SUPERPREDATORI - parte 28
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SUPERPREDATORI - parte 28
***
Capitolo 7
Il campo.
Non so quanto ho camminato, non ne ho idea, ma il campo della Gang-Bang è poco più avanti; accelero il passo, furiosa, salgo il pendio, oltrepasso il perimetro di pietre. Sigrid e Lucilla sono lì, sedute sui sassi, alzano lo sguardo al mio apparire.
Rimaniamo per un lungo istante a fissarci, non capiscono, non capisco; ho lo sguardo grave e il fiatone, le squadro l’una e l’altra, poi la volpe e il procione, sedute e legate lì accanto. Ci guardiamo tutte e nessuna dice niente.
“Quindi?” Radiosa spezza l’impasse, sbatte le palpebre nel suo modo involontariamente sensuale. Mi sale l’odio.
“Quindi cosa?!”
“Non sei andata a cercare il corpo di Saetta?”
Vago le iridi, spaesata, istupidita, “Ma sei cretina?”
Artemis increspa lo sguardo. “Che hai fatto alla fronte?”
“Cioè voi non vi siete chieste dove cazzo fossi finita? Potevo crepare male e voi neanche vi siete poste il problema?!”
Lucilla piega le labbra, sembra un cartone animato di quelli fatti bene, “Hai detto che andavi a cercare il corpo, ti abbiamo aspettata qui.”
“Ci vuole una giornata per cercare un corpo che era là sotto, Dio santo?!”
Si guardano l’una con l’altra e mi sembrano le due più stupide creature che abbia mai visto, le più stupide di tutte.
“Sarai stata via dieci minuti?”
“Dieci minuti?! Io ho rischiato di morire, teste di cazzo, vi ho chiamate, ho gridato! Mi hanno portata via, ve ne siete accorte?! Mi stavano ammazzando, Cristo!”
Di nuovo si guardano come due perfette idiote.
“Mercury,” Sigrid ravvia i capelli con un gesto teso, “Hai battuto la testa?”
“La farei battere a voi, una con l’altra.”
Mi tocco la fronte, c’è ancora del sangue non rappreso. Ho battuto la testa. Sono stata via mezza giornata minimo.
“Chi ha cercato di portarti via?”
“La strega!”
Sigrid vaga lo sguardo attonita. “Quale strega?”
“Quella che…” Non finisco la frase. Lucilla scatta all’impiedi, il suo sguardo è sgranato, lo sguardo di chi ha visto un fantasma. Mi scruta con le labbra dischiuse e le iridi dilatate, luminose, vibranti.
Si avvicina un passetto alla volta, quasi con reverenza, mentre la fisso muta, col sangue che s’è infreddolito e una sorta d’inquietudine, quella che mi prende quando le parte il Momento Zelota. So che un giorno potrebbe piantare una spada anche nella mia, di schiena.
Non riesco a togliermi dalla testa l’immagine di Tania, Gazza Ladra, con la lama grondante che le esce dal ventre.
È lì dentro, dentro di me, e non va via.
Lucilla mi si accosta, lo sguardo fisso, le labbra sempre dischiuse, gli occhi sempre sgranati. Allunga le mani. Le sue mani sul mio seno.
Momento allucinato.
Silenzio.
Due piccole mani tremano nel tirarmi fuori dalla scollatura la croce, la sua croce. La guarda per un lungo attimo, argentea e scintillante, il riflesso specchiato in iridi scure.
Me la toglie con un gesto sacrale, delicato, solenne, la contempla per un lungo attimo prima di rimetterla al suo posto naturale, al suo collo, in vista sopra la maglietta nonostante la minaccia di Tania. Tania che ora è morta con una spada nella schiena.
Radiosa mi guarda, carica.
Si protende.
Deposita un bacio sulla mia guancia. Negli occhi ha un profondo mix di gratitudine e silenziosa ammirazione.
