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SUPERPREDATORI - parte 16

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Messaggio Da Fante Scelto Mer Giu 16, 2021 5:17 pm

***

Abbiamo spento le luci presto perché domani ci sarà da camminare.
Non ho sonno, o forse ce l’ho ma non voglio che arrivi.
Ci guardano anche qui sotto, ma non ho trovato occhi elettronici nel controllo che ho fatto prima di coricarci; niente obiettivi, niente nicchie, nessuna fottuta telecamera. C’è di sicuro un trucco, un modo che hanno per seguirci persino qui sotto, ma non riesco a capire quale.
Non è questo a tenermi sveglia.
Artemis dorme già a giudicare dal respiro; Lucilla non ne sono sicura.
Dovrei dormire ma la curiosità rode dentro, senza tregua. Quando allungo una mano nel buio e cerco a tentoni lo zaino, capisco che ha vinto l’istinto. Tiro fuori il telefono, quello trovato, accedo alla galleria di cartelle, entro in una a caso: non c’è richiesta di password.
Vedi?
Vorrei svegliare Lucilla solo per farle vedere che non c’è nessuna password. Esco, prendo un’altra cartella, accesso libero. Ritorno alla prima, dove ho visto i filmati di ieri sera, accesso libero.
Stamattina avrà avuto un malfunzionamento.
Ripenso all’interesse che ha suscitato in quelli della produzione, il telefono, i video che contiene. Ci hanno parlato, all’addestramento, di alcune delle ragazze più forti e quotate di Illumina, ma non ricordo i loro nomi. Non m’importa quasi mai dei nomi degli altri.
Sono abbastanza sicura che non ci fosse alcuna Exilles tra loro, quindi non dev’essere stata una delle migliori, non una degna di nota. In fondo ha solo filmato la sua permanenza nelle isole, magari temono che ci avvantaggi in qualche modo; pensavano che il suo telefonino fosse andato perduto e invece io stronza l’ho trovato.
Questa poi si è filmata mentre tentava di suicidarsi, perfino in ospedale. Questione di privacy? Possono filmarti nuda mentre vieni fatta a pezzi da un sauro ma magari le cose prima dell’isola non possono trasmetterle. Privacy.
Dubbio improvviso.
Questa Exilles, Maddy, si è filmata prima della partenza. Ha portato un telefono da fuori, un telefono suo. Non puoi portare niente di tuo, se non un monile, un oggetto personale, stupidaggini comunque autorizzate. Come abbia fatto mi sfugge, perché ti controllano in continuazione.
Rigiro lo smartphone: niente marca, nessun segno, è identico a quello che ci hanno fornito col kit. Strano.
Forse è per questo che sono interessati al telefono, perché non è loro. Viene da fuori. Se viene da fuori deve avere delle app, un desktop, qualsiasi cosa, invece niente; ci sono solo le gallerie di video e le poche strumentazioni che stanno anche sull’altro nostro apparecchio.
La cosa non ha senso, o comunque mi sfugge.
Play.
 
