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SUPERPREDATORI - parte 18

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Messaggio Da Fante Scelto Dom Giu 20, 2021 8:36 pm

***


Gioele Palazzese guardava il monitor come in trance.
Le cuffie calate sulle orecchie, una mano a reggere il mento, fissava la scena ruotando lentamente la visuale dalla regia personalizzata.
Dal monitoring era arrivato l’avviso mezzora prima: tra poco tirano fuori Cerbera.
La mezza sudafricana: una bellezza superlativa, una perla rara. Aveva fatto impazzire i fan, prima della partenza, un visibilio; fisico importante, sguardo da tigre, viso dai tratti europei e africani mischiati alla perfezione, tanto da diluire in buona misura tutte le caratteristiche negroidi meno attraenti: naso camuso, gengive violacee, occhi sferici.
Era un portento di ragazza che non per niente era finita a sbattere corpo e sorrisi sulla passerella della moda e di Instagram. Una del genere non sarebbe mai passata inosservata, neppure in un calderone di bellezza ed esubero come il suo show.
Tra poco tirano fuori Cerbera.
Era stato fatto un post dedicato sul forum, col viso di lei in un tragico bianco e nero e la scritta Il mio destino si compie.
Connessioni schizzate al cielo.
Ogni singolo atto di violenza, ogni gesto di supremazia, tortura, perversione e crudeltà era guardato e riguardato con ossessiva insistenza da migliaia di portali e terminali connessi; ogni singolo paio d’occhi che assisteva allo spettacolo lo faceva per gusto malato, curiosità morbosa, autoerotismo, autolesionismo o solo per poter puntare il dito contro la mercificazione della donna e la spettacolarizzazione della violenza.
C’era gente, un mare di gente, che aveva speso i soldi d’un abbonamento solo per poter confermare i propri ottusi pregiudizi.
Gioele lisciò il mento e la barba caprina. Non era un sadico, no, non amava la violenza gratuita, non lo eccitava, non lo compiaceva: gli dava solo ragione, ragione su tutto quello che aveva sempre sostenuto e per il quale aveva creato Superpredatori.
Ogni singolo atto di supremazia era un inno alla fallacità umana. Una sconfitta per chiunque ancora credesse che la cattiveria e la sopraffazione non siano connaturate all’essere umano.
“Coraggio, ragazza,” mormorò allo schermo, alla figura esanime di Cerbera, “Dammi ragione una volta di più.”
Sfiorò lo schermo come potesse carezzarle i folti capelli biondi color del grano maturo.
“Una volta di più.”
 
Taif Cammarata sentì le ginocchia poggiare a terra, sulla sabbia; tenuta per le braccia tese, la testa le ciondolò in avanti, la chioma sparsa fin sul viso.
Ansimava debolmente.
Non c’era nulla nel suo campo visivo, nulla eccetto un bagliore indistinto e accecante. Dall’oscurità totale della bara era passata al candore assoluto del giorno; non le riuscì di tenere aperte le palpebre se non per fissare il terreno sotto di sé.
Ansimava debolmente.
Qualcosa di fresco, acqua, le fu versato sul volto e poi, con un mestolo, in bocca.
Ci volle un attimo, un lungo attimo, poi gridò, emise un verso strozzato mentre il liquido scendeva nella gola riarsa bruciando come fuoco. Il verso divenne un gorgoglio soffocato e poi un colpo di tosse polmonare, un mezzo conato.
Abbandonò ancora più la testa in avanti, contro il petto, con un filo di saliva a scivolarle al lato della bocca, delle ampie labbra rosate.
“Puoi sentirmi?”
La voce la raggiunse attraverso la parete del dolore e della disperazione. Percepiva il proprio corpo come coperto da una patina bollente che era sudore, polvere, abiti incollati alla carne.
La testa non c’era. Non connetteva, non era presente. L’inferno della bara di metallo, chiusa sotto terra, al sole, aveva distrutto ogni difesa, qualsiasi razionalità.
Sentì una mano stringerle la chioma e sollevarle il capo, ma non sentì dolore; si ritrovò a fissare avanti, nella patina sfocata del giorno, una figura che stava eretta davanti a lei che era in ginocchio.