Si scosta con un’ultima occhiata carica; non chiede dove, come, perché, non chiede né vuol sapere nulla. Le basta avere di nuovo la sua croce e guardarmi come si guardano i benefattori, le grandi anime, le persone migliori.
Sono una persona migliore.
“Mercury,” Sigrid spezza l’impasse, il suo sguardo è preoccupato, “Ma che è successo?”
La strega, l’albero cavo, la guerriera: è come se nulla avesse più realmente importanza. Un piccolo gesto, banale, stupido, volgare, un bacio sulla guancia, cos’è un bacio sulla guancia? E quello sguardo colmo, stracolmo, di gratitudine su un viso angelico. Cos’è uno sguardo?
Ho davanti una delle poche creature al mondo cui puoi leggere in volto ogni più piccola sfumatura d’emozione.
Cos’è la sincerità?
Siamo l’unico animale sulla Terra a saper mentire.
A saper fingere.
L’unico.
Alessandra non mi ha mai dato un bacio sulla guancia.
“La Masca dell’Est,” scrollo via l’incertezza, la voce ora più calma, un vago senso di pace interiore; racconto tutto con le parole che trovo, dalla trappola, all’albero, all’orrore dell’alcol. A chiunque fosse che da lì m’ha tirata fuori e poi è scomparsa, lasciando un pezzo della mia uniforme, per farmi sapere che sa chi sono. Sa cosa ho fatto.
Radiosa ascolta senza alcun turbamento, Artemis con lo sguardo sbarrato.
“Non ci siamo allarmate,” commenta a mezza voce, “Perché sei stata via una decina di minuti. Un quarto d’ora, non di più. E non ti abbiamo sentita chiamare.”
“Non è possibile. Ho passato ore lì dentro, ne sono sicura. E anche mi sbagliassi, l’albero cavo non è qui vicino. E di là, da qualche parte verso la costa, ci vuole parecchio per arrivarci. Me la sono fatta camminando, al ritorno, ci ho messo un paio d’ore tutte!”
Lo sguardo di Sigrid è cupo. “Mercury,” il tono lo detesto, è quello di chi deve mettere in dubbio le tue certezze, “Hai detto di aver preso un colpo in testa, sì?”
Silenzio.
So cosa intende.
So dove vuole arrivare.
“Non sono cogliona,” sibilo gelida, “È andata come ho detto.”
“Potresti anche aver…”
“Non ho sognato un cazzo, d’accordo? Ho vissuto tutto. Guardami i polsi,” glieli mostro, coi segni rossi che si vedono e bene, “E il drappo. Era appeso agli alberi fuori dalla tana della Masca. Ho sognato anche questo?!”
“Non sto dicendo che hai sognato tutto, solo che…”
“Che cosa?!”
“Che magari hai mischiato le cose.”
“Non ho mischiato niente!”
“E come hai fatto ad andare e tornare da quell’albero cavo in dieci minuti?”
Questo non lo so. Questo, a rigor di logica, non è possibile.
Fisicamente, materialmente, non è possibile.
Ho camminato un paio d’ore, o magari anche solo un’ora, ma ho camminato. Parecchio. Eppure sono in due a dirmi che sono stata via solo dieci minuti.
Faccio l’unica cosa che mi viene in mente: mi avvento su Jade, la afferro per gli stracci, occhi negli occhi, lei sussulta, si contrae invano. “Quanto sono stata via?”
Occhi stralunati, mi fissa senza sapere come rispondere, se dire la verità o assecondare la mia follia. Carico il pugno per sottolineare che non sto scherzando e lei decide per la via più difficile. “Solo poco!”
“Poco quanto?!”
“Un quarto d’ora.”
Guardo Foxx e lei, senza rispondere, senza un cenno, solo guardandomi con tutto l’odio che prova, conferma che nessuno qui sta mentendo. E questo è un fottuto problema.
