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SUPERPREDATORI - parte 11

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Messaggio Da Fante Scelto Gio Giu 03, 2021 12:24 pm

***

Mi avvento sulla cassa con la fame della leonessa e la smania della iena. È caduta lì, nella sabbia, col piccolo paracadute che si gonfia e si sgonfia seguendo il flusso irregolare dell’aria. Sbatto le mani sulla superficie di plastica rinforzata come potesse volarsene via: voglio sentirla, tastarla, essere certa che è lì e non è un miraggio, un’illusione.
“Ci ho quasi creduto,” sibilo voltandomi verso Radiosa che si avvicina con molta più calma, “Stronzetta. Altro che preghiere, tu l’avevi visto arrivare.”
“Pensa come ti pare.”
“Sei un’attrice, io ci stavo credendo.”
Il cielo volge al buio. Il mare va e viene sul bagnasciuga; la spiaggia appare deserta ma una certa vena di irrequietezza sembra percorrerla, come il mio umore.
“Vestiti, scarpe,” rido come fosse il giorno dello shopping dopo l’accredito del mensile, “Armi.”
“Guarda,” Radiosa si china, raccoglie una busta di carta che è stata assicurata accanto al sigillo di chiusura, la contempla per un attimo: gliela strappo di mano. Ci sono i nostri nomi di battaglia stampati sopra.
La apro con la foga di chi ha fretta di passare alle cose serie e per un attimo mi rivedo in pigiama, a cinque anni, a scartare i regali sotto l’albero aprendo i biglietti solo perché obbligata.
La lettera che dispiego è stampata coi caratteri sfumati, rovinati, che ho visto molte volte sui manifesti del reality.
“Care e bellissime superstiti dell’Ondata 9,” mi sale già il nervoso, “Il network è orgoglioso dei risultati che avete ottenuto in questi primi due giorni su Illumina. La vostra fuga inaspettata dal team rivale e da due superpredatori vi è valso il kit di rifornimenti e vestiario che troverete nella cassa, assieme ai Vostri obiettivi addizionali, le armi e uno smartphone abilitato alla sola ricezione. Vogliamo ricordarvi l’importanza assoluta di restare in vita e di non sottovalutare le insidie che vi attendono, grazie al cazzo, nonché di offrire sempre il miglior spettacolo possibile al nostro esigente pubblico. Il network ritiene possa farvi altresì piacere sapere che il vostro indice di gradimento è alle stelle, la vostra salvezza è stata presa a cuore da innumerevoli sostenitori e godete dell’affetto incondizionato del 65% degli iscritti al Blog. Un saluto sincero, lo staff di Superpredatori.” Getto la lettera nella sabbia con un sorriso diabolico. “Meno chiacchiere e più fatti, cazzoni.”
Faccio saltare i ganci della chiusura con mani che tremano, levo il coperchio: dentro la cassa ci sono due casse più piccole, una con Radiosa e una con Mercury artisticamente stampigliato sopra. Caccio fuori la mia con la stessa euforia dei regali di Natale, la poggio nella sabbia.
“Voglio una tuta tattica integrale, Dio fa che ci sia una tuta tattica integrale,” giungo le mani e lei mi guarda di sbieco, “E un M16. Con una Desert Eagle. E dei fottuti stivali alti con calze al ginocchio anti-tutto. Quando schiaccerò la testa di Atreja sotto il tacco vorrei non sporcarmi troppo: prendi nota, Dio, grazie!”
Concludo la pagliacciata fregandomene altamente di qualsiasi occhiata cupa Radiosa mi stia affibbiando e assalto la cassetta: i ganci scattano, apro il coperchio, affamata, vibrante.
In un paio di secondi, anche nella poca luce del crepuscolo, tutta la baldanza evapora.
Il freddo mi salta addosso come un cane arrabbiato.
“Dove,” mormoro incredula, ferita, “Dove cazzo è la mia tuta tattica?”
Smanaccio nello spazio contenuto della cassa, tirando fuori la scatola che contiene le calzature, la custodia del telefonino, “Dove cazzo sono le mie armi?”
Mi trema la mano quando raccolgo, da sotto, una seconda scatola quadrata, nera, così sottile da essere inquietante. Il simbolino d’una t-shirt che vi è stampato sopra, in bianco, non lascia dubbi sul contenuto. La apro con di nuovo un certo tremolio alle mani.
Sbatto più volte le palpebre per essere sicura che non sia un errore, una percezione sbagliata.
Sollevo quella che prego essere almeno una maglietta e che, srotolandosi, diventa nulla più d’un top con le maniche corte, verde oliva. Ciò che casca nella sabbia e che neanche m’ero accorta d’avere in mano è il sotto: un paio di calzoncini tattici dello stesso colore che, a occhio, non basteranno a coprirmi neppure tutto il culo. Sul fondo della scatola rimane un bikini alquanto esile di un verdone camouflage misto al beige e un cinturone con fibbia color bronzo.
“Ma questi sono cretini,” mormoro a mezza voce, con il braccio che mi ricade inerte sulla coscia mentre me ne sto inginocchiata nella sabbia, affranta come quando mi regalarono la prima scatola di assorbenti: pensavo fosse l’Iphone, la confezione aveva la stessa forma. Piansi tutta la notte.
“Questi sono cretini proprio, cretini oltre ogni misura. Anzi ci prendono per il culo, ma proprio per il culo!”
“Eh, mi sa,” Radiosa distende una maglietta scollata, slargata e sbrindellata di sotto, nera, sulla quale campeggia il disegno d’una croce rossa tracciata come a pennello.
“In quale cazzo di fottuto film porno pensano di essere? Nella loro testa malata io dovrei indossare questa roba?! Ma vaffanculo proprio!”
Getto tutto con rabbia nella scatola. Agguanto la confezione delle scarpe con un certo, giustificato timore. Non è grande, non quanto dovrebbe la scatola d’un paio di stivali tattici ben fatti. Anche lo spessore è preoccupante.
“Saranno stivali corti, devono essere degli stivali corti, per forza.”
Intorno è quasi buio, la temperatura è scesa. Il mare fa avanti e indietro con la consueta flemma.