“Puoi sentirmi?”
Taif annuì appena. Il filo di saliva cadde dal mento alla sabbia.
C’era una donna. Una donna che, con le mani elegantemente poste dietro la schiena, la osservava da un passo di distanza, stagliata nella luce. Delineò un sorriso sottile, tracciato con la lama su una bocca geometrica, impeccabile.
“Tu sei l’ultima,” la voce di lei, tagliente, sicura, le risuonò nelle orecchie, “L’ultima della tua squadra. Sai cosa significa questo?”
Taif ebbe un moto di sconforto: lo sentì salire dal basso ventre e diffondersi nel petto, le prese la gola; le uscì  un singulto e strizzò di più gli occhi. Mormorò qualcosa che non capì lei stessa.
“Le altre non ci sono più. Quelle che consideravi più forti, migliori, sono state uccise, fatte a pezzi dalla bestia. Abbiamo lasciato i loro vestiti appesi alle rocce, sulle rupi, per onorarne la memoria. Il mondo le ha viste morire, con poco coraggio e molta disperazione. Non ci sono più.”
Fece una pausa, guardando intorno, le quattro guardie, le murate del fortilizio. Il cielo terso del pomeriggio.
“Qual è il tuo nome?”
Il tono era sicuro, forte, non duro.
“Taif,” mormorò lei, mordendo le lettere, strascicando la voce. Non riusciva neanche a parlare. Era un cadavere rovente che oscillava nella morsa delle sorveglianti.
“Tu desideri morire come loro, Taif?”
Silenzio.
La ragazza scosse appena il capo, poi le spalle le si mossero in un lieve, delicato singhiozzare. “No…” Lacrime bollenti le scivolarono sulle guance, in sequenza. “Voglio tornare a casa.”
Taif Cammarata piangeva, in silenzio. Piangeva, senza un suono, sussultando le spalle, la bocca piegata in una smorfia di dolore e sofferenza. “A casa…”
Il sorriso della donna apparve ancora, solo un soffio più tenue del precedente. “Non si può tornare a casa, Taif. Nessuna torna mai a casa. Illumina è un posto insolito: ci trattiene con ostinazione, ci vuole con sé, tutte quante.”
“Vi prego…” Voce rotta, strascicata. La sabbia s’inumidì di pianto.
“Non pregare, l’isola non sa che farsene delle tue preghiere. L’isola vuole te, Taif, come ha voluto le tue compagne.”
“No…”
“Sì. Tu sei pronta a entrare in comunione con Illumina, ragazza? A diventare parte di essa, nutrendo le creature meravigliose che abitano l’Eden?”
“No, no…”
Un respiro pieno, ispirato. “Se non vuoi il sacrificio, Taif, c’è solo un’altra cosa che puoi scegliere, soltanto una: la sottomissione.” Si chinò leggermente, come a guardarla in viso e farsi guardare a sua volta, dagli occhi spenti e umidi di lei. “Sottomettiti alle Erinni e all’isola: solo così io non ti darò alle bestie. Altre tue compagne l’hanno scelta, non è una via facile ma conserverai la vita, se ci tieni più dell’onore.”
Taif scosse la testa, il viso rigato, segnato da una tempesta di paura, dolore e privazioni. “Per favore…”
“Devi scegliere, ragazza. La comunione di sangue oppure la sottomissione. Devi scegliere.”
“Voglio,” tentò di muovere le braccia, tenute dalle guardie, la voce spezzata, singhiozzata, “Voglio andare a casa…”
Piangeva.
“Non si torna più a casa. Devi scegliere, Taif. Devi scegliere ora.”
“Mandatemi a casa, per favore… per favore…”
La donna tornò eretta, increspò le labbra. Guardò le sorveglianti che attendevano un responso e scosse appena il capo. “Forse la notte nella bara ti aiuterà a decidere.”
“NO!” Lei si rianimò di colpo, strattonò gli arti e fu trattenuta con maggiore forza, “NO, PER FAVORE!”
