresso, una figura femminile delineata dalla luce.
Come in un sogno.
La strega urla, strepita, si agita, toglie da dentro la veste un coltellaccio rugginoso. Si muove in avanti, verso la soglia dell’albero, curva e grottesca, creatura da incubo.
Davanti ai miei occhi annebbiati c’è forse il duello del secolo, la sfida finale di un film, la lotta tra il bene e il male, e io non vedo un cazzo: solo ombre che si agitano e misurano nello spazio di questo antro.
Qualcuno mi sta aiutando, qualcuna è venuta qui per me.
Una parte di me esulta, l’altra sta solo a guardare in stupida attesa degli eventi. Sono un pezzo di carne legato a un ceppo mentre angeli e demoni combattono all’arma bianca sul palcoscenico della mia vita.
Lei, chiunque sia, evita affondi e fendenti della Masca con la disinvoltura dell’acrobata. Evita e non risponde, schiva, fa stancare la vecchia avversaria.
Vedo solo figure agitate, convulse, ombre feroci, pure è come se potessi vedere ogni cosa, ogni dettaglio, ogni movenza al rallenty. Come nei film dai più spettacolari effetti speciali.
Schiva, evita poi, quando lo spazio dell’antro finisce, risponde.
È lo stesso di vedere un passo di danza a coefficiente di difficoltà estremo.
Mai amato la danza. Roba da sciacquette.
Un passo avanti, di lato, blocca il braccio della strega, gira, affonda un colpo spettacolare al collo.
Non vedo ma sento il suono tremendo della carne che si apre.
La Masca dell’Est barcolla per un attimo, muove un passo avanti con la silhouette di un’arma bianca infitta attraverso la gola. Gorgoglia con la sua voce disumana e mena un fendente senza forza al nulla, riflesso incontrollato.
Un lungo attimo di attesa, di tensione totale.
Oscilla.
Poi cade.
Crolla in avanti di sasso, di peso, accasciandosi al suolo come un mucchio di luridi stracci e foglie secche. L’ho stesa pure io, giorni fa, mi era bastato un pugno.
Io l’ho lasciata vivere e ne ho pagato il prezzo.
La Masca dell’Est non c’è più.
È un cadavere steso nel vomito della sua dimora.
Batto più e più volte le palpebre, nella penombra, cercando di vedere, distinguere, scorgere.
Lei, l’angelo della redenzione, estrae l’arma dal collo della strega e la pulisce sulla sua veste; si avvicina ad entrambe noi, legate ai ceppi. Non vedo niente, solo la sua silhouette disegnata contro la fioca luce dell’ingresso.
Vorrei parlare, andare a ruota libera, dire grazie, gridare non farò mai più l’errore di lasciare viva nessuna.
L’urlo che nasce alla mia destra è quello di Exilles, o ciò che resta di lei: la ragazza erompe in un pianto stridulo, si agita, strattona i legami. “Giagia! Giagia!” La sua voce è isterica, selvatica, incontrollata. “No, giagia, non lasciarmi da sola!”
Sindrome di Stoccolma, pazzia, delirio. La guardo incredula mentre si dispera per la fine dell’incubo, il suo incubo, il nostro incubo.
“Dammi da bere, giagia, ti prego, giagia, ti prego, dammi da bere, ho sete, ho sete, ho sete!”
Grida e piange, disperata, inarcando la schiena e tirando i vincoli, impazzita.
“HO SETE!”
HO SETE.
SETE.
SETE!
SETE!
Il braccio di lei, la salvatrice, si tende elegante.
“HO SETE!”
Le appoggia una lama al collo.
“HO…!”
Le apre la gola con un taglio deciso.
Sete diventa un disgustoso rigurgito di sangue e saliva che spruzza fuori dalla trachea aperta.
Guardo attonita la mia compagna di sventura chinare la testa avanti, sul petto, e rilassarsi nel trapasso; i suoi ultimi respiri sono un raschio polmonare prima che la morte se la porti via.
Guardo senza pensare, senza capire, senza nulla più che una disperata voglia di tornare a casa.
La guerriera si sposta accanto a me; non riesco a sollevare la testa, a guardarla, non riesco a cercare i suoi occhi, il viso, niente. La mia faccia sfatta, spaurita, l’anello che mi tiene aperta la bocca: devo avere l’espressione più stupida e ingloriosa del mondo.
Mi vergogno.
Scompare dietro di me, e se per un attimo quasi percepisco il tocco della lama sul collo, quello successivo sento i legami recidersi.
Sono libera.
Libera.
Mi alzo con le gambe che tremano, le caviglie che fanno un male dannato. Barcollo sul pavimento denso di vomito mentre con mani che vibrano di tensione e dolore lotto per togliermi il bavaglio, l’anello di ferro: getto tutto nell’ombra con un verso di disperazione, ansimante, stringo i denti così forte da sentire l’osso gemere, un verso di sollievo e sofferenza impossibile da spiegare.
“Chi sei?” La mia voce è stridula, tirata, senza forza.
Lei non risponde, lei non c’è: mi guardo attorno, incredula, la strega morta, Exilles morta, ma lei non c’è. Sto impazzendo, è il buio, la paura, la tensione. Forse il buio la cela, forse sono io che non vedo. Polsi e caviglie fanno male, bruciano, la testa mi scoppia.