Respiro a fondo.
Tolgo il coperchio.
Silenzio.
 “No.” Mi alzo da terra con sguardo allucinato e tutto il freddo del mondo. “No, no, proprio no.” Cammino in una specie di cerchio che mi riporta accanto alla cassa; Radiosa osserva preoccupata. “No, io… io…”
Vorrei esternare quello che provo nel modo in cui sono abituata, ma non ne ho le forze. Non più, non dopo quello che abbiamo passato e l’ennesima doccia fredda.
Radiosa mi guarda. Ha la sua scatola delle scarpe in mano.
“Tu… Io…” balbetto con l’attacco isterico che sale e ridiscende a ritmo folle, gesticolo, respiro forte, alla fine mi avvento sulla scatola rimasta nella sabbia e le tiro fuori tremando d’ira e sconforto.
Le esibisco con una mano sola.
Anche nel buio incipiente il colore dorato quasi rifulge e s’impone sulle tinte oscure della notte.
“Ci credi?” recito guardando la mia unica compagna con occhi sgranati, “Ci puoi credere?”
Nella mano ho un paio di Nike Silver Gold di quelle che si usavano quindici anni fa. Questi idioti coglioni hanno avuto il coraggio di mandarmi un paio di scarpe da ginnastica da duecento euro al posto degli stivali che avevo espressamente richiesto.
Radiosa scuote la testa e ne solleva un paio identico, solo di colore argentato. C’è dietro un preciso disegno, è tutto studiato.
“Ci prendono per il culo,” mormoro incredula, “Questi sono totalmente pazzi e bastardi. Che cazzo ci devo fare con queste?”
“E non hai ancora visto le calze,” fa lei con una leggerezza che mi irrita e spaventa assieme, ma non posso esimermi. Controllo il fondo della scatola. Mi trema la mano: sollevo quelle che sono il paio di calzettine elasticizzate nere più corte e insignificanti che abbia mai visto.
“Questi sono pazzi, bastardi, infami e carogne.”
“Meglio questa roba che niente,” taglia corto lei e vorrei avere il suo stoicismo. Mi viene da piangere. Mi ero illusa, ci avevo creduto. Come con alcuni uomini: ci credi che possa funzionare, che sia la svolta, che abbia un senso tutto quello che hai fatto per arrivare a quell’incontro, quella vita, quelle scelte.
Niente.
Non cambia mai nulla.
Ci credi, t’illudi, poi tutto si rivela diverso da quel che avevi sperato fosse. Diventa un incubo.
Pensavo di conoscerli, gli incubi, poi sono capitata qui.
L’ultima goccia della mia attenzione viene rapita dalla scatola di fondo, larga e sottile, sulla quale campeggia il disegnino d’una pistola. A questo punto mi va bene qualsiasi modello, qualsiasi calibro, qualsiasi cosa, sperando che il conforto d’un’arma da fuoco spazzi via la delusione cocente.
Io li odio. Odio questa gente che pensa di poterci usare come giocattoli, di poterci umiliare a loro piacimento.
Dalle dimensioni potrebbe essere una Glock. O una Smith & Wesson piccolo calibro.
Appoggio la confezione nella sabbia e levo il coperchio.
Sento freddo.
Freddo dappertutto. Per un attimo mi sembra d’essere diventata una statua di marmo, una cariatide seduta sulla spiaggia.
A dispetto del volume, nella scatola c’è solo e soltanto un coltello da caccia militare, seghettato da un lato e liscio dall’altro, col fodero. Fisso allucinata, cerco a tastoni pregando ci sia un doppio fondo, un’altra scatola, ma non c’è nulla. Le armi promesse sono un coltello da caccia e basta.
Nella mente malata di questa gente io dovrei sconfiggere le Erinni e sopravvivere ai carnosauri con un dannato coltello.
È un incubo.
Ci vogliono morte, e senza onore, è l’unica spiegazione possibile. Ci vogliono umiliare e guardare morire in qualche modo atroce. Vogliono che le Erinni ci riprendano, ci denudino di nuovo e ci ributtino alla bestia, magari stavolta dopo un calvario più intenso che qualche orpello martellato nella carne.
“Non mi è andata molto meglio,” Radiosa si accosta rigirandosi nelle mani una spada, corta e leggera; la esibisce con grazia, come un curioso giocattolo, un fottuto attrezzo che sarebbe andato bene nel medioevo o appeso come ornamento a una parete del salotto di mio nonno.
“Siamo fottute,” mormoro con la voce rotta.
“Lo siamo o non lo siamo a prescindere dal contenuto di queste casse.”
Vorrei romperle la spada sulla testa. Scuoto il capo e lascio cadere il coltello nella scatola, avvilita.
Il resto del kit è composto da uno zainetto minimale vuoto, un asciugamano col logo del network, lo smartphone da sola ricezione, qualche barretta energetica e una bottiglietta d’acqua.
“Non hai visto questa?” fa lei rovistando nella mia cassa e tirandone fuori una scatoletta minuscola, sempre nera; un biglietto attaccato recita Bonus pugno alla Masca. Non so cosa sia una Masca, ma se le ho dato un pugno può essere solo la vecchia dannata: vorrei ridere, non ne ho voglia. Le tolgo di mano la piccola confezione e la apro febbrile: da dentro esce una minuscola tronchesi, un flaconcino di disinfettante e l’adesivo d’una faccina sorridente.
Espiro sconfortata. “Che ci dovrei fare?”
Radiosa alza un sopracciglio, poi si china di fronte a me; non sono lucida, anzi sono stanca, stanca da morire, lei sembra di no. “Vuoi che faccia io?” chiede comprensiva. Adesso ho capito.
Annuisco appena, fissando il vuoto.
Mi alza il mento con un gesto delicato, quasi erotico: in qualsiasi altro contesto m’avrebbe causato l’orticaria, ora non riesco a infastidirmi.
La minuscola pinza s’avvicina al mio volto: in qualsiasi altro contesto starei imprecando e minacciando ritorsioni se sentirò dolore, ora non ho la forza di essere me stessa.