Occhi sgranati, Taif Cammarata si dibatté per un lungo attimo, invano, prima di essere trascinata indietro, verso la botola aperta nella sabbia.
“NO, NO!”
Quattro paia di mani la afferrarono per i vestiti già laceri, trascinandola di peso, costringendola verso terra in una sequenza di gesti furibondi.
“LA BARA NO! LA BARA NO!”
Gettata dentro, colpita con bastoni.
“DIO NO, NO, NO!”
Il coperchio di lamiera pesante le fu richiuso sopra con uno sbattere di metallo, il fermo rimesso al suo posto. Il suono di mani e piedi che colpivano freneticamente contro la superficie arrivò solo come un battito ovattato assieme alle sue grida disperate, che presto sminuirono in un tragico pianto.
La donna, piantata a gambe leggermente divaricate, guardava senza un segno di compassione. Controllò l’orologio al polso: diede alla creatura sepolta viva lo spazio della notte prima della resa definitiva.
Si allontanò a passo lento, seguita dalle compagne: il viso tagliente, affilato, dai capelli scuri tagliati corti e sagomati, fu traversato da un profondo impulso di consapevolezza.
 
***
 
Abbasso il binocolo col braccio che è stato teso abbastanza da far male.
“Porca troia.”
“Quindi?” Lucilla guarda me e poi il forte, senza sosta, unica a non aver beneficiato della visuale magnificata. “Che le hanno fatto?!”
“Richiusa nella bara.” Scuoto la testa. “Non so voi, ma mi chiudessero dentro quella cosa morirei. No, cazzo, io morirei subito. Ma non scherziamo.”
“La conoscevo,” Sigrid abbandona la posizione di tiro, ravvia i capelli da sotto al berretto con un gesto d’insofferenza. “Cioè, ci ho parlato il giorno prima della partenza. Cerbera. Sembrava tosta.”
“Nessuno rimane tosto dopo chissà quante fottute ore in quel buco sottoterra.” Reprimo un brivido bollente di claustrofobia. “Almeno una l’abbiamo trovata.”
“Soddisfatta?”
Occhiata acre. “Molto, grazie.” Mi rialzo da terra, le ridò il binocolo. “Ho visto abbastanza.”
“Ce ne andiamo?”
“Per ora.”
“La lasciamo lì?!” Lucilla ci guarda come guardasse Satana.
Silenzio.
“Perché?”
“Abbiamo trovato una delle altre e la lasciamo lì, in mano a quelle assassine?”
“Hai qualche idea per tirarla fuori senza morire come merde?”
“Hai voluto restare ore qui a far nulla, credevo almeno un’idea ti fosse venuta!”
“Beh, nessuna fottuta idea, mi spiace!”
Sigrid ride tra sé, scuote la testa. Lei guarda di nuovo verso il forte, la bara di metallo interrata. “Non possiamo lasciarla lì.”
“Lu,” la agguanto per le spalle, il tono più rassicurante che trovo, “Lu, cazzo, ragiona: non possiamo fare niente, per ora, niente, okay? Troverò un modo per dare fuoco a quel covo di vipere, lo giuro, ma adesso non siamo in condizione. Non possiamo.”
Lei si svincola, amara. “Adesso ce ne andiamo, e poi? Torniamo domani? Se non ci sarà più, non sapremo che fine ha fatto?”
“Vai ad aiutarla, no?” Sigrid storce le labbra in una smorfia beffarda. “Scendi, bussi, fai un inchino e chiedi per favore se te la fanno portar via.”
La fulmina con l’occhiata più fredda che le abbia mai visto fare. “Potresti ucciderle tu, invece. La prossima volta che si avvicineranno alla botola, tu le ucciderai col tuo prezioso fucile, visto che sei così brava.”
Artemis ridacchia di nuovo, scuote la testa coi denti candidi a mordicchiare il labbro di sotto. “Fatti curare, bella.”
“Ehi,” m’interpongo seccata, “Avete rotto i coglioni, tutt’e due. Sono IO che decido, e ho deciso che non possiamo fare niente, per ora. Domani torneremo e si vedrà che fare, se quella è ancora viva o no.”