Immagine sfocata, su e giù, non stabile.
Sembra roccia.
È roccia.
Una parete di roccia, mani che si arrampicano sugli appigli della pietra. Respiro pesante in sottofondo che si mischia col rumore del vento.
Poi il ciglio, l’inerpicarsi a fatica oltre l’orlo, il sollevarsi sulla superficie piana e scabrosa del basalto. Ansimare furioso.
Si alza in piedi e l’inquadratura ondeggia tra gli alberi fitti della sommità, poi volta lentamente verso il crepaccio: la vista è mozzafiato, tra la foresta che si stende a perdita d’occhio e poi il mare, la costa, il blu, il cielo velato.
Mani dai mezzi guanti neri si allungano in un gesto di stizza, di sconforto.
“Non vedo nulla, non c’è nulla,” la sua voce è densa, delusa, “Mi hai fatta salire fin quassù…”
Si accosta al bordo, per un attimo s’inquadrano due stivali di pelle nera, alti, con decine di incroci delle stringhe e fasciature di cuoio sotto il ginocchio; poco oltre il vuoto vertiginoso.
Ha scalato la parete per decine di metri, forse senza equipaggiamento.
“Non voglio più sentire la tua voce.”
Il vento sibila più forte, ciocche di capelli d’un biondo scuro irrompono per un attimo davanti all’obiettivo.
“Non c’è nessun arcobaleno, nessuno.”
È sola, non parla con anima viva, non ci sono altre che l’abbiano seguita. Parla da sola.
“Cosa vuoi da me?!”
Un verso come di pianto, di singhiozzo. Le stesse mani vanno al volto; il silenzio diventa intriso del brusio del vento.
“Muori, Maddy, muori,” un sussurro che si ripete, disperato, di fronte all’abisso. Un piede si avvicina al bordo, tasta la pietra che sembra scricchiolare e gemere al contatto, polvere e sassolini cadono di sotto. Lo stivale sporge con la punta, il respiro si fa più veloce.
“Muori, Maddy.”
Il suono che spezza la malia della caduta è qualcosa che il microfono dello smartphone non coglie nella sua reale entità. È un timbro basso, profondo, con una nota acuta. Un suono impossibile, non di questo mondo.
Scende un silenzio immenso. Il vento diventa un fruscio costante, quasi un’eco di sottofondo.
Lei rimane immobile. Anche senza guardarla in volto si intuisce lo sgomento, la sorpresa.
Ferma, raggelata, sull’orlo del precipizio.
Il suono si ripete, lento e profondo. Riecheggia nell’aria modulandosi e rifrangendosi in toni più acuti o gravi senza una logica apparente.
È un canto. Il canto arcaico di qualcosa che sfugge alla comprensione.
Lei arretra, si sposta dal bordo del crepaccio. Si volta con una lentezza che tradisce apprensione e paura.
Dietro c’è la linea degli alberi fitti, un muro di foresta verde scura contro il cielo non limpido.
È un attimo.
L’inquadratura oscilla per un momento: l’arcobaleno è lì.
Una forma ricurva, grandiosa, che sovrasta la giungla controluce, con i colori dello spettro evanescenti, appena percepibili.
Un singulto di meraviglia è il preludio a un sorriso incredulo, fuori dallo schermo, intuibile anche senza vederlo. Un sorriso di meraviglia.
È solo un attimo: il canto risuona un’ultima volta poi l’arcobaleno si muove, si sposta, riflesso su una vela organica spropositata. Qualcosa di enorme si sposta nella giungla, svettando sopra di essa per un singolo istante, prima che la luce ne confonda i tratti e annulli qualsiasi comprensione.
Gli alberi fremono, decine di pterosauri spiccano il volo gracchiando disturbati.
Non c’è più nulla.
Né arcobaleno, né canto, né nulla: solo la giungla che smette di agitarsi e il silenzio che torna padrone.
“Dio Santissimo.”
Il respiro affannoso, incredulo.
“Dio Santissimo.”
 