Il naso brucia per un attimo, sollecitato, poi un clip. Rigiro l’anello nella ferita e, con un sussulto di dolore, lo tolgo e getto nella sabbia. Qualche goccia di sangue scola ma è niente confronto a quanto ne ho buttato ieri sera. La sensazione di libertà che mi pervade è come un afrodisiaco, un brivido caldo; l’anello, quel dannato anello simbolo di prigionia e umiliazione, l’anello da vacca che mi hanno infitto nel naso, adesso giace reciso nella sabbia ed è come un gesto catartico, libertà allo stato elementare.
“Spero di non farti male…” Radiosa accenna alla mia bocca e le stringhe dorate che pendono come orridi barbigli.
In risposta tendo il labbro con due dita in un gesto di sfida. “Vai, taglia tutto. Non me ne fotte se mi tranci un pezzo, voglio questa merda via dalla mia faccia.”
Lei sorride appena, annuisce soddisfatta.
La pinzetta s’avvicina ma non ho paura.
Solo una voglia matta di tornare a vivere.
Di essere libera.
Di diventare io la cacciatrice, la predatrice.
Vorrei essere questo: un Superpredatore.
 
***
 
Arrampicarsi su una palma è molto più complicato di quello che sembra; ho sempre sognato di arrampicarmi su una palma, ma ovunque io sia andata non ne ho mai avuto occasione. In Iraq sì, una volta, ma avevo appena messo le mani sul tronco che è partita la nenia Ufficiale, ufficiale, ufficiale, e di lì a un attimo è iniziato un briefing.
Altri tempi.
Altre storie.
Ci siamo sciacquate sul bagnasciuga, pulite con l’asciugamano del kit e vestite, come due brave bambine. Al di là della loro connotazione pornografica, la sensazione d’avere di nuovo dei vestiti addosso, dei calzini e delle scarpe, è qualcosa di difficile da descrivere. Non è come al mare, dove ti metti il due pezzi, le infradito e pace, tanto sai che a fine giornata ti fai la doccia e butti addosso qualcosa di più decente: no, questo è diverso; è come non avere più nulla, perdere tutto, anche la dignità, e poi inaspettatamente ritrovare qualcosa. Coprirsi di nuovo parti che mai avresti pensato di mostrare a tutti, non per scelta ma per assenza d’alternative, come in un incubo.
Qualche volta l’ho sognato di restare nuda in pubblico, specie al matrimonio di zia Margaret. Tutti ti guardano, ridono, fanno facce a metà tra scandalo e goduria, qualcuno sembra incazzato, qualcuno, i bambini, ti guarda con quello sguardo rapito, estatico, che da un lato ti fa sentire una fottuta Afrodite e dall’altro ti umilia, perché dietro quegli sguardi ci sono le peggiori e più insensate perversioni.
Fanculo ai bambini, li ho sempre odiati.
Così finisci a barcollare nuda tra i tavoli, a coprirti con le mani e fissare intorno con l’ansia e il batticuore, biascicando scuse che il vestito s’è rotto e non hai il ricambio, e quando poi ti svegli smanacciando le lenzuola ti ritrovi col batticuore sul serio e una vergogna addosso che è tanto calda da sembrare febbre.
Odio i vestiti da matrimonio, e i due pezzi pure. Odio qualunque stramaledetto indumento da donna il cui unico scopo sia far arrapare il maschio generico.
E odio i bambini.
Nella loro innocenza sono perversi, sono mostri inconsapevoli.
Io ero perversa già a cinque anni. Lo sono ancora, ma a cinque anni mi sembrava più normale.
Ci saranno bambini che guardano questo fottuto show?
“Che pensi?” La voce di Radiosa spezza il flusso selvaggio dei pensieri: è quel tono leggero, esile, che tira fuori in assenza di pulsioni particolari, come quando stavamo legate ai pinnacoli, di notte. Il tono più tranquillo che una donna possa avere, persino qui, in Illumina, il cuore del male.
“Cazzi miei.”
Ce ne stiamo sedute sopra un intrico di palme, di fronte, parecchi metri sopra al terreno, tra le pieghe e le curve di queste piante strane, forse di un altro tempo, che a ben vedere potrebbero anche non essere palme; il tronco, scaglioso e bitorzoluto, è largo, contorto e deforme abbastanza da starci sedute sopra e magari pure dormire.
Ho esaudito il mio personale sogno di arrampicarmi su una palma, anche se non fosse una palma.
Ci è voluta Illumina per esaudirlo.
Armeggio vicino all’orecchio per togliere, uno alla volta, i sette orecchini che mi ci hanno conficcato, e disinfettare il tutto. Brucia.
“Scusa,” biascico con la voce impastata, “Non mi sono ancora ripresa.”
“Beh, dai, non sono poi così male questi vestiti.”
Storco i tratti. “Che hai capito?” Respiro. “Sì, okay,” ho afferrato la battuta, dev’essere il suo modo di fare umorismo. Pessimo. La detesto ancora un po’ di più.
“Alla fine pensavo peggio,” commenta guardandosi la maglietta con la croce, i jeans cortissimi, “Sembro una di quelle cantanti rock, hai presente?”
“Sembri una cretina,” preciso.
“Sì. Tu più una escort, invece.”
“Vaffanculo.”
Ridacchia, nel suo modo infantile. Ringrazio la penombra della notte, rischiarata solo dalla luna, che mi nasconde ai miei stessi occhi, per evitare il senso di vergogna. Lei, al contrario, fa un bell’effetto, con il rosso sulla maglietta e il platino dei capelli, coi chiaroscuri disegnati addosso che la fanno apparire anche più figa di quanto già non sia.
È l’unico essere umano che sia rimasto in Illumina oltre me; le Erinni no, loro non si meritano l’appellativo. E Candy, beh Candy spero che a quest’ora l’abbiano spedita a Panzer-2 con un calcio nel culo.
Sospiro nel buio. “Non so neanche il tuo nome.”
“Quello vero?”
“Quello vero.”
Lei alza il capo oltre le frasche, al cielo notturno che appare a sprazzi tra le grandi foglie del palmeto. “Lucilla.”