“È una di noi.” Il suo sguardo è amaro, vibrante. Da dove le venga questo improvviso senso d’affezione non lo capisco.
“Lo so. Ma sta messa molto peggio di noi, e io non posso perdere delle vive per salvare una quasi-morta. Chiaro?”
“Eravamo qui per questo.”
“E lo siamo. Ma ci vuole pazienza.”
“A lei il tempo non basta.”
“A noi…”
“Mercury!” Sigrid c’interrompe con un tono che è di colpo atterrito, spaventato. Mi arretra addosso e un brivido m’attraversa schiena e gambe.
Cinque cose si sono materializzate alle nostre spalle, cinque cose scure che ci guardano da un paio di passi di distanza e che i miei occhi confusi non identificano se non per dettagli assurdi, come orecchie, pelo, braccia, occhi scintillanti.
E archi. Cinque archi con freccia incoccata puntati su di noi.
Dietro quei cinque archi ci sono altrettanti animali giganti.
Fottuti, pelosi animali giganti.
“No,” scandisce la volpe abbassando l’arco e avvicinandosi a passo felpato, “No, no, no, no.” Raggiunge Sigrid che ha mosso con orribile lentezza il fucile in posizione di tiro, lo prende gentilmente, glielo toglie dalle mani senza incontrare resistenza.
È una scena che abbiamo già vissuto.
Non impariamo mai.
Mai.
Alziamo le mani in segno di resa.
 
***
 
“Io non capisco, giuro che non capisco.”
Gioele Palazzese vagava a passo inquieto nella saletta relax, quella a suo uso esclusivo, che aveva voluto tenere distante dal resto degli uffici e che rimaneva chiusa quando non vi si relegava lui soltanto.
“Da quando è arrivata l’Ondata 9 sembra che tutto sia cambiato. Nulla è più come prima.”
L’urna, di un verde smeraldino e sagomata a guisa d’un rettile, sembrava fissarlo di rimando dagli occhi della creatura: due minuscoli frammenti color rubino, freddi e attenti.
“È cominciato tutto con la croce. Che quelle isole seguano a modo loro le leggi della fisica e della natura cui siamo abituati lo sappiamo; ma che si potesse sconfinare nella metafisica no, a questo non ero preparato. Continuano a dirmi che c’è una spiegazione razionale, un motivo, qualcosa che trascuriamo, ma io ti dico: finché questo dettaglio non sarà trovato, non dormirò sonni tranquilli.”
Si versò del liquore e lo trangugiò d’un sorso.
“Ricordo quando parlavamo di Dio. Per te esisteva, anche se non nel modo in cui la Bibbia ha insegnato; esisteva nelle cose, nella terra, nei luoghi. Nelle creature. Un Dio che permea la natura in tutte le sue manifestazioni. Ma soprattutto un Dio che non ha voce, non ha intelletto, solo istinto, e che pertanto non può essere buono né malvagio, e che è sordo o ascolta le preghiere in maniera del tutto esente da logica, più che altro per caso o propensione.”
Mosse un indice, accorato, come a notare del talento.
“Erano idee avanguardiste, importanti, te l’ho sempre riconosciuto. Non è facile comprendere e immaginare un Dio che sia caso e casualità, forza primigenia, basata su istinto ed energia piuttosto che preghiere e rituali. Cui non importa la condotta ma solo la vitalità, l’immedesimazione negli schemi di cui egli stesso è parte. Significherebbe privarlo di quella ragione, del tutto umana, che vogliamo per forza riconoscergli, per non sentirci soli e abbandonati.”
Respiro carico.
“Magnifico. E in parte ho sposato questa visione, lo sai, l’abbiamo portata avanti assieme. Le isole, le creature, quale posto migliore per dimostrare al mondo che Dio non esiste, o meglio, esiste in maniera del tutto diversa da come chiunque lo abbia mai concepito.”
Sedette sull’ampio divano, di fronte alla luce artificiale del camino, il fuoco elettrico acceso dietro la piccola superficie vetrata. Gli ricordava la baita di montagna dove per la prima volta avevano avuto l’intuizione di dire Potremmo creare un reality.
