Nota: il racconto era stato ispirato dal l’excipit di Paolo Dal Capa in un vecchio concorso su SPS. Ho rimosso l’excipit e rielaborato il racconto. Qualcuno forse lo ricorderà.
Eccoci qua, siamo arrivati. Sei stata proprio una brava bambina, siediti qui. Ancora un attimo e sarai perfetta.
La pioggia ha inzuppato l’abito che ora aderisce in modo innaturale al corpo e ne mostra tutta la magrezza. Le gambe aperte la fanno assomigliare a una bambola seduta su un tappeto di foglie umide e maleodoranti. Le braccia distese lungo il grembo non rivelano ancora la verità. Solo la testa reclinata sulla spalla conferma quello che da lontano poteva essere solo un sospetto: la ragazzina è morta. La ricerca è finita.
«L’abbiamo trovata. Avvisa il medico legale e la scientifica. Nessuno si avvicini.»
Non ci si abitua mai alla morte, non ci si abitua mai al dolore. Lo strazio dei genitori, l’insaziabile sete dei giornalisti, la morbosa curiosità della gente comune che, credendosi immune da simili tragedie, si permette di commentare e colpevolizzare i comportamenti delle famiglie, della scuola, della società. Che lavoro del cazzo mi sono scelto.
«Maledetta pioggia, si è portata via tutto.»
Questi casi mi stanno facendo impazzire. Nessun sospetto, nessun indizio, nessun appiglio. Le vittime, tutte bambine della stessa età, fisicamente non si assomigliano affatto né per il colore dei capelli o il taglio, né per la corporatura.
Gli psicologi criminali ci sono andati a nozze con questo caso e io ormai sono stanco e mi sento impotente e frustrato. "Potrebbe trattarsi di un uomo che ha forti pulsioni femminili, magari con un insano desiderio di maternità." "Potrebbe aver subito un grave perdita, magari la morte di una figlia." Tutte cazzate.
Sono in un vicolo cieco e non mi resta che attendere i referti dell’autopsia anche se ogni volta si sono rivelati inutili.
“Alberto, insegnami a baciare. Non lo dirò a nessuno.”
“Ma cosa dici? Non posso farlo Alice, sei mia sorella.”
“Allora lo dico alla mamma che baci le mie bambole. Ti ho visto sai?”
«Pronto, commissario Ripesi?»
È quasi l’alba quando ricevo la telefonata del medico legale: ha qualcosa di importante da mostrarmi. Forse questa volta l’assassino ha commesso un errore.
L’obitorio è illuminato da una fioca luce e riesco a intravedere la forma del corpicino sotto il lenzuolo bianco. Sento freddo.
L’anatomopatologo mi invita a entrare.
«Commissario, la bambina ha lottato. Ha cercato di difendersi.»
«Ha trovato della pelle sotto le unghie? Sarebbe un bel colpo di fortuna.»
«No. Niente di tutto ciò. Osservi con attenzione.»
Non ho mai visto il dottore in questo stato. Le spalle curve, gli occhi infossati, una ruga persistente sulla fronte. Ha un leggero tremolio alle mani quando alza il lembo bianco, scopre il viso della bambina e solleva con delicatezza il labbro superiore.
Prendo un lungo respiro e mi avvicino.
«Lo vede?»
«Un dente spezzato...»
«Sì. E sa come ha fatto a romperlo?»
«L’ha picchiata?» dico mentre sento pulsare il sangue con violenza nelle tempie.
«No», risponde laconico.
Mi sto innervosendo. Non sono qui per risolvere un indovinello.
Il medico prende le pinzette e preleva qualcosa da un recipiente.
«Vede questo frammento? È un pezzetto di un ciondolo. Una mezza luna d’oro. L’ho trovato nello stomaco della ragazzina insieme alla scheggia del dente.»
«Ma che significa?»
«Penso che la piccola abbia tentato di mordere il suo aggressore. Probabilmente indossava una catenina e quando si è avvicinato per strangolarla, il pendente le sarà finito in bocca.»
La ricostruzione appare convincente. Forse è davvero il passo falso che aspettavamo.
«Commissario, trovi il resto del ciondolo e avrà il suo assassino.»
Tengo tra le mani quel minuscolo frantume. È la prima volta che abbiamo qualcosa di concreto su cui lavorare: un pezzetto d’oro di bassa caratura, della consistenza di una carta stagnola. Di certo un gioiello di scarso valore.
“Dai, vieni a giocare alle bambole con me, lo so che ti piace!”
Nell’ufficio regna il caos. Decine di fascicoli sparsi in ogni dove, l’aria impregnata dall’odore di caffè scadente, il brulichio di agenti che sembrano girare a vuoto tra le scartoffie e il suono incessante dei telefoni sottolineano il senso di urgenza. Nella testa il ronzio intermittente di un moscone. Devo riuscire a fermare quest’uomo a costo di riesaminare ogni caso di omicidio di bambini degli ultimi cinquanta anni.
Le bambine mi prendono in giro e anche lei ride sempre di me. State zitte! Smettetela ho detto! Basta! Bastaaaaa...»
Da una cartella fuoriesce una foto. Un’immagine straziante.
«Fu trovata con la testa fracassata e lividi sul collo. Uno dei tanti delitti irrisolti» anticipa la risposta senza aspettare la domanda. L’agente Ferrandi è sempre solerte.
“Non spingermi così forte, mi fai cadere!”