“Ma serio?”
“Perché?”
“Mai sentito nessuna chiamarsi Lucilla.”
“A Roma si usa.”
“Sei di Roma?”
Scuote la testa. “Mia mamma.”
“E sei una suora, sì?”
“Lo ero.”
“Ma lo eri davvero o è una di quelle stronzate del network?”
“Lo ero davvero.”
Rido. Scuoto la testa, la coda dei capelli. “E cosa ci fai qui, suor Lucilla?”
Incupisce, abbassa il capo sollevando di più un ginocchio contro il petto.
“No, dai, sul serio,” insisto cercando di non essere irriverente, “Non dovresti essere contro la violenza e quelle cose lì? Sei credente, perché venir qui ad ammazzare altre donne? Voglio dire: lo so che essere religiosi non significa niente, mia madre è credente eppure odia i negri, più che li odia li… insomma, non li sopporta, le danno fastidio. Però crede in Dio, quindi io dico: ma che senso ha?”
Radiosa prende un respiro. “Non è così banale come pensi.”
“Io non penso niente. So solo che mi fa incazzare l’idea che ci sia un Dio che controlla tutto quello che fai e che può disporre della tua vita come gli pare e piace. Non è giusto.”
“Non è così. O meglio, è così ma non è il modo corretto di prendere la cosa.”
“Quindi dovrei aprire le manine e dire Prego, Dio, fai fare a pezzi il mio corpo da un dinosauro del cazzo, sia fatta la Tua volontà.
“È successo?”
Silenzio. “Che c’entra?”
“Se non è successo è perché non doveva succedere, a prescindere da quello che puoi aver fatto, detto o pregato. Se inizi la tua giornata con la convinzione che sei padrona del tuo destino, al calar del sole sarai solo stanca e delusa. Quante cose succedono ogni momento sulle quali non hai alcun controllo? Quante volte ti sei impegnata per qualcosa e non hai ottenuto nulla?”
Brivido. “Che sei, psicologa pure?”
“Sto solo cercando di spiegarti cos’è Dio, perché a me sembra la cosa più logica del mondo.”
“Sì, vabbé. Quindi dovrei pregare per ottenere le cose invece di sbattermi?”
“No, affatto. Devi solo iniziare la tua giornata col dubbio, senza certezze, e prendere le cose così come vengono, senza aspettative, senza illusioni. Quel dubbio è Dio.”
Rimango in silenzio per essere sicura d’aver capito bene. Alzo di spalle. “Io la sapevo ben diversa la storia, quindi o io non ho mai capito un cazzo o tu non sei proprio una suora tutta finita.”
“Lo ero, non lo sono più.”
“E mo’ ho capito il perché.”
“Ho lasciato io il convento. Non era più il mio posto. Non mi trovavo più nella ritualità, nei gesti, in tutte quelle pratiche ripetute senza un senso. Dio non si venera chiudendosi dentro un monastero ma vivendo la vita, seguendo il proprio destino, realizzando il nostro ruolo nel mondo, per quanto insignificante sia. Io credo questo.”
“Tra vivere la vita e lanciarsi su un’isola del cazzo piena di cose orribili c’è una notevole differenza. Non potevi, chessò, fare la pornostar? Sai quanta gente avresti fatto contenta?”
“Se l’avessi fatto a quest’ora non staremmo parlando in mezzo agli alberi.”
Brivido.
Questa volta è un brivido caldo, profondo, spinale. Una consapevolezza atavica, radicata come l’isola stessa, come Illumina, come la realtà alternativa che rappresenta. La notte, intorno, fruscia e si muove al ritmo dell’occasionale brezza, del moto placido delle onde.
“Quindi,” mormoro incerta, con la voce che tremola, “Quindi mi stai dicendo che potrebbe pure essere che Dio… cioè che tu sei finita qui solo per…”
La croce.
Il sauro tentenna.
Arretra di un passo.
La luce che ho visto sopra la sua chioma di platino, ma forse era solo un’illusione, un gioco della mente.
“Salvarti la vita?” Sorride appena, nel buio. “Non ne ho idea. Ma potrebbe essere.”
Scuoto la testa, prima piano poi più decisa, “No,” umetto le labbra di colpo asciutte, “No, senti, cambiamo discorso. Io… io queste cose le patisco, okay? Non voglio neanche sentirle. Il destino non esiste, Dio non esiste, è solo il Caso del cazzo a decidere tutto, quindi queste cose da film risparmiamele, okay? Non le voglio neanche sentire.”
“Lo capisco. È normale.”
“Non è normale! Smettila di far passare tutto per normale!”
“D’accordo.”
“E l’aereo,” le punto contro l’indice nell’oscurità, “Il drone, quello che ha scaricato la cassa del kit: tu lo avevi visto arrivare, quindi la scenetta della preghierina ficcatela dove dico io la prossima volta.”
Sorride, nel buio. So che ho ragione ma la certezza, quella non ce l’avrò mai.
“Dio,” strofino il viso per scacciare le emozioni della giornata, scaricare i nervi, “È tutto assurdo.” Socchiudo gli occhi per un lungo attimo. “E quanti anni avresti tu?”
“Ventuno.”
“Sei una cazzo di ragazzina. Perché anziché farti tutti questi pensieri profondi non fai le cose che fanno i ragazzini, tipo drogarsi, andare ai concerti, bere e scopare?”
“E tu?”
“Io l’ho fatto quando è stato il momento.”
“No,” ridacchia, “Volevo sapere quanti anni hai.”
“Ventotto.”
“Veramente? Potresti essere mia nonna allora!”
“Ma vaffanculo.”
Ride. Penso che con una risata del genere, così cristallina, potrebbe far uscire di testa qualsiasi maschio ricettivo. La detesto ancora di più.
È una persona totalmente illogica, che sfugge a qualsiasi stereotipo io abbia mai avuto dipinto in testa, e questo è straniante. Non riesco a capire quanto reciti una parte e quanto sia veramente così.
“E i tuoi genitori? Ti hanno permesso di venire in questo postaccio infame?”
“Non li ho dei genitori. Sono state le suore a crescermi.”