Non voglio restare un istante di più in questo luogo, non uno; barcollo all’esterno con le scarpe che sciaguattano nel vomito, mio, non mio, non voglio stare più qui, mai più.
Mai più.
La luce del sole mi travolge e acceca, grido di fastidio e sollievo, le forze vacillano, cado carponi sull’erba. Amo l’erba. Ci affondo le mani, le dita, stringo tutto perché non voglio sia un sogno, uno scherzo della mente, dell’alcol, voglio essere libera e restarlo per sempre.
Tossisco, reprimo un conato, alzo la testa e lei è lì, indefinita, stagliata contro gli alberi e la luce solare che irrompe tra fusti e frasche, “Chi sei?!”
Il candore del giorno brucia le retine, mi copro con una mano. Gli occhi lacrimano per il fastidio.
Ha un lucore attorno al capo che ho già visto in un altro e differente contesto.
Il respiro manca per un lungo attimo.
“Lu?!”
Sogni alcolici, costruzioni, meraviglie oniriche. Dio, angeli, demoni, preziose illusioni.
Vorrei piangere perché le cose accadono e non vi è ragione alcuna, nessuna logica, solo quella di un posto fuori dal mondo, fuori dalla scienza, lontano, impossibilmente lontano da casa.
Prostrata sulle ginocchia, ansante, dolorante, ancora annebbiata dalla tortura alcolica: due oggetti lasciano la mano di lei per finire sull’erba davanti a me.
Sono il mio coltello e la croce di Radiosa.
Impossibile.
Alzo la testa per cercarla, guardarla, ma non c’è nessuno; sono sola nella piccola radura innanzi all’albero cavo. Frugo intorno, frenetica, febbrile: sola.
Impossibile.
Mi alzo, a fatica, cercando intorno un qualsiasi segno della sua presenza: ci sono solo l’erba, le frasche, poi gli alberi. C’è una brezza mattutina che mi scompiglia i capelli raccolti nella coda.
I polsi hanno i segni dei legami, sulla fronte ho il sangue della mazzata presa. Non ho sognato niente, nulla, era reale. Ho visto lei, chiunque fosse, uccidere la Masca e portarmi fuori dall’inferno.
O magari non l’ho visto, l’ho solo immaginato.
Non so più nulla, non capisco niente, la testa mi scoppia. Gli occhi pian piano s’abituano alla luminosità del giorno.
Raccolgo il coltello, lo infilo dopo un paio di tentativi nel fodero, la croce la nascondo in una delle tasche dei calzoncini. Il bosco, intorno, trilla e risuona dei canti dei passeracei.
Non so dove andare, la direzione, non ricordo dove sta il mare, quanta distanza abbiamo fatto, non so nulla. Più nulla.
Potrebbero essere passate ore, forse anche un giorno intero, Artemis e Radiosa non essere più al campo della Gang-Bang. Può essere successo di tutto, può essere finito il gioco, tutte a casa, abbiamo vinto, abbiamo perso: tutto.
Manco un respiro.
Annodato a uno dei fusti d’albero più vicini, un drappo lacero si agita brevemente al tocco della brezza. Mi avvicino, il cuore batte più forte: è un brano di tessuto color verde mimetico, a macchie, l’inconfondibile livrea dell’esercito.
Dio Santo.
È un brandello d’uniforme.
Dio.
Un brandello d’uniforme con ancora attaccato il velcro della patch.
La patch col nome.
Irace.
La mia uniforme.
Non quella coreografica che mi hanno dato per lo show, quella rimasta sulla rupe delle Erinni assieme al resto dei miei stracci, no.
La mia uniforme.
L’Afghanistan.
Kandahar.
Mi volto di scatto, cercandola tra gli alberi, la radura, gli spazi di luce.
“Chi sei?!” La mia voce è rotta, stridula. “Chi cazzo sei tu?!”
Come fai ad avere…?
Il drappo si agita nella brezza, si stende, e nel farlo indica la foresta, la strada da seguire tra gli alberi. Come in un film, un sogno, come se l’isola, quest’isola maledetta, davvero sapesse.
Davvero.
Sapesse.
Sbatto le ciglia che si sono inumidite, trattengo un singulto.
Irace scritto in caratteri arrotondati.
Non può essere reale, non la mia uniforme, non la patch, non qui, non adesso. Sento la mano andare alla tasca, tirarne fuori la croce: è un pezzo di metallo eppure brucia nel palmo, tra le dita. Qualcuno si è preso la briga di ridarcela. Di sbattermi davanti un pezzo della mia uniforme dell’esercito.
È tutto pilotato oppure questo posto va oltre la mia comprensione.
Molto oltre.
Metto la croce al collo, slaccio il drappo dall’albero e lo annodo al polso. Cerco un’ultima volta intorno lei, chiunque fosse, per un grazie, un arrivederci, un porca troia, sei stata fantastica. Lei non c’è, non più, dissolta nel vento, svanita nella luce.
M’incammino senza attendere oltre, la direzione è quella del drappo: ha senso, non ha senso, non importa.
Cammino con le gambe che tremano e vacillano, con gli occhi strizzati nella luce, con la testa ancora in balia dell’alcol.
Il giorno di Illumina irradia ogni cosa e il mondo ricomincia da me.


***
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Messaggio Da Petunia Lun Ago 30, 2021 1:57 pm

Ottimo @Fante Scelto anche questo pezzo che tiene sulla corda fino alla fine e trascina verso l’episodio successivo.
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