Cos’è l’istinto? È una sensazione, un’illuminazione che emerge dal profondo, una voce interiore che ti guida... ho sempre dato retta al mio istinto e ora sento che quella foto non è saltata fuori per caso. Apro l’inserto e sfoglio le poche informazioni contenute: un verbale di un paio di pagine e il sintetico referto dell’autopsia: la bambina era deceduta per strangolamento dopo aver sbattuto violentemente la testa.
Il fatto era successo non molto lontano dall’abitazione dei miei genitori. Io all’epoca ero troppo piccolo, ma forse mia madre potrebbe ricordarsi di qualcosa. Ammesso che lei si ricordi di avere un figlio. Quando morì mia sorella mi affidò agli zii. Doveva essere per poco tempo, ma non sono più tornato a casa.
“Mamma, Alice è caduta dall’altalena. Non l’ho fatto apposta, non è colpa mia, non sono stato io!”
Ricordo il suo viso contorto in una smorfia, il petto scosso dal tremito e il suo abbraccio tanto forte da togliermi il respiro.
“Vieni qui Alberto, non ti preoccupare. È stato solo un incidente, sistemeremo ogni cosa, vedrai.”
Bugiarda.
“Il dottore dice che non ti fa bene restare qui. Ti porterò per qualche giorno a casa degli zii.”
“Tu verrai con me, mamma?”
“Sì, certo. Ma adesso devo restare qui ancora un po’.”
Falsa.
Suono il campanello. Mentre la porta si sta per aprire, mi viene l’istinto di tornare indietro; mia madre appare sulla soglia e mi guarda stupita. Probabilmente sono l’ultima persona che si aspettava di vedere.
Sono il primo a rompere il silenzio.
«Sì, mamma, sono proprio io.»
È invecchiata tanto, ma ha ancora uno sguardo penetrante che riesce a mettermi a disagio. Indossa dei guanti da giardino. Le è sempre piaciuto prendersi cura delle piante. Nell’aria c’è un intenso profumo di fiori.
Appena varcata la soglia di casa mi rendo conto che il tempo, lì dentro, pare essersi fermato.
Il ticchettio dell’orologio a cucù nella parete di cucina, l’odore del ragù, le sedie impagliate. Le foto di mio padre e di mia sorella sul tavolino accanto a un vaso con i fiori freschi.
Mia madre mi segue come un’ombra.
«Guarda come sei accaldato. Hai sete?»
È il massimo che riesce a dire. Anch’io sono in difficoltà.
«No. Ma mi andrebbe un caffè.»
Mentre la vedo armeggiare tra i fornelli, approfitto per andare nella mia vecchia cameretta.
Lo specchio sopra il cassettone riflette l’immagine di un uomo attempato e segnato dalla vita. Tutto è in ordine. C’ė odore di cera per i mobili. Sono lucidi, senza un velo di polvere.
Sento caldo e questa maledetta cravatta mi soffoca.
Un sapore amaro in bocca mi dà la nausea. Mi sdraio sopra il letto. Solo un po’ e poi mi passerà...
La vecchia bambola dal viso dolcissimo e i lunghi capelli biondi siede di fianco a me con le gambe rigide e aperte sotto una gonna di un azzurro ormai sbiadito. I suoi grandi occhi mi fissano impudenti.
L’altalena dondola e io la spingo sempre più in alto.
“Non così, ho paura! Voglio scendere!”
Quando cade a terra è come una bambola rotta. Mi avvicino a lei. Respira così piano che quasi non riesco a sentirla. Ha lo sguardo fisso su di me mentre premo con le mani sulla gola. Forte, sempre più forte.
“Ora vai pure a dire alla mamma quanto mi piacciono le tue bambole.”
Non mi volevi più vedere. Hai sempre finto con me.
Gli zii mi hanno adottato, mi hanno fatto studiare. Alberto Leoni è diventato Alberto Ripesi. Ti ho vista ben poco da allora. Quasi non ti riconoscevo quando mi hai aperto la porta, mamma.
“Tieni Alberto, mettila tu questa.”
Dal colletto aperto della mia camicia fuoriesce una sottile catenina d’oro da cui pende una piccola mezza luna rotta. Era al collo di mia sorella il giorno che è morta.
La luna sembra un’altalena appesa al cielo e Alice dondola, leggera, spinta dal vento.
“Vieni a giocare con me?”
Sono esausto e vorrei andare via, ma non riesco ad alzarmi. Mia madre entra in camera con un vassoio in mano. Dalla tazzina fumante esala un buon odore di caffè.
Siede accanto a me e mi accarezza la testa.
«Perché sei tornato qui, Alberto?»
«Perché era il momento, mamma.»
«Ho sempre saputo che eri un bravo bambino. Gliel’ho detto anche ai dottori: Alberto è tanto bravo e un giorno diventerà una persona importante, deve solo dimenticare.»
«Sì, mamma.»
Esco che è già buio. La strada è illuminata da una splendida luna piena.
«Ciao! Sei Emy?»
La bambina alza lo sguardo, tira su col naso e si asciuga le lacrime col dorso della piccola mano. Un paio di pantaloncini a fiori su due gambe esili. Sandali colorati ai piedi e una T-shirt rosa pallido sulla quale scintilla una scritta glitterata: Emy.
Annuisce e la piccola coda di capelli biondi ondeggia come un mare di spighe dorate.
«Ciao, mi chiamo Alberto. Ti sei persa?»
«Dov’è la mia mamma?»
«Non piangere. Vieni con me, andiamo a cercarla insieme.»
Ultima modifica di Petunia il Ven Giu 25, 2021 7:59 am - modificato 2 volte.