Sorrido amara. Non voglio approfondire se sia orfana o l’abbiano abbandonata: mi ricorderebbe mio padre, che ci ha abbandonate tutte ed è stato un bene così, o mia madre, che non ci ha abbandonate ma a volte sì, nel suo modo tutto particolare di distruggerci la vita. Mi ricorderebbe Alessandra, che è una stupida cretina e ancora non capisce che se non si sbriga a farsi una vita sua finirà sotto un ponte come me. Forse un ponte è meglio dell’esofago di un sauro.
Meglio.
Esofago.
Sauro.
Che poi, chi cazzo mai abbandonerebbe una creatura platinata come quella, con due occhi che sembrano una galassia? Quale fottuto genitore mollerebbe in convento una bambina che a dieci anni dev’essere stata già la più figa bambina d’Italia?
A dieci anni io mettevo i jeans strappati, masticavo la gomma e sapevo ruttare l’alfabeto, poi ho disimparato coi manrovesci e le bestemmie di mio padre. Lei a dieci anni l’avrebbero potuta usare in tv per fare la pubblicità della Barbie, o ai matrimoni come damigella porta-fedi. Sì, cazzo, la damigella porta-fedi al matrimonio dei reali d’Inghilterra.
Perfetta.
“Silvia.”
La guardo di sbieco, sottilmente infastidita che usi il mio nome, come Atreja prima di lei.
“È un bel nome,” si giustifica, “Sa di bosco.”
Scuoto la testa. “Di bosco?”
“Sì. Fa molto Illumina.”
“Pensa che io avrei voluto chiamarmi con qualcosa di più cazzuto, tipo Desdemona o Nemesi. O Regina. Sì, ecco, volevo chiamarmi Regina: faceva più guerriera.”
“A me Silvia piace.”
“Mi chiamerai Mercury e basta.”
Stacco l’ultimo orecchino e disinfetto: vorrei gettare quelle patacche invece le ho raccolte in una tasca, senza ragione, solo perché credo che in una situazione come la nostra tutto possa essere utile; abbiamo talmente poco che non occorre buttare via niente.
“Domani faremo il punto della situazione,” mormoro, “Ti giuro che non so come uscire da questo casino.”
“Sei l’unica che ha un po’ d’esperienza.”
“Ti rendi conto che siamo due contro venti, trenta, non so quante siano quelle maledette?”
“Sì. Ma ho fiducia in te.”
Trattengo un riso forzato. “Fiducia in me? Neanche mi conosci.”
“Lo sto facendo ora.”
Fai male a fidarti, ma non lo dico. Le stavo per vendere tutte e tre, stamattina, per salvarmi la pelle. Penso che avrei potuto ucciderle, se Atreja me lo avesse chiesto come prova di devozione; sì, le avrei uccise, anche lei, Radiosa, Lucilla, fottuta suora o ex suora. L’avrei uccisa per salvarmi la pelle, e mi sarebbe pure piaciuto.
Lei ha finto un crollo psicologico per salvare entrambe. S’è inventata un trucco di magia con la croce per salvare me, invece di filarsela. Per salvare me.
Sono una merda. So che lo sono, non posso farci niente.
Vorrei aprir bocca, scusarmi, poi penso che tanto non è successo quindi chissenefrega, siamo su una coppia di palme, di notte, in Illumina.
Di notte.
In Illumina.
Vorrei aprir bocca e cambiare discorso ma qualcosa m’interrompe: è una selva di fruscii, di movimenti sommessi, che avvolge la base delle piante, più in basso, e agita frasche e cespugli.
“Oddio.”
Restiamo raggelate per un lungo attimo. Il silenzio ridiscende, col suono del mare, poi di nuovo uno spostare di piante frenetico, veloce, improvviso e prolungato.
Il buio che ci ha protette fino a quel momento, che è sembrato una culla nel quale rilassarsi dopo gli orrori del giorno, diventa o ritorna qualcosa di cui avere paura. Parecchia paura.
“Cos’è?” chiede lei in un filo di voce: le faccio cenno di tacere.
Sforzo gli occhi per scrutare nella penombra quasi completa del terreno; qualcosa si muove, appena visibile, non grande. Espiro per controllare la paura.
Il fruscio si ripete e così anche intorno, alla base degli alberi e poco oltre. Il nostro respiro ora più veloce colma i vuoti che quei movimenti lasciano tra l’uno e l’altro.
“Forse un serpente,” bisbiglia, la suggestione è oscena.
La cosa si muove di nuovo, e il fatto che lo faccia contemporaneamente alla base delle palme e in diversi altri punti intorno rafforza l’idea di spire che scorrono nel sottobosco.
“Merda.”
Un rumore metallico e uno più soffice di plastica smossa mi raggelano. Frugo nella mente per dare un senso a quel che ho appena sentito e realizzo che la cosa, la cosa è appena andata a sbattere contro la cassa che abbiamo lasciato a terra lì vicino. A sbattere o a frugarci dentro di proposito.
“Merda, merda, merda.”
Mi stringo di più contro il tronco, appigliandomi con la paura insana di cadere; vorrei poter vedere, esser sicura che non è niente, solo normale fauna. Cinghiali, volpi, conigli, cose normali; non cazzo di mostri, cose normali.
Anche le cose normali fanno paura, di notte; tutto fa paura, al buio. In Iraq ho incontrato il diavolo, una notte: di ronda, nelle tenebre, mi è apparso come un lemure di tre metri celato nell’alcova tra due case. Ho rischiato di morire, il cuore mi si è fermato proprio, bloccato, m’è mancato il respiro. Non sono riuscita a sparargli, al diavolo, all’orrore, alla cosa che mi guardava immobile; la cosa che, illuminata dalla torcia, era poi solo un tappeto avvolto e appeso.
La notte è infame. La notte maschera, modifica, cambia le sensazioni.
Ci saranno cinghiali, volpi e conigli in Illumina?
“Non abbiamo una luce qualsiasi?”