Lascio il procione con sprezzo, ritorno dalle mie compagne che osservano mute. Forse il colpo in testa ha il suo peso nella faccenda, forse no. Forse sono solo impazzita e adesso vedo e immagino cose che non ci sono. Forse sono finita appesa in una trappola, ho battuto la testa, ho sognato tutta la storia della Masca, di quella che m’ha salvato, mi sono risvegliata dopo dieci minuti, ero in confusione, sono tornata qui pensando d’aver visto chissà cosa.
Va’ a sapere.
E il drappo, beh, il drappo è una di quelle trovate da film, da produttori stronzi che vogliono incasinarti il cervello. È tutto così su quest’isola, no? Tutto così.
Che ci vuole a stracciare un pezzo d’uniforme dell’esercito, attaccarci una patch col mio cognome sopra.
Che ci vuole?
Facciamo che andiamo avanti come se niente fosse.
“Facciamo che andiamo avanti?”
Come se niente fosse.
L’assenso che ricevo è tutto fuorché convinto, ma mi basta. In questo stato mi basta.
“Cosa si fa?” La voce di Sigrid è incerta, non ha smesso un attimo di guardarsi intorno col timore che arrivi qualcuno, che arrivino le Erinni. “Questo dannato piano?”
Schiarisco la voce, reprimo tutti i pensieri su quanto ho appena vissuto, visto, sentito sulla pelle. Ho ancora un certo malessere che parte dallo stomaco ma è sopportabile. “Vi spiego. Ma la primissima cosa,” torno a guardare Jade, “Sono quelle terre per tingere i capelli.”
“Sono terre colorate,” mormora lei in risposta, “Non so se vanno bene per i capelli…”
“Devono andare bene, altrimenti non mi servite vive: lo avevo detto, no?”
“Le usavamo per la stoffa, non le abbiamo mai usate per tingere i capelli!”
“Proviamo e vediamo che succede.”
“Dipende anche,” sospira intimorita, “Da che colore vuoi ottenere.”
“Blu elettrico.”
Sbianca. “Non… non ci sono terre di quel…”
“Sto scherzando, cretina. Li voglio,” muovo una mano, prendo una ciocca dei capelli castani chiari di Foxx, lei si ritrae infastidita, “Di questo colore qui. Lo puoi fare?”
Esita, guarda la compagna, schiocco le dita per recuperare la sua attenzione. “Non guardare lei, guarda me. Lo puoi fare? Puoi tingermi di quel colore?”
Deglutisce, vaga lo sguardo a disagio. “Ci posso provare.”
“Ci devi riuscire.”
“Va bene.”
“Altrimenti devo cambiare piano e voi potreste non servirmi più.”
“Ho capito.”
“Lo dobbiamo fare subito.”
“Va bene.”
“Se provi a scappare finisce malissimo.”
“Non provo a scappare.”
“Se cerchi di fare qualunque cosa stupida finisce anche peggio.”
“Non faccio nulla.”
“Promesso?”
“Promesso.”
Sigrid s’inquieta per un momento, mi guarda cupa. “La vuoi slegare sul serio?”
“Tu sai fare una tinta con le terre?”
“No.”
“E alla suora non lo chiedo neanche. Come vedi, non ho alternative.”
Lei umetta le labbra, si alza in piedi, tesa.
“Tranquilla, ha detto che sarà brava e ubbidiente. Se succede qualcosa, tu comunque hai un fucile. Ok?”
“Okay.”
“Bene.”
Mi alzo con un respiro pieno, il coltello già in mano. Slego la ragazza-procione, la sollevo in piedi, la avvio verso la piccola caverna che è il loro rifugio notturno. Jade cammina massaggiandosi i polsi, a disagio; vorrebbe parlare, esternare qualsiasi congettura le si agiti dentro, ma non trova il coraggio. Non è la più dura della fu Gang-Bang, ormai l’ho imparato.