***
 
Luce.
Stropiccio gli occhi, infastidita; mi giro su un fianco. La porta del rifugio è aperta e la luce del sole entra di traverso irrorando l’ingresso e parte della stanza. Mi sento vagamente come la domenica mattina, a casa: solo voglia di stare a letto.
Letto.
Pietra dura.
“Silvia!”
Per un attimo neanche riconosco il mio nome. Chi mai mi ha chiamata Silvia in vita mia?
Per mia madre sono Silvì, per mio padre, quando c’era, solo bionda. Alessandra non mi chiama mai per nome. Non mi chiama mai, in generale. Mia sorella non ha mai voluto avere molto a che fare con me: siamo sempre state diverse, tanto diverse. Ha sempre avuto paura di tutto.
Mio padre non se la prendeva mai con lei, no, solo con me. D’altronde è sempre stata quella buona, tranquilla, che non esce di casa. Che non fa nulla. Che sta sul telefonino. Non le ha mai alzato le mani.
Ma non la disprezzo, affatto.
Solo non posso capirla. Non voglio capirla.
Siamo diverse.
“Silvy!”
Mi tiro a sedere, seccata, con un certo fastidio alla testa; Lucilla, sulla porta, ha l’aria anche più entusiasta del solito. “Devi assolutamente venire a vedere!”
“Sì, sì,” fastidio, noia, pesantezza, “Già che mi chiami per nome di prima mattina.”
Entra a passo di carica, “Sbrigati!” Vorrebbe prendermi per un braccio, si ferma in tempo ed è meglio così perché reagirei male.
“Ti rilassi?!”
“Se ne va se non ti muovi!”
Impreco tra i denti, infilo le mie costose scarpe da ginnastica dorate che andavano bene per fare la figa al liceo ma non so quanto dureranno ad andarsene in giro tra prati, sabbie e pietre. Stupidi nerd della produzione.
Radiosa mi precede all’uscita con la foga dei bambini, la seguo controvoglia.
Fuori, nella luce intensa del mattino, Sigrid attende appena dentro il perimetro della torre di guardia, il fucile in una mano e lo sguardo fisso su qualcosa poco oltre; si volta per un cenno di saluto al mio arrivo.
“Credo sia per te,” scandisce sorniona.
Lucilla sorride, euforica, indica verso le due aperture colonnate che danno sul mare. Sporgo per guardare.
Non so cosa aspettarmi. Cosa immaginare. Non so nulla.
Un piccolo pterosauro sta appollaiato sul gradino di pietra, tra una colonna e l’altra. Guarda verso di noi inclinando continuamente il capo, come un fottuto piccione. È maculato di bianco. Un piccolo pterosauro scuro maculato di bianco.
Ha un sacchettino di velluto attaccato alla zampa.
Un piccolo pterosauro scuro maculato di bianco con un sacchettino di velluto attaccato alla zampa.
Alzo le spalle, un sorriso stupido, indifferente, “Per quale cazzo di motivo dovrebbe essere per me?”
“Perché, guarda,” Lucilla si muove, va incontro alla bestiola col mezzo culo che le esce dagli shorts di jeans e una camminata lenta involontariamente erotica. È per me una creatura incomprensibile, più di quella che attende sul gradino di pietra. “Guarda che succede se mi avvicino.”
Lo pterosauro continua a fissarla rigirando il capo con maggiore frequenza; quando gli arriva a mezzo metro spalanca le ali membranose e caccia uno stridio lacerante. Più lei si avvicina più quello urla e strepita, col becco spalancato e le ali sbattute intorno.
“Visto?” Gongola lei guardandomi da dietro la frangia platinata, “E se provo a prenderlo…”
Si china e allunga lentamente una mano: il rettile balza indietro e dispiega le ali, cadendo per un attimo nel vuoto e ricomparendo subito dopo nello scorcio di cielo azzurro; un breve volo planato in circolo e riatterra nel medesimo punto.
“Succede lo stesso se si avvicina lei,” Radiosa si scosta accennando ad Artemis, “Quindi è per forza per te.”
Sbatto più le volte le palpebre. Non so se essere perplessa, stupita, ridere della sua ingenua idiozia o convincermi che la cosa ha un senso.
Credo che nulla, su quest’isola, abbia veramente un senso.
“Okay,” mormoro senza staccare gli occhi dalla creatura, “Okay, d’accordo.”
Mi accosto con cautela. A queste due perle d’avventuriere non è passato per la mente che magari non è per nessuna, magari c’è una spiegazione razionale per un sacchettino di velluto legato alla zampa d’uno pterosauro. Magari è delle Erinni, le Erinni usano queste cose per mandarsi messaggi.
Niente ha davvero senso su quest’isola.
Mi chino lenta, per non spaventarlo, mentre quello continua a inclinare la testa in più angoli, con gli occhi verdastri dalla pupilla verticale che mi scrutano e scandagliano. Ha un che di pervertito anche lui.
Tendo una mano con l’impressione che stia per spalancare le ali e attaccare con gli strilli; invece non succede: si lascia prendere, quasi salta sulla mia mano, bilanciandosi con le ali che hanno una sgradevole consistenza carnosa.
Ha persino una medaglietta con nome al collo: Frottolo.
Questa cosa ha un nome e si chiama Frottolo. Chiunque lo abbia preso e addestrato doveva dargli un nome e lo ha chiamato Frottolo.
Non riesco a pensare, in quei pochi secondi, come lo avrei chiamato io. Frottolo mi sembra di colpo l’unico nome possibile per un uccello preistorico maculato di bianco.