Lei fa segno di no, poi alza una mano, “Aspetta,” cerca frenetica nelle tasche del ridicolo jeans cortissimo che le hanno destinato, cerca e trova qualcosa che non colgo; uno schermo luminoso s’accende, la guardo pigiare più volte sul touchscreen, “Sì!” Alza due occhi da bambina contenta, “Ha la torcia!”
“Dammi.”
Mi sporgo verso di lei, prendo il telefono nella mano: non c’è una app, non c’è una sola icona di qualsiasi tipo, ma il dannato apparecchio ha la torcia sul serio. Non la accendo. Mi sporgo lentamente dal tronco reggendomi al fusto con una mano e protendendo lo smartphone con l’altra; il silenzio che è sceso sembra fatto apposta per creare suspense, tensione, fottuta adrenalina.
Punto in basso.
I fruscii sono cessati ma è come se sapessi, percepissi, che qualcosa lì sotto c’è ancora, lì, qualcosa che forse ha udito le nostre voci e i nostri tramestii e adesso ascolta di rimando.
Cinghiali.
Volpi
Conigli.
Col pollice tocco la piccola icona della torcia e il flash dell’apparecchio illumina il sottobosco con un biancore spettrale.
Cinghiali.
Lo spettacolo che appare tra le ombre lunghe dei vegetali è ben lontano da qualsiasi cosa abbia immaginato.
Volpi.
Una decina di teste si solleva all’unisono e volta nella nostra direzione con movimento meccanico.
Conigli.
Una decina di fauci di un rosso disgustoso si dilatano in un gesto di minaccia e curiosità.
E gli occhi.
Illuminati dalla torcia, dieci paia d’occhi s’illuminano come fanali di bicicletta, occhi tondi, grossi, sporgenti, alieni, occhi che niente hanno a che spartire con quelli degli animali del mondo conosciuto.
“PORCATROIA!” Quasi perdo l’equilibrio, con le scarpe da ginnastica che per un attimo mancano la presa sul legno mentre arretro d’istinto, reggendomi al tronco, col telefono che rischia di cadere ma ho le dita così strette per lo spavento che rimane dov’è.
Anche Radiosa sobbalza e si ritrae d’istinto, mentre la parata di occhi scompare di colpo, svanisce, quando la luce cambia direzione nella mia mano malferma.
“Porca troia,” ripeto col cuore a mille, il respiro affannato, ritrovando una parvenza d’equilibrio e rigirandomi lo smartphone nella mano con la paura di farlo cadere.
“Cosa sono?!”
Non rispondo. La notte, le tenebre, sono orrori celati. Non sopporto l’idea di essere al buio, di non vedere dove siano quelle cose, cosa facciano, potrebbero stare salendo sulla palma e io non le vedrei, non le sentirei, anzi le sentirei ma comunque non avrei una via di fuga. L’idea di saltare giù e correre via, nella foresta di notte, mi chiude lo stomaco e scatena un flusso d’adrenalina da impazzire, come la claustrofobia, il nulla, le cose di Illumina che stanno nell’ombra.
Respiro.
Deglutisco a fatica.
Respiro.
Anche lei, la suora, la ex suora, Dio o non Dio, è raggelata sul suo dannato tronco. I rumori che sento, un grattare, graffiare, stridere e scricchiolare non esistono, non sono reali: è il mio cuore che bombarda lo sterno con colpi sordi.
Oddio santo.
Respiro.
Resto attaccata al fusto della pianta mentre, con pazienza, con la mano che trema, oriento di nuovo il telefono in basso: il bagliore illumina il sottobosco e loro, le cose, sono di nuovo lì. La parata di teste non si muove, ci fissa a bocca dischiusa e con occhi tondi e grossi che, colpiti dalla luce brillano di un candore spettrale.
“Porca troia.”
Sono una decina e sono qualcosa di simile all’incrocio tra aironi e murene. Bipedi, della taglia di un grosso cane, magri e ossuti, ci fissano tutti nella stessa posizione, col collo oblungo incurvato, le teste sottili e irte di denti ad ago, le braccia scheletriche con mani adunche raccolte al petto.
E gli occhi.
I loro fottuti occhi sono grossi, tondi e splendono di un bianco incandescente, di luce riflessa. Sembrano cadaveri rianimati. La loro pelle è di un colore grigio scuro che, anche illuminati, li mischia col buio e ne sfoca i contorni.
Mai visto degli aborti del genere. Mai neanche immaginati.
“Che cazzo siete?” Biascico come potessero davvero rispondermi, orientando la luce intorno, sulla platea di sauri che osserva di rimando. Sono secchi, striminziti, costole dure e nodose spuntano dai loro petti neanche venissero dal Biafra, come le ossa volessero scappar fuori dai quei corpi.
O sono alla fame o sono dei mostri e basta.
Lo sguardo mi cade sulla cassetta dei rifornimenti rovesciata e le scatole vuote dei vestiti: ci hanno rovistato dentro come i pervertiti che anche loro devono essere.
Vorrei tirar loro qualcosa, per rabbia, per spregio, ma la palma non ha frutti; penso agli orecchini che mi son tolta ma non ne vale la pena, così il flacone del disinfettante. Vorrei tirar loro qualcosa e non ho niente.
Spero non sappiano arrampicarsi.
“Fottetevi,” scandisco con enfasi, agitando un braccio nel patetico tentativo di spaventarli; qualche testa s’inclina di lato e in obliquo, come fanno i piccioni quando ti scrutano per capire se sei la brava bambina che porta il pane o la stronza che gli corre addosso.
Io appartenevo alla seconda categoria.
Lo stallo tra noi e loro dura ancora diversi secondi poi uno di quelli si muove; si sposta furtivo al lato del manipolo, un passo alla volta, lento come certi trampolieri dei documentari, con lo sguardo fisso su di me. Radiosa mi fa segno allora punto la luce sul bastardo e quello si blocca, di sasso, come nel gioco delle statuine.
Gli occhi riflettono un candore da incubo.
“Fermo lì!” Strillo con un gesto autoritario del braccio, “Torna al tuo posto!”
Lui inclina la testa di lato, come un uccello.