Ha un sussulto quando, entrando nella grotta, s’imbatte nel telo che copre i cadaveri di Tania e Nancy. Li aggira con orrore, paura, sconforto, dirigendosi ai ripiani naturali, scavati nella roccia, su cui stanno appoggiati vasetti e vasettini che sono la loro scorta di consumabili.
Ha un altro sussulto quando s’accorge d’aver ravanato con troppa foga tra le cose e il mio coltello s’è alzato in posizione d’attacco: mostra i palmi, tremula, per mettere in chiaro che non ha cattive intenzioni e non ci sono armi nascoste tra il ciarpame. Avrebbe potuto, non l’ho realizzato in tempo.
Troppi pensieri, caos nella testa.
Troppi pensieri.
Raccoglie un trio di vasetti di terracotta, li mostra, incerta, poi un pettine, altri piccoli utensili che non hanno la resistenza per diventare armi improvvisate; faccio segno di precedermi all’uscita, lei non si muove. Vaga lo sguardo come chi deve per forza dire qualcosa.
“Parla.”
“Non,” lo sguardo che alza nel mio ha tutto l’orrore del mondo, “Non darci alle Erinni, ti supplico.”
“Senti,” il mio, di sguardo, è tagliente, “Volete una mezza possibilità di restare vive al termine di questa brutta storia? Allora dovete fare quello che dico io. Dovete aiutarmi a tirare fuori le nostre compagne dal forte. Tu e quella stronza di volpe. Vi stiamo sul culo, abbiamo ammazzato le vostre amiche, lo so, d’accordo, va bene tutto: ma ora dovete aiutarmi, e se lo fate io non vi faccio ammazzare, non vi do alle Erinni, potrei anche lasciarvi andare. Non è una promessa, è una possibilità. È chiaro?”
L’occhio le cade sui cadaveri coperti di Tania e Nancy. Brivido.
“Sì.”
“Dovete fare come dico io. E, soprattutto tu, farlo con convinzione.”
“Che vuol dire?”
“Lo vedrai. Impegnati per me, Jade, Procione, o come diavolo ti chiami, fai quello che ti dico, e avete mezza possibilità di restare vive. Chiaro?”
Annuisce. “Chiaro.”
“E se la stronza della volpe si mette di traverso io vi spedisco a Porsha con un fiocco regalo sul culo, te lo giuro sul mio onore.”
“Va bene, ho capito.”
“Falla ragionare. Non lo dirò un’altra volta.”
“Sì, sì, ho capito.”
Meglio.
“Muoviti.”
Faccio segno di uscire, lei s’avvia a piccoli passi. Torniamo all’esterno.
“Mi serve dell’acqua.”
“La prendo io.”
“E dovete mettere cannella nuova sul perimetro. Sennò siamo esposte.”
“Lu.” Accenno alla suora che, con la croce di nuovo al collo, ha ritrovato quella serenità che aveva prima, è tornata la Lucilla che ho conosciuto all’inizio di questa vicenda. “Ora la ragazza-volpe ti dice dove prendere mele e cannella, e ti insegna come preparare il composto anti-sauri.”
Lo sguardo che Foxx alza nel mio è truce, violento, ma sorrido, sorrido perché guardo Jade e questo è già il suo primo test di fedeltà; lei tentenna, in imbarazzo, poi accenna verso la compagna. “Fallo, Francy, per favore.”
Si prende un’occhiata livida, vibra di tensione.
“Fidati, cazzo.”
Finalmente un po’ di palle. La volpe si rassegna, appoggia la testa contro il masso, espira sordo. So che Lucilla può gestire tutto senza la mia supervisione.
Prendo l’acqua rimasta in uno dei recipienti della sera prima, vado a sedere platealmente accanto al falò ormai spento. “Sig,” lei osserva, cupa, il fucile tra le mani, “Ora lei mi fa la tinta, come dalla parrucchiera. Tu tieni d’occhio la situazione, d’accordo?”
Quanto mi piace dare istruzioni banali: fa comandante da film. Sensazione eclatante.