“Poi ho capito una cosa importante. Che il mondo, questa società, non è ancora pronta per accettare un Dio privo di ragione; non è pronta a rendersi conto che nessuno controlla o giudica le nostre azioni, che non esistono il Bene e il Male, che le nostre scelte e le relative conseguenze sono sempre e comunque un’esclusiva responsabilità di ciascuno. Per questo, e solo per questo, trovo sia più facile dire con laconica amarezza che Dio non esiste affatto. È un concetto più agevole per le menti mediocri dalle quali siamo circondati.”
Giunse le mani davanti al viso, lo sguardo fisso al tappeto di finta pelliccia che stava davanti al camino, come nella baita, su a Usseaux, dove si ritrovavano sotto Natale.
“Mi mancano le nostre discussioni, i dibattiti, le ricerche per sbatterci in faccia che avevamo ragione su questo o quel cavillo semantico. Ah, perché, perché qualcosa deve sempre dividere i grandi spiriti, una cosa banale, volgare come la morte.”
Storse le labbra abbandonandosi sullo schienale del divano, lo sguardo al soffitto ligneo.
“Vorrei che tu potessi vedere Illumina adesso. Tutte le storie che vi si sono intrecciate, tutti gli atti di coraggio e disperazione.”
L’urna sembrava guardarlo di rimando.
“È come ti dicevo io: non c’è alcun Dio. Ci siamo solo noi, e tutto il caos primordiale che abbiamo nella testa.”
 
***
 
Stiamo sedute a gambe conserte nell’erba, svariati metri più in là del nostro punto d’osservazione. Le mani legate dietro la schiena.
Fisso il vuoto perché fissare le cinque cose che ci hanno fottuto mi causa orticaria.
Se ne stanno lì, di fronte a noi cretine sedute sull’erba, in piedi, a rovistare nella nostra roba; ispezionano i telefoni, gli asciugamani, quelle quattro armi che avevamo. Rigirano gli zainetti sottosopra per vedere se ne esce qualsiasi cosa utile.
Sono cinque, dall’aspetto ragazze piuttosto giovani, ventitré-ventisei, non di più.
La cosa imbarazzante è come sono abbigliate. Tutte e cinque queste bastarde indossano pezzi di costume da animale. Non sono pellicce, per niente, neanche finte pellicce: sono costumi di quelli che si mettono addosso gli idioti che vanno alle fiere, quelli che si travestono da animale. Non le mascotte, no, e neanche i pupazzi di carnevale: proprio i peluche umani.
E ognuna di queste cinque bastarde maledette ha il suo costume sbrindellato, con ampio cappuccio a forma di mezza testa d’animale, body impellicciato, una specie di minigonna impellicciata anch’essa, poi delle calzature alte o basse, che sono un tripudio di pelame liscio e lungo. Hanno persino dei grossi polsini di pelliccia.
E la coda.
Dio Cristo, hanno pure la coda didietro, attaccata al culo.
Sembrano uscite da qualcosa che è un po’ cartone animato, un po’ candid camera e un po’ porno idiota a tema foresta. C’è la lepre, poi lo scoiattolo, la volpe, il procione e infine una specie di uccello che credo sia una rondine, ma il costume è talmente improbabile e succinto che non si capisce neanche che cazzo di animale sia.
Provo un imbarazzo sconfinato nell’essermi fatta fottere da cinque cose del genere. Non ho parole. Neanche una.
L’unica nota in qualche modo sgradevole sono gli archi che portano a tracolla, con le faretre piene di frecce, e svariati coltelli appesi alla cintola.
Non ho la più pallida idea di chi siano. Non voglio credere che siano Erinni perché perderebbero tutta la stima che ho riposto in loro. Forse almeno una delle due deficienti che stanno sedute ai miei fianchi ha un vago barlume di nozione, ma non ho il coraggio di guardare nessuna di loro.
Mi vergogno.
Mi vergogno come una merda.
La rondine mostra il mio zainetto, lo agita come un salvadanaio vuoto, poi lo lascia cadere a terra con un gesto plateale. Si muove di un passo, mi si piazza davanti, si accoscia per guardarmi in faccia.