“Guarda, guarda, guarda,” Lucilla indica nervosa dal lato opposto dello schieramento dove un secondo sauro ha preso a muoversi e a puntare l’albero con una furtività da cartone animato.
“EHI!” Ammonisco orientando la torcia e l’indice accusatore, “Pure tu.”
Come in un gioco, un cartoon, il primo che si era mosso riprende ad avanzare e, nel momento in cui gli ripunto la luce addosso quello si blocca e l’altro si sposta.
Impreco, mi stringo di più al tronco in un gesto di nervosismo; potrebbero sapersi arrampicare, sono carnivori, mi ci gioco le scarpe nuove. Sono come cani randagi, in branco, intelligenti, fin caricaturali.
Cani-sauri.
“Se salgono?” Radiosa occhieggia a me e loro a turno.
“Non salgono,” ringhio tra i denti, “Li sbudello se salgono. Ricevuto, merde?!”
 Mi risponde un fischio acuto, stridulo, di uno nella piccola calca. Poi un altro fischio in risposta. Sembrano prendermi per il culo, coi loro occhi spropositati e le mascelle che di tanto in tanto sbattono e schioccano.
Osceni.
Starebbero bene in un incubo.
“Fottetevi!”
Mi risponde uno stridio poi un grattare diffuso di zanne.
“Ricevuto, merde?! Fottetevi!”
Tacciono.
Osservano, immobili, sottilmente maliziosi.
“Adesso gli tiro qualcosa.”
Mi giro frenetica cercando un ramo, un pezzo di legno, qualsiasi cosa da prendere e scagliare di sotto.
“Oi carino-cari-noh.”
Raggelo.
La voce, quella voce, da ovunque arrivi, è fredda come quella di un apparecchio elettronico.
Mi volto con la lentezza allucinata che il momento impone; Lucilla ha sgranato a sua volta gli occhi.
“Chi c’è?” mormoro a mezza voce, guardo attorno, il buio, i sauri che non hanno smesso di osservarci con malata curiosità.
“Ma chi c’è?”
Silenzio.
Il rumore del mare, l’occasionale soffio della brezza, tengono a galla un quadro d’arte oscura.
“Oi carino-cari-noh.”
Il sangue gela per la seconda volta; è un suono artefatto, grattato, di gola. Giurerei, lo giuro, che viene da lì, dal plotone di bestie notturne in attesa.
“Hai sentito?”
Lei fissa in basso con la medesima espressione stralunata.
Mi viene da ridere. D’improvviso, d’istinto, un riso forzato, nervoso. “Ma dai?!” Accenno verso di lei, carica, ilare, “Ma non capisci? Sono dei cazzo di robot! Sono finti!”
“Sono finti?”
“Ma sì! Parlano pure!”
Vorrei ridere, perché è tutto assurdo. Quando ti mostrano le prime foto, al corso d’addestramento, le foto sfocate delle bestie più grosse, i video nei quali li intravvedi immergersi nella foresta, prima rabbrividisci e poi fai la domanda di rito: ma sono veri?
Figurati se sono veri.
I video sono manipolati, ti vogliono mettere caga.
Poi capisci che i video sono reali, ma magari la verità è un’altra. Ci abbiamo pensato tutte: sono dei robot. Le bestie, quelle grandi, sono dei robot; non ci hanno fatto dei film con dei pupazzi a dimensione naturale?
Hanno riempito Illumina di robot e hanno preso per il culo il mondo. Anche Panzer-2 è un robot.
Un robot può straziare una donna come ho visto fare a Rita? Magari un modello molto moderno, molto realistico.
Tutti robot.
Anche questi stronzetti neri che ci guardano dal basso: uno parla persino, come quei giocattoli orribili che non so come facciano a piacere ai bambini.
Robot.
“Pezzi di latta, morite male!” Rido, una risata nervosa, tesa, poi guardo in cielo, oltre il fogliame, allo sprazzo di volta stellata e alle telecamere, ovunque siano, “Potevate farli meglio questi mostri! Ah?! Pure parlare li fate? Ridicoli! RI-DI-CO-LI!”
Silenzio.
Prendo un respiro profondo, adrenalina in circolo; a reggere il telefono mi si sta addormentando la mano così cambio, con la sinistra mi tengo e con la destra oriento la luce sui piccoli bastardi che, nel cambio, si muovono di qualche passetto in ordine sparso.
“Ridicoli,” mormoro senza più voglia di ridere. Anche se sono dei robot non significa che non siano pericolosi. Magari li hanno tarati per ucciderci, persino per farci a pezzi, mangiarci. Come Rita. Rita è stata fatta a pezzi e mangiata da un robot gigante.
Assurdo.
Folle.
Criminoso.
Come questo posto: andrebbe chiuso, dato fuoco a tutto e i suoi fottuti creatori internati e buttata via la chiave. E a quelle come me, come noi, che sono venute quaggiù a farsi denudare e torturare e ammazzare andrebbero date tantissime bastonate sul culo ripetendo La prossima volta ci pensi dieci volte, dieci volte, dieci volte.
Odio questo posto.
“Oi carino-cari-noh.”
Un altro brivido lungo la schiena. Penso di aver individuato quello che parla: sta grossomodo nel mezzo, ha la gola che gli vibra e le fauci dischiuse; inclina il capo e occhieggia come se si aspettasse una risposta.
Scuoto il capo, stranita, stanca. “Non sei carino, proprio per niente.”
Mi risponde un fischio stridulo, poi un battere rapido di fauci, di schiocchi.
Più li guardo più assomigliano, nelle movenze, nei suoni, a dei fottuti pappagalli. Anzi no, dei corvi. Dei fottuti corvi.
“BUM!” Allargo le braccia in un gesto ispirato e quasi perdo l’equilibrio, “Vi tirerei addosso una bomba da aviazione, sapete? Una bomba vi tirerei. Ricevuto, merde?”
Radiosa accenna con un’occhiata nervosa, “Abbassa la voce, stai facendo un casino infinito.”
“E chissenefrega? Non l’hai capito dove siamo? Quest’isola è finta, le bestie sono finte. Possiamo strillare fino a domani, tanto sono quei signori del network che decidono se viviamo o moriamo, no? Magari hanno già deciso che domani siamo morte, che ti frega?”