Artemis annuisce, poco convinta, osserva con distacco mentre Jade mi si accoscia accanto, inizia a preparare l’impasto di acqua e polvere.
“Poi viene via, sì? La tinta, dico.”
“Penso di sì. Non terrà sicuramente come sulla stoffa.”
“Va bene.”
Non so neanch’io come m’è venuta questa cazzo di idea. Ed è folle, senza senso, con probabilità di riuscita minime, a meno che tutto non giri come un orologio svizzero. Quando mai le cose, nella vita, girano come un orologio svizzero?
Quando mai, nella mia vita, le cose sono girate per il verso giusto?
Jade prepara l’impasto e io rimugino sulla colossale cazzata che sto allestendo, che forse ci manderà tutte a morire in malo modo, o peggio, ma è forse l’unica cosa che possiamo fare per salvare le nostre compagne. Per avere una chance di combinare qualcosa in questo fottuto reality.
Pensandoci bene, dovrei garantirmi una via d’uscita se le cose andassero male, intendo se ci prenderanno vive. Del veleno da ingerire, come nei film, magari queste cretine dei boschi hanno qualcosa del genere da darci.
Pensieri corrono e rotolano sui sentieri della mente.
Sono stata via per ore, nelle mani della Masca dell’Est, e scopro che sono stati solo una quindicina di minuti.
Forse ho davvero sognato quasi tutto, ho letto che nei sogni il tempo scorre molto più veloce che nella veglia.
Ha un senso, ce l’ha.
“Va bene così?”
Guardo il recipiente dove acqua e terre si sono mescolate in una pappetta color castagna.
“Sei daltonica? Ti sembra la tinta della tua amica?”
“Non… non è facile fare proprio lo stesso colore.”
“Qual è il tuo unico fottuto compito in questo momento?”
Jade sospira, deglutisce. “Okay.”
“Brava.”
Riprende a schiarire il colore con polvere più limpida; di mio osservo Lucilla tornare dalla grotta con un cesto di mele e altri vasetti, stavolta d’acciaio, segno inequivocabile che sono scorte ufficiali, paracadutate, vinte, sottratte ad altre concorrenti. La guardo sedersi accanto alla volpe legata e, con la semplicità della scolaretta, ascoltare la reticente lezione di sopravvivenza.
Se non iniziamo a imparare non ce la faremo mai a tornare a casa.
Mai.
“Così?”
Guardo la scodella che mi viene proposta con malcelato timore: stavolta il colore sembra davvero il castano chiaro di Foxx.
“Così ci siamo.”
Pregando che st’idea del cazzo funzioni.
“Vai.” Sciolgo i capelli con un gesto elegante. “E fai un lavoro perfetto.”
Lei inspira, tesa. Il coltello in mano, perché nel fodero dietro la schiena non lo terrò di certo con questa che mi maneggia i capelli, reclino la testa all’indietro.
Timida, incerta, Jade-procione sposta gli arnesi del mestiere, la bacinella, va a sedersi alle mie spalle.
Inizia a pettinarmi con le mani che tremano e probabilmente nessuna idea del perché stiamo facendo tutto questo. Non immagina, povera lei.
Sigrid controlla da qualche passo, cupa, Lucilla prepara la cannella che andrà a disporre sui sassi perimetrali.
Per ora tutto funziona, tutto gira come un orologio svizzero.
Abbiamo ancora tempo.
Più di tutto abbiamo, ho, un’idea.
È l’unica differenza tra noi e l’abisso. L’orrore.
L’orrore.
***
“Ma è vero?!”
La miglior difesa è l’attacco: una tecnica che Max Tambori aveva imparato a usare alla perfezione contro Gioele Palazzese, sebbene andasse impiegata col contagocce, per non rendersi prevedibili.