Sarà sui venticinque, ha un bel viso vagamente squadrato, dal mento esile e la bocca larga e sottile. Gli occhi, sul verde, brillano di consapevolezza. I capelli sono di un castano lucido e scendono lisci e liberi fuori dal cappuccio sagomato a testa di volatile, con tanto di piume nere.
Sorride sorniona.
“Abbiamo saccheggiato parecchie sfigate prima di voi ma, ragazze, fatevelo dire: siete le peggio pezzenti che abbiamo incontrato finora. Ma una roba imbarazzante.”
Vorrei sputarle in un occhio ma mi suscita un tale senso di disagio che non trovo il coraggio.
“Dove tenete le razioni, i sieri, le pilloline, ah?”
La guardo esattamente come guarderei una rondine che parla, sbatto le palpebre con una voglia assurda di alzarmi e andare a camminare fin giù dal dirupo. “Non so neanche di che cazzo stai parlando.”
Si guardano.
Guardano me.
Guardano le mie Nike dorate.
“Mica le avete messe nelle scarpe?”
Respiro profondo.
“Io continuo a non capire cosa è che cerchi ma, se stai pensando di togliermi le scarpe, ti sfondo il cranio.”
Silenzio.
Contraggo la mascella aspettando un cartone che non arriva. Tutte e cinque scoppiano a ridere come dementi e hanno una la risata più stupida dell’altra.
La rondine giunge e agita le mani in un gesto teatrale; ha le braccia tatuate con ogni sorta di scarabocchio tribale. “Oh, ma queste sono delle barbone proprio. Mi sa che ci è andata male, stavolta.”
“Ma per forza,” la volpe s’avvicina a Lucilla, si china, le tira un pizzico sulla coscia nuda che la fa sussultare infastidita, “Guarda questa quant’è pallida! Te lo dico io: sono appena arrivate, sono nuove.”
“Siete nuove?”
La pelle è un buon indicatore. Tutte e cinque hanno una discreta abbronzatura, sul viso, le braccia nude, le cosce ostentate, i bei ventri: il sole di Illumina le ha colorate di quella tinta dorata che prendi dopo un bel po’ che ci stai sotto. Devono essere qui da parecchio.
“Siamo nuove,” annuisco a denti stretti.
“Oh, ma che carine, era da un po’ che non vedevamo delle nuove. E come sta il mondo di là? C’è ancora? Non è scoppiata qualche guerra nucleare?”
“C’è ancora. Tutto bene. Grazie.”
Silenzio.
La rondine ci squadra ancora per qualche attimo, poi alza un indice davanti al mio naso. “Pazienza lei,” allude a Sigrid che, allucinata, sta rigida come un blocco di sale, “Ma voi due me la spiegate una cosa, una?”
Penso di non aver mai attraversato un’impasse del genere.
Sorride. “Ma come v’è venuto in mente di venire qua, su ‘ste isole piene di mostri, vestite da strappone? Ma come ragionate?”
Non so se ridere. Vorrei ridere. Mi fa ridere. Una demente vestita da uccello con altre quattro dementi vestite da animali parla con me di abbigliamento.
“Cioè, cosa rappresentate esattamente,” continua gesticolando, “Tu sei tipo una sexy-marine e lei… boh, cosa sarebbe lei, Miss Liceo?”
Scuoto la testa incredula. “Guarda, hai frainteso. Noi siam venute qua per fare una gita, sai, picnic speciale, foto ricordo, cose del genere. Non ci interessano le guerre, gli scontri, le fazioni: nulla. Lo vedi che non abbiamo armi, niente delle cose che hai detto prima. Ci siamo messe in libertà per fare le fighe su Instagram, tette, culi, sennò ci rompono le palle che non facciamo mai vedere niente. Sul serio.”
“E questa qua?”
Allude a Sigrid.
“Lei sarebbe la nostra guida. Infatti era l’unica col fucile, ma mica l’ha usato, no? Non abbiam fatto niente di male, vorremmo solo riprendere la nostra gita. Se non vi dispiace, chiaro.”