Si muove e artiglia, graffiandomi la pelle, mentre con la mano libera slaccio il sacchettino; poi Frottolo balza via dal mio braccio con un’ultima serie di unghiate che gli costano un insulto e torna ad appollaiarsi sul gradino tra le colonne.
“Cosa contiene?” Lucilla, in fermento, occhieggia.
“Se mi dai il tempo…” Strofino il braccio pieno di segni rossi, poi apro l’involucro.
Sul mio palmo c’è un minuscolo dispositivo con presa.
Ovvio.
Avrei dovuto pensarci.
Stupida.
È il fottuto spinotto da mettere nel telefono. Guardo Frottolo con un misto di stupore e incredulità; mi hanno mandato questo dannato gingillo dal QG usando uno pterodattilo addestrato. Non una cassetta paracadutata, no, uno pterodattilo addestrato.
Cose da pazzi.
Come se si potessero addestrare le bestie estinte. O che credevamo estinte.
Mordo la lingua in una smorfia divertita: ci stavo cascando di nuovo.
Di nuovo!
È la prova che sono dei robot, dei fottuti robot.
“Cos’è?”
Scuoto la testa. “So io.”
“No, dai, cos’è?”
Torno eretta davanti agli occhi carichi delle due imbecilli che il destino mi ha messo a fianco in questa storia folle. Sigrid ha la stessa espressione truce di Frottolo. Ho idea che non riuscirò a far passare la cosa in sordina.
“Ha chiamato uno del QG, ieri sera, prima che ci ritirassimo, d’accordo? Sanno che abbiamo trovato un telefono nell’albero cavo e vogliono verificarne il contenuto. Perciò hanno mandato quest’affare,” mostro lo spinotto tra due dita, “Tutto qui. Nessun mistero.”
Artemis osserva dubbiosa. Deve vedere insidie ovunque. “Che telefono?”
“Ce l’ho sotto, nel rifugio; l’ho trovato nell’albero, è lunga da spiegare.”
“Era di una concorrente?”
“Penso di sì. Contiene un sacco di video, dev’essere una che ha documentato la sua permanenza sull’isola.”
Lei annuisce. “Fammene vedere uno.”
Ecco.
Alzo di spalle. “Okay.”
Uno sbattere d’ali annuncia la partenza di Frottolo; il piccolo pterosauro si lancia giù dalla parete di roccia, planando nell’azzurro del mattino. Radiosa si affretta vicino alle colonne per seguirlo con lo sguardo finché riesce, prima che si confonda con altri come lui che svolazzano sul mare e scompaia alla vista.
“Vorrei visionarlo ora il video,” insiste lei. Detesto quando la gente non ti crede, senza ragione. Quando ostenta il fatto che non si fida di te. Per quale fottuto motivo dovrei mentirle?
“Ma certo. E comunque hai visto?” Faccio strada verso il rifugio. “È un robot.”
Lei occhieggia stranita. “Perché?”
“Passi addestrare un coso volante che avrà un cervello grosso così.”
“Addestrano i piccioni per salvare la gente in mare aperto.”
“Sì, vabbé.”
“Guarda che è vero.”
“Comunque sia: passi addestrare un coso volante, ma puoi addestrarlo a consegnare qualcosa solo a una persona ben precisa? Via, neanche un cane ci riuscirebbe. Non senza avermi vista in precedenza, capisci?”
“Magari sono più intelligenti dei cani.”
“O sono dei pupazzi, no? Così difficile da accettare?”
“Senti,” aggiusta il fucile a tracolla, “Magari hai ragione tu, okay? Ma io ragiono sui fatti, sulle prove concrete, non sulle supposizioni.”
Mi fermo di colpo e lei sussulta lieve; la guardo beffarda dai pochi centimetri in più d’altezza che stanno a mio vantaggio. “Facciamo una cosa: adesso prendi il tuo bel fucile e ne abbatti uno. Spari a uno di quei cosi volanti, lo apriamo e vediamo se dentro è fatto di metallo o di carne e ossa. Che ne dici?”
Sigrid esita. Ci pensa un attimo, vaga lo sguardo, ritorna da me. “Non sprecherò un proiettile per così poco.”
“Ne ero sicura, pensa un po’.”
Cenno d’assenso. “Questo video?”
La precedo di nuovo, stavolta giù dai gradini nell’interrato. Il telefono è lì dove l’ho lasciato, accanto al mio giaciglio. “Divertiti,” dico gettandoglielo in mano, “Basta che mi porti a quel posto che hai detto.”
“Ti ci porto.”
“Adesso.”
“Adesso?”
“Adesso.”
Sospiro. “Va bene, anche se perdiamo tempo.”
“Perché, quali impegni hai per i prossimi giorni?”
Un’occhiata algida, evita di rispondere; la guardo armeggiare col telefono, increspare le sopracciglia. “Mi chiede una password.”
Silenzio.
Questa cosa della password, giuro, mi fa uscire di testa. Le strappo l’apparecchio di mano, scandaglio le cartelle, ne prendo una a caso, apro, richiesta password. Ne apro un’altra, richiesta password.
Voglia di spaccare tutto.
“A volte la chiede a volte no, quando capirò come funziona ti farò sapere.”
Intasco il telefono sotto il suo sguardo cupo.
“Se tu scoprissi qualcosa di importante ce lo diresti, sì?” Il suo tono è sempre parecchio irritante.
“Ovvio, siamo una squadra. Ora possiamo andare per favore?”
Annuisce ma nei suoi occhi chiari c’è tutta la diffidenza del mondo.
Raccolgo il mio equipaggiamento, attendo che lei mi preceda fuori dal rifugio, poi chiudo la porta e la serratura. Quando sono certa che non guardano, nessuna delle due, riprendo il telefono: qualunque cartella io apra richiede sempre una password.
La tentazione di gettare via lo spinotto è forte, ma l’idea d’un paio di stivali di più.
Lo inserisco nella presa di carica e guardo in alto, al cielo, confidando che qualcuno di quegli stronzi del QG veda nel mio grugno una silente richiesta di lealtà.
 