Era appena rientrato dopo una breve passeggiata fuori dall’edificio della sede, per sbollire il fastidio, il nervoso, la tensione. Era tornato nel suo ufficio e, neanche un secondo dopo, aveva sentito i passi frenetici che solo una persona in tutta la struttura poteva avere.
Tre secondi ancora, la porta dell’ufficio s’era spalancata e la figura elettrica di Gioele era apparsa tra gli stipiti, rosso in volto, l’indice già alzato. Uno di quei momenti nei quali bisognava attaccare per difendersi, e senza sbagliare il colpo.
“Ma è vero?!” Scandì con enfasi, meravigliato, pervaso dalla situazione, e Gioele si bloccò con l’invettiva in bocca, come da copione. “È vero che s’è salvata?”
“Sì. Ma non è una cosa normale, non lo è affatto.”
Max rise, una risata piena, carica, incredula, “Dio, amo quella donna!”
“Max, ha ucciso la Masca dell’Est.”
Sgranare d’occhi. “Cosa?!” Scoppiò in una risata ancora più fragorosa. “Oh mio Dio, mio Dio!”
“Max,” il tono di lui si fece più grave, “È stata aiutata.”
“Ah.” Si ricompose, inspirò a fondo, tossì. “Beh, ciò che conta è il risultato, no?”
“Dov’eri?”
“A fare due passi.” Pausa. “Perché?”
“Come hai saputo che si è salvata?”
“Non lo sapevo.”
Gioele espirò spazientito. “Hai esordito con Ma è vero?!”
“Giusto.”
“Come lo hai saputo?”
Max tolse di tasca il telefono, lo gettò sulla scrivania con un gesto spiccio. “Pier mi ha mandato un messaggio.”
“Pier.”
“Sono sceso da lui stamattina presto.”
“Pier ti ha mandato un messaggio.”
“Gliel’ho chiesto, di avvisarmi se ci fossero state novità.”
Silenzio inquisitorio. “E perché sei sceso da lui stamattina presto?”
Max ruotò una mano. “Capire quante probabilità ci fossero che Mercury si salvasse. Non volevo perderla.”
“Non volevi perderla, certo.”
Lui aprì le mani, un’aria interrogativa fin troppo plateale. “Che succede?”
“È stata aiutata, ho detto.”
“Da chi?”
“Non lo sappiamo da chi, non si capisce.”
“Ah.”
Max vagò lo sguardo, un lungo attimo, prima di tornare da lui. “Stai chiedendo se io ne so qualcosa?”
“Sto chiedendo perché continuano a succedere cose senza spiegazione nel mio show.”
“Strano, a me sembrava stessi chiedendo se ne so qualcosa.”
“Non ho detto questo.”
“Da quanti anni ci conosciamo, Giò? Ancora sei convinto che potrei interferire con Illumina quando so benissimo che non vuoi? Davvero? È questa la fiducia che hai in me?”
“Non ho detto questo.”
“Avevamo degli accordi precisi, no? Un messaggio esatto da trasmettere al mondo, la tua visione delle cose, della sociologia, della psicologia, ti ho appoggiato, no? L’ho sempre fatto, anche quando il consiglio pensava che fossi uscito di testa a voler fare uno show con tipe fighe e dinosauri. No?”
“Io non ho,” serrò le labbra in una smorfia di fastidio viscerale, “Detto questo.”
“Bene,” sorrise Max Tambori, “Perché sembrava proprio il contrario.”
“Max: qualcuno ha aiutato Mercury a fuggire dall’albero cavo e ha ucciso la Masca.”
“Hai detto che lei ha ucciso la Masca.”
“Non l’ho detto.”
“L’hai detto.”
“Non posso averlo detto!”
“Allora chi ha ucciso la Masca?”
Gioele emise un verso stridulo, nevrotico, fece segno di aprire la posta e la registrazione che gli aveva girato; attese che lui cominciasse a visionare, impaziente.
“Ma,” il collega aprì una mano, stranito, “Non si vede un cazzo.”