Il procione, una ragazza bassa, dai capelli scuri e lisci, caccia fuori dal fodero la spada di Lucilla e la solleva rigirandosela nella mano.
“E quella?” La rondine inclina la testa davanti a me esattamente come un volatile. “Che te la sei portata a fare, quella?”
“Per le foto. Sai quanto fa figo farsi i selfie con la spada?”
Il procione alza la lama al cielo. “Avanti Savoia!”
Parte un’altra risata corale imbarazzante. Sembrano cinque gabbiani in spiaggia. Imbarazzanti.
“Vabbé, dai, ci hai provato,” scandisce la rondine, un paio di buffetti sulla faccia che mi scatenano istinto omicida. Sopporto. “Voi mi sa tanto che siete quelle dell’ultima Ondata che hanno mandato, non so più che numero. Ne parlavano qualche giorno fa. Che numero?”
“Nove.”
“Già nove Ondate? Madonna come passa il tempo. E hanno mandato solo voi tre?”
“Le altre sono in giro.”
Silenzio. La volpe s’avvicina, si accoscia di fianco alla compagna. Ha un viso strano, lungo, con la mascella pronunciata e le labbra sagomate. I capelli, lisci e castani, incorniciano due occhi d’un verdastro quasi incolore. Il costume, rossiccio come l’animale che imita, lascia in buona parte scoperto un fisico forte, tonico, intonato all’altezza che sarà pure un paio di centimetri superiore alla mia.
“Ti piacerebbe,” commenta con un sorriso ancor più strano, quasi alieno, “Ma qualche giorno fa le Erinni hanno portato lì al forte cinque,” mi mostra la mano aperta, “Cinque nuove, tutte legate e bastonate. E qualcosa mi dice che erano le amiche vostre.”
Vago lo sguardo. “No, non credo.”
“Io dico di sì. Infatti stavate qui a spiare dentro al campo loro, come delle zingare. E non è educato.”
Espiro sconfortata. “Sentite. Abbiamo passato dei guai, d’accordo? Abbiamo perso l’equipaggiamento, tutto, e alcune delle nostre sono state prese. Ma a voi che ve ne frega? Chi siete? Erinni con la sindrome di Peter Pan?”
“Nah,” la rondine ammicca verso le compagne, “Noi siamo la Gang-Bang del Bosco.”
A quelle tre parole finali parte uno scatto corale e tutte e cinque si mettono in posizione sul posto, lei con le braccia tese ad aliante, una con le mani di lato, l’altra carponi, una terza come sull’attenti. Imitano in qualche modo ridicolo gli animali di cui portano i costumi ed è la coreografia più idiota e sconclusionata che abbia mai visto.
Mi sale un imbarazzo epico.
“La Gang-Bang del Bosco.”
“Perché, voi chi siete invece?”
Ci guardiamo in tre per un momento sconfinato. Non abbiamo un nome. Non ce l’abbiamo e nessuna ci ha mai pensato. Le Erinni sono le Erinni, queste coglione bruciate nel cervello sono la Gang-Bang del Bosco, noi, noi non siamo un cazzo. Non abbiamo un nome. Facciamo talmente schifo da non avere un nome nostro.
Improvviso.
Le Charlie’s Angels. Noi siamo le Charlie’s Angels.”
Si guardano tra loro. Lucilla e Sigrid guardano me.
“Ma che fantasia avete?”
“Dobbiamo stare a parlare del nostro nome? Non abbiamo questioni più importanti? State con le Erinni o no?!”
La rondine alza di spalle. “Non è che ci stiamo, non direi.”
“No, neanche io,” la volpe piega le labbra, “Stare assieme è un’altra cosa.”
“Siamo un’altra squadra proprio, capite?”
“Nostre regole, nostro modus, nostro tutto.”
Annuisco con espressione teatrale e loro incupiscono.
“Perché, ti fa strano la cosa?”
“No,” alzo di spalle, “Cioè sì, un casino. Pensavo che le Erinni avessero spazzato via tutte le altre squadre, come fate a essere ancora operative?”
La rondine sorride, si guarda con la compagna. “Bella, noi mica ci si fa fregare come voialtre. Per prenderci, a noi, ne devono sudare di camicie le Erinni.”