***
 
“Allora?”
Max Tambori non faceva altro che aprire le mani nel riquadro della porta, un modo di ringraziare per gli applausi immaginari che la platea andava tributandogli.
Gioele lo degnò a malapena d’un’occhiata, concentrato sul flusso di dati e immagini che scorreva sul proprio terminale.
“Neanche un grazie? Volevi quel telefono, io ti ho dato quel telefono.”
Lui annuì rialzando di nuovo gli occhi. “Ogni tanto riesci ancora a stupirmi. Come ci sei riuscito?”
Max si batté un indice sulla tempia. “Psicologia, Giò. Con le donne è l’unica vera arma che funziona.”
“Ero serio.”
Ridacchiò. “Suggestione. Come prendi i dati da un telefono? Con una micro-scheda di memoria. Dai alla ragazza una micro-scheda di memoria e cosa ottieni? I dati del telefono.” Pausa. “Allora? Visto qualcosa d’interessante?”
Il creatore di Superpredatori lisciò la barbetta nel consueto gesto stemperante. “Non molto. I dati sono corrotti, la maggior parte dei video non si vedono.”
“Non c’è piena compatibilità tra il sistema operativo e il telefono, non essendo dei nostri.”
“Sì, ma non è questo a preoccuparmi. Dennis sta decodificando pian piano il flusso dei dati e qualcosa ho già visionato; il punto è: perché portarsi dietro un telefonino in un luogo che non ha copertura internet né rete? Lo diciamo, sì, al corso d’addestramento, che sulle isole non c’è rete, campo, internet, non c’è nulla?”
“Lo diciamo, lo diciamo.”
“Quindi perché portarsi un telefono?”
Max si strinse nelle spalle. “Ma perché avrà voluto avere dietro dei ricordi. Magari ci sono i video della sorella piccola, la madre, la nonna, il cane. Lo sai come sono le donne, no? Sono attaccate a queste cose, le foto, i ricordi, gli album fotografici; conosci un uomo sotto i quarant’anni che gliene frega qualcosa degli album fotografici? Io no.”
“C’era il video di una festa. L’audio non funziona, o non ancora. Ha fatto sparire il sorriso a tutti.”
“Un’altra cosa che le donne sanno fare bene. Insomma, ti stai preoccupando?”
“No.” Tamburellò le dita sulla scrivania. “Ma prima sarò sicuro che non è niente d’importante, prima starò tranquillo.”
Continuò a osservare il flusso di dati in scaricamento sul suo terminale.
 