“Appunto! Guarda, guarda.” Gioele passò dietro la sua scrivania, cominciò a indicare lo schermo con piglio isterico. “Guarda: Mercury sta seduta qui, da questo lato, che è quasi del tutto fuori vista. Si vede solo quando si agita, vedi? Vedi?”
“Vedo.”
“Ecco. E ora entra questa… questa qua. Entra e prende alle spalle la Masca, vedi? E siamo sempre al limite del campo, la telecamera qui è ferma, non sta sui movimenti; è sensibile alle pulsioni, al moto, dovrebbe inquadrare invece non inquadra.”
“Ma chi è quella?”
“Non lo so! Ha un cappuccio sulla testa, o una cappa, non si capisce. Assale la Masca, lottano, siamo sempre sul limitare del campo visivo. La uccide, guarda che roba.”
“Cos’ha in mano?”
“Sembra un’accetta, sembra.”
“Io non ricordo nessuna concorrente che avesse come arma un’accetta.”
“Infatti. Infatti! Ma guarda il resto, guarda.”
Silenzio, immagini a scorrere sullo schermo. Max mostrò la lingua in una smorfia di disgusto al taglio della gola della seconda prigioniera.
“E qui esce di nuovo dal campo visivo, passa dietro Mercury.”
“Come se sapesse che…”
Gioele lo guardò con occhi spiritati. “Hai capito?”
“Come se sapesse dov’è la telecamera.”
Annuire tetro. “E come fa a saperlo?”
Max scosse la testa, incredulo. “Non ne ho idea.”
“E bada bene, la telecamera è fuori asse, è statica, e lei passa comunque dietro, come se sapesse anche dell’anomalia. Capisci che è assurdo, sì, lo capisci?!”
“Assurdo.”
Mercury comparve brevemente nella schermata, sofferente, libera dai vincoli, si diresse all’uscita.
“Qui esce e guarda, guarda, nonostante fuori possiamo avere visuale completa e integrale, guarda…”
Max sollevò un sopracciglio. “Perché si vede così bianco?”
“La luce.” Gioele guardava come ipnotizzato. “C’è una luce fuori gradazione. Il sensore di luminosità non si è regolato correttamente. Da qualunque camera inquadri questo spaccato di radura hai il medesimo effetto.”
“Possibile?”
“È quello che chiedo io a te. Che chiedo al fior fiore di tecnici che abbiamo al monitoring, e niente, nessuno mi sa dire se è possibile. Quale luce può mai sballare il sensore delle telecamere?”
Max Tambori increspò i tratti, storse le labbra; sistemò meglio gli occhiali in un gesto di concentrazione, poi controllò l’orologio. “Ma scusa, a che ora è successo tutto questo?”
Silenzio.
“Perché?”
“Al di là della luce anomala, qui c’è il sole. Un sole obliquo, che passa tra gli alberi. Come faceva a esserci il sole obliquo se sono le,” ricontrollò l’orologio, “Nove ora. Quando è successo tutto questo?”
Gioele si grattò la nuca, una variabile che non aveva considerato. Prese il telefono, scorse rapidamente i registri e i tabulati delle attività sull’isola, la timeline degli eventi sensibili, dei picchi emotivi.
“Ho,” esitò, “Ho un apice in quell’area alle otto e mezza.”
Nessun senso.
“Sono le nove.”
“Non può esserci quel sole alle otto e mezza.”
“Ma cosa succede dopo?”
“Mercury ritorna al campo, a piedi.”
“E basta?”
“E basta.”
Max increspò di nuovo le sopracciglia, una smorfia di pura illogicità. “In mezzora?”
Gioele Palazzese rimase per un lungo attimo a fissare il vuoto, lo smartphone serrato nella mano; quando si mosse lo fece nel suo modo nervoso. Puntò la porta senza uscire dalla dimensione alternativa di puro caos nella quale era rimasto imprigionato; Max sapeva perfettamente dove stesse andando.