“E se non sono dei robot?”
“Quanto sei grulla. E secondo te un dinosauro parla? Una lucertola parla? Questi cosi sono più finti della dentiera di mia nonna.”
Silenzio.
“Rii-ceh-vu-toh mer-deh.”
Silenzio.
Rido.
Rido della mia risata silenziosa, bassa, antipatica. Anche il mio modo di ridere è odioso, lo so, me lo dicono da anni. Rido da inferma mentale.
“Ma pensa te, pensa te. Sto di notte su una palma a parlare con un dinosauro giocattolo. Dio come sono caduta in basso.”
Ha la voce di un merlo indiano. Ho parlato con un merlo indiano, una volta: fischiava e ripeteva Ciao, Auguri, Mario e altre cose. Lo adoravo. Questi idioti hanno dato a un dinosauro robot la voce di un merlo indiano.
Geniali. Sublimi. Che puoi dire a menti eccelse del genere? Bravi. Applausi. Pensa a quelli che ci stanno guardando a quest’ora.
“Ripeti con me, stronzetto: ri-ce-vu-to, mer-de?”
Silenzio.
“Non parli più? Ti sei offeso?”
“Oi carino-cari-noh.”
“No, non sei carino, sei una merda. Ripeti con me: so-no u-na mer…”
Il verso che risuona e rimbomba nell’aria, non troppo lontano, è qualcosa di inspiegabile. Un suono basso, micidiale, diverso dal lamento di Panzer-2 ma che deve uscire da una gola altrettanto grossa.
Il telefono rischia di nuovo di cadermi per lo spavento, arretro contro il tronco. “Cristo Santo.”
Lucilla si volta, ispeziona la notte circostante col respiro affannato. Calmo l’improvviso attacco di paura ripetendomi che è tutto a posto. Riabbasso la luce sul sottobosco: i sauri sono scomparsi, svaniti. Non una foglia o uno stelo fuori posto a tradire il fatto che fossero lì un secondo prima.
Come non fossero mai esistiti.
Mai.
Esistiti.
Lei torna a guardarmi, ha in viso una certa, marcata tensione nervosa. “Tanto è solo un robot, giusto?”
Annuisco appena. “È tutto finto.”
La notte, intorno, sembra essersi fermata. Se non ci fosse la risacca sarebbe un silenzio osceno.
Il buio ha assunto proporzioni soffocanti.
“Spegni la luce,” pigola in un sussurro.
“Era lontano.” Lo dico a me stessa più che a lei.
“Spegnila!”
A malincuore la accontento.
Cala un buio inframmezzato solo dai riverberi delle stelle tra le frasche. Siamo nella tenebra.
Tendo l’orecchio per ascoltare qualsiasi suono utile, qualsiasi cosa.
Per un istante mi pare di udire il passo pesante, sordo, di qualcosa che si avvicina, qualcosa di grosso, ma è solo il pulsare del cuore che mi arriva fin nelle orecchie.
Era lontano.
Ma potrebbe avvicinarsi.
È solo un robot.
Rita è stata dilaniata da un robot. Che ne ha ingoiato parecchi pezzi.
Tutto spettacolo.
Lo show.
Il network.
Pensa quanto hanno speso per realizzare questo circo degli orrori.
È tutto finto.
Tutto.
Finto.
Il buio.
Zero sonno.
Voglio andare a casa.
Sarà una lunga notte.
***
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Messaggio Da Petunia Mer Ago 25, 2021 7:03 am

Pezzo interessante che fa intravedere un altro spiraglio del mondo di Illumina. 
Sono andata a controllare (su un blog di suore di clausura 😎) a che età si possono prendere i voti perché la suora che a ventuno anni ha già fatto tanti anni di clausura mi sembrava un po’ farlocca. In realtà pare che oggi possano prendere i voti anche le diciottenni, quindi il tuo scritto fila anche se può, per un attimo, indurre qualche dubbio. Vero è che ci fai capire che la ragazza è stata affidata alle suore di clausura quando era giovanissima e dunque il totale degli anni di permanenza nella struttura può essere plausibile.
Altra piccola nota da lettrice. I pensieri che fai fare continuamente a Mercury, riguardo all’aspetto delle donne, mi fanno storcere un po’ il naso. Ad esempio: Lei, al contrario, fa un bell’effetto, con il rosso sulla maglietta e il platino dei capelli, coi chiaroscuri disegnati addosso che la fanno apparire anche più figa di quanto già non sia” . 
Le cose sono due: o Mercury è una invidiosa cronica e una insicura (cosa che non mi pare) o lei è lesbica 
I pensieri e le  considerazioni ossessive sui corpi delle donne che incontra sono davvero un po’ fuori dalla logica femminile. 
Altra annotazione. Usi il termine fottuto/fottuti/ fottuta in modo sovrabbondante. Non so più quanti ne ho contati dall’inizio. È anche questo frammento ne è infarcito. Secondo me puoi rimuoverne un bel po’ senza che il personaggio soffra. Alleggeriresti la lettura.
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Messaggio Da Fante Scelto Mer Ago 25, 2021 2:14 pm

Ti dirò, per questo romanzo al femminile ho fatto molto affidamento su persone che conosco nella vita.
C'è una mia amica che fa esattamente questo, cioè commenta costantemente i dettagli del fisico delle altre donne (soprattutto quelle che non conosce). 
E ne è consapevole. Very Happy
Tipo una volta ha fatto un commento sulle tette di una che ha visto passare e poi ha detto davanti al gruppo che eravamo, con assoluta naturalezza, "Sì sì, ma non vi preoccupate, io guardo un casino le tette delle altre."

Mi sento di escludere che sia lesbica.
Penso sia dovuto all'insicurezza.

Per Mercury ho pensato qualcosa del genere. Tanta corazza, tanta spavalderia, ma sotto sotto una insicurezza di fondo (che è poi un tratto molto femminile, credo). Infatti i commenti che fa fanno parte dei suoi pensieri, perlopiù, non li esterna apertamente.

Grazie sempre delle dritte.
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