***
 
Camminiamo ormai da parecchio, il sole è alto.
Sigrid apre la strada, senza difficoltà, anche perché non puoi sbagliare a seguire sempre il profilo della costa. Niente foresta, niente macchia, nulla: camminiamo sulla spiaggia e risaliamo Galena dal lato est; non entrerei tra gli alberi neanche armata, figuriamoci così.
Le spiagge sono tranquille. Il mare fa su e giù sul bagnasciuga, con un’enfasi tutta particolare, portando alghe e detriti qua e là, a macchia, in ogni caso tutta roba genuina, roba vera, non un singolo pezzo di plastica, una sigaretta, non una traccia d’umanità.
Dicono che stiamo avvelenando il pianeta, ma non è così: stiamo avvelenando noi stessi. Quando leggo di un’isola di plastica che è grande come la Francia mi viene in mente che ci manderei a vivere un sacco di gente che conosco e che non conosco, per far loro fondare una repubblica di plastica e affogarci dentro. Siamo talmente tanti a questo mondo che un po’ di gente in meno sarebbe un toccasana. Prendi tutti questi africani senza una lira che arrivano da noi e non sai dove metterli e cosa far loro fare. Ma a che servono? A chi servono?
Mia sorella allora fa la sua espressione scandalizzata da buonista del cazzo e dice Perché non cominci tu a dare il buon esempio e a toglierti di torno?
Ma cretina: dovrei suicidarmi perché voi merde comuniste possiate continuare a rovinare questo mondo? Ma io vi stermino tutti, fino all’ultimo.
Siamo troppi e troppo schifosi, ma qui, qui in Illumina, tutto questo non vale più. Qui c’è il mondo, intendo quello vero, qui c’è la natura. Le bestie assurde. Non ci sono persone, o comunque così poche che, anche se vogliono ammazzarti, puoi persino illuderti che non ce la faranno mai.
Non c’è un mozzicone per terra, un fazzoletto usato in mare. Un pezzo di plastica.
Nulla.
Non ci sono impronte sulla spiaggia. Dio, credo di non aver mai visto una spiaggia modulata solo dal vento, senza un’impronta che non sia nostra. Camminiamo e lasciamo le orme delle scarpe nel nulla, perché sono le uniche scarpe che da qui siano passate. E se ce ne sono state altre, nessuno se lo ricorda più. L’isola non se lo ricorda più.
È una sensazione pazzesca.
Ci sono delle conchiglie, di tanto in tanto. Piccole, non così diverse da quelle che trovi in Sardegna: turritelle, chiocciole, bivalvi. Alcune sono piene, altre vuote.
Alcune contengono un paguro o un qualcosa che ci somiglia: colorati di un rosso e blu vivace, queste cose dai lunghi baffi si ritraggono e poi escono, artigliando a caso con un numero di zampe spropositato. Non sembrano robot.
Niente altro: non si sono visti animali di nessun tipo e nessuna taglia. Anche gli insetti sembrano quasi inesistenti. Ho visto delle farfalle e poco altro.
Sembra che i sauri non si avvicinino al mare, e questo è un bene. Continuo a chiedermi cosa faremmo se ne arrivasse uno, un Panzer-2 qualsiasi. Basterà sparargli? Ne avremo il tempo?
Se ci buttiamo in acqua saprà nuotare?
Panzer-2 sì, dice Artemis che si è documentata, conosce i dinosauri. Se sono davvero dinosauri.
Panzer-2 è un Baryonyx. Già che si scrive con due Y mi irrita.
“Ci siamo,” Sigrid si ferma, mette il fucile a tracolla, consulta la mappa sul telefonino; espira con sguardo denso. “Da qui dobbiamo per forza entrare nel bosco.”
Basterebbe sapere che c’è una singola tigre, o un singolo lupo, in una foresta intera perché una persona sana di mente eviti d’entrarci; saranno i film, la tendenza a pensare negativo, però sai che se entri in centomila metri quadri di alberi, tu la cosa brutta la incontri per forza.
Sarà il karma.
Saranno i film.
“Va bene,” sopprimo l’istinto di dire Ce ne torniamo alla torre, “Andiamo.”
Ci abbiamo camminato per mezza giornata, nel bosco, in due, nude, e non ci è successo niente. Se trovo il coraggio di dire Andiamo è solo perché spero, confido, supplico che sia tutto in qualche modo pilotato. Che ci evitino il peggio.
Ho l’esempio delle Erinni in testa, mentre ci trascinano in cordata e niente ci salta addosso.
Ha un senso. Una logica.
“Se arriva qualcosa di grosso,” le guardo e nessuna delle due brilla d’entusiasmo, “Correte. Andiamo indietro, verso il mare. In qualche modo ci si ritrova ma, per favore, non fatevi prendere.”
Lucilla annuisce, Sigrid mormora un Grazie al cazzo che nel contesto è poesia pura. Col suo berretto portato all’incontrario e l’espressione algida deve essere il ritratto della superbia, laggiù, a casa, dove la sua famiglia e i suoi soldi valgono tutto. Qui è l’unica con un fucile, e se vale qualcosa è solo per questo.
“È tanto lontano?”
“No. Ma andiamo lì per nulla: sempre sicura di volerlo fare?”
“Ovvio.”
Annuisce.
La sento prendere un respiro lunghissimo prima di fare strada, avviandosi verso la linea degli alberi, il telefono rimesso in tasca e il fucile tra le mani.
“Magari ha un senso,” lo dico più a me stessa che a Lucilla, “Una logica.”
Penso ai sauri e sento un brivido.
 