La guardo con l’espressione più torva del repertorio. “Ero seria.”
Lei incupisce, torna da me. “Abbiamo un patto con loro. Non le attacchiamo e loro non attaccano noi.”
Nei suoi occhi verdastri scorgo, per la prima volta, un barlume di timore, dubbio, d’incertezza. “E perché vi avrebbero fatto questo onore?”
“Senti,” mi piazza l’indice sulla fronte, spinge quel poco che basta a farmi reclinare leggermente la testa, “Voi non dovete credere mai a quello che vi dicono prima della partenza, a quello che vedete nei video, ai bollettini, i forum, tutte quelle merdate lì. Questa,” occhieggia intorno, alla foresta, le piante, l’aria che rinfresca nella sera incipiente, “È una giungla. Qua succedono cose che voi, da casa, non vedete o vedete solo quello che vi lasciano vedere, o se le vedete non le capite, perché ve le filtrano, ve le spiegano, ma se non le vivi non… non le comprendi davvero.”
Fa una pausa. Mi sento ancora meno a mio agio, un vago senso d’inquietudine. Quel dito sulla mia fronte sembra pulsare di una qualche spietata consapevolezza.
“Vi dicono che le Erinni hanno spazzato via tutte le altre squadre, ma non è così, o non del tutto. Un sacco di poveracce son morte, è vero, ma fate attenzione a dove camminate, perché altre come noi sono in giro, si nascondono, stanno lì ad aspettare gli eventi. Con le Erinni non hai scelta: ti nascondi o scendi a patti. La conosci Atreja?”
Brivido di rabbia. “La conosco.”
“La conosci al di là di quello che v’hanno detto prima di partire?”
M’ha mandata a morire nuda su un ponte d’assi, ma non lo dico. “Ne ho solo sentito parlare.”
Incupisce di più ancora e la volpe con lei. “Atreja è il diavolo. Prega di non incontrarla. Davvero.”
“Me lo ricorderò.”
Lei sorride, si riscuote, il suo indice lascia la mia fronte; è come se un velo di sottile orrore si fosse alzato di colpo, ritornando a quel vago senso d’idiozia che c’era fino a poco prima.
Ne sono in qualche modo grata.
La rondine alza di spalle, ammicca verso di noi. “Boh, per come la vedo io, ragazze, qui abbiamo solo due possibilità. La prima è che vi tagliamo la gola, adesso, e prendiamo un fiocco di punti per aver terminato l’Ondata 9. Che si vince quando stermini le ultime di una squadra?”
“Un set di armi a scelta o un veicolo,” la volpe fa una smorfia meravigliata, “Non l’abbiamo mai finita di sterminare una squadra.”
“Eh, no.”
“Ma noi non ce ne facciamo niente delle armi, e neanche del veicolo, quindi…”
“Quindi rimane la seconda possibilità: vi consegniamo alle Erinni e ci facciamo dare in cambio un set di funghetti, di quelli azzurri.”
“Oppure,” azzardo con l’idea fissa che la storia stia prendendo una brutta piega, “Ascoltate la mia proposta del cazzo.”
Silenzio.
“E sentiamola.”
Schiarisco la voce. “Uniamo le forze contro di loro. Insieme, per cambiare le cose in questo fottuto reality.”
Silenzio.
Cinque dementi vestite da animali del bosco ci osservano, mi osservano, mentre soppesano non so quanto seriamente la mia proposta suicida.
“Dimmi un solo motivo per cui dovremmo accettare.”
“Perché se per caso ci riusciamo, avremo fatto la più folle delle cazzate folli che delle donne possano aver mai fatto in vita loro. E sarà bellissimo.”
Il bosco trilla dei suoi rumori consueti mentre la luce inizia a diventare più arancione, più vicina al tramonto.
Sono secondi che passano con una lentezza disarmante; magari dirà di no, magari caccerà fuori uno dei coltellacci e mi segherà la carotide qui, sul posto, ma se ho capito poco poco che personaggi sono, cosa gira loro per la testa, forse una speranza c’è.
“Facciamo che se ne parla,” la rondine sorride