Si alzò e lo seguì sulla via del monitoring.
***
Fante Scelto- Cavaliere Jedi
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Re: SUPERPREDATORI - parte 28
@Fante Scelto
Lucilla mi si accosta, lo sguardo fisso, le labbra sempre dischiuse, gli occhi sempre sgranati. Allunga le mani. Le sue mani sul mio seno.
Momento allucinato.
Silenzio.
Due piccole mani tremano nel tirarmi fuori dalla scollatura la croce, la sua croce. La guarda per un lungo attimo, argentea e scintillante, il riflesso specchiato in iridi scure.
Ma non l’aveva messa nella tasca dei pantaloncini la croce?
Ho delle considerazioni da fare sul personaggio Mercury. È forse presto per esprimermi andrò ancora avanti con la lettura. Una domanda però te la faccio. È tutto fuorché una eroina… distopia pura?
Creare un’antieroe e far sì che tutti credano che la salvezza sia nelle sue mani, mi inquieta come rivivere certi periodi della nostra storia. Non mi sono affezionata a Mercury, non per il momento. Mi piacerebbe che finisse male (non so se mi spiego) È questo l’effetto che vuoi ottenere? Che tutto sia un grande bluff?
Lucilla mi si accosta, lo sguardo fisso, le labbra sempre dischiuse, gli occhi sempre sgranati. Allunga le mani. Le sue mani sul mio seno.
Momento allucinato.
Silenzio.
Due piccole mani tremano nel tirarmi fuori dalla scollatura la croce, la sua croce. La guarda per un lungo attimo, argentea e scintillante, il riflesso specchiato in iridi scure.
Ma non l’aveva messa nella tasca dei pantaloncini la croce?
Ho delle considerazioni da fare sul personaggio Mercury. È forse presto per esprimermi andrò ancora avanti con la lettura. Una domanda però te la faccio. È tutto fuorché una eroina… distopia pura?
Creare un’antieroe e far sì che tutti credano che la salvezza sia nelle sue mani, mi inquieta come rivivere certi periodi della nostra storia. Non mi sono affezionata a Mercury, non per il momento. Mi piacerebbe che finisse male (non so se mi spiego) È questo l’effetto che vuoi ottenere? Che tutto sia un grande bluff?
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Re: SUPERPREDATORI - parte 28
Petunia ha scritto:@Fante Scelto
Lucilla mi si accosta, lo sguardo fisso, le labbra sempre dischiuse, gli occhi sempre sgranati. Allunga le mani. Le sue mani sul mio seno.
Momento allucinato.
Silenzio.
Due piccole mani tremano nel tirarmi fuori dalla scollatura la croce, la sua croce. La guarda per un lungo attimo, argentea e scintillante, il riflesso specchiato in iridi scure.
Ma non l’aveva messa nella tasca dei pantaloncini la croce?
Inizialmente sì, poi se la mette al collo (ultime righe della parte 27).
Ho delle considerazioni da fare sul personaggio Mercury. È forse presto per esprimermi andrò ancora avanti con la lettura. Una domanda però te la faccio. È tutto fuorché una eroina… distopia pura?
Creare un’antieroe e far sì che tutti credano che la salvezza sia nelle sue mani, mi inquieta come rivivere certi periodi della nostra storia. Non mi sono affezionata a Mercury, non per il momento. Mi piacerebbe che finisse male (non so se mi spiego) È questo l’effetto che vuoi ottenere? Che tutto sia un grande bluff?
Questa è una ottima considerazione.
E credo che tu abbia individuato un punto chiave della storia. Mercury non è un'eroina, o lo è solo per certi aspetti: è una persona con un passato instabile e un carattere vulcanico.
E' volutamente un personaggio ambiguo, che può suscitare empatia o antipatia a seconda delle inclinazioni personali, ma in fondo anche Atreja, e diverse altre.
Dopotutto il bene e il male sono concetti relativi.
O così Gioele dice.
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