***
 
La cosa s’era già sentita da una mezzora, trapelata dal corridoio dell’Ufficio 1, quello di Gioele Palazzese in persona, carpita da una mezza frase al telefono, riportata nell’openspace del reparto Gestione, ripetuta, presa per buona anche se non aveva senso.
C’era un errore da qualche parte nel processo d’acquisizione.
Mezzora di occhiate interrogative, di avrai sentito male, di scorse ai dossier delle Ondate passate per un controllo sommario, un rinfrescare di memoria.
Mezzora, prima che i passi spediti nel corridoio avvisassero che lui stava arrivando e che avrebbe fatto una domanda, una impellente, perché solo le domande impellenti lo portavano a quel passo nel reparto Gestione.
Gioele Palazzese varcò la soglia dell’ufficio con una stampa A4 in mano e lo sguardo denso, vibrante, dietro le lenti degli occhiali.
Non ebbe bisogno di chiedere l’attenzione di tutti perché già l’aveva, e il gesto di sollevare quel foglio di carta catalizzò ogni residuo sguardo nell’intero openspace.
Sembrò cercare le parole migliori per alcuni secondi, e se Gioele Palazzese non trovava le parole per dirlo doveva essere qualcosa di davvero fuori dal comune, qualcosa che avevano già sentito e pensato fosse un’incomprensione, un errore, una frase captata male.
“Io vorrei che mi diceste,” scandì mostrando la carta, un foglio A4 appena preso dalla sua stampante, sul quale era stato impresso un fermo immagine: lo scorcio, in colori sgranati per la pessima qualità del video, di due indici incrociati a formare una X sul sole nascente. “Vorrei che mi diceste una cosa.”
Il silenzio attonito della sala.
Sguardi rapiti da quella visione.
Nessun errore.
“Chi diavolo è Exilles?”
***
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Messaggio Da Petunia Gio Ago 26, 2021 6:36 am

Artemis dorme già a giudicare dal respiro; Lucilla non ne sono sicura. (se usi il nome di gioco per Artemis, dovresti usarlo anche per Radiosa)


che non c’è nessuna password (che non c’è alcuna password)



 va incontro alla bestiola col mezzo culo che le esce dagli shorts di jeans e una camminata lenta involontariamente erotica. (Pensiero moolto mascolino)


QG (intendi Quartier Generale? perchè non Produzione? Non lo hai mai chiamato QG)



Prendi tutti questi africani senza una lira che arrivano da noi e non sai dove metterli e cosa far loro fare. Ma a che servono? A chi servono? 
 (Incursione un po’ troppo spinta, a mio parere. Not polirically correct.)



Già che si scrive con due Y mi irrita. (Già che si scriva)



Mezzora, prima che i passi spediti nel corridoio avvisassero che lui stava arrivando e che avrebbe fatto una domanda, una impellente, perché solo le domande impellenti lo portavano a quel passo nel reparto Gestione.

(Questa frase è un po’ contorta)


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Messaggio Da Fante Scelto Gio Ago 26, 2021 9:16 am

Stai andando fortissimo.  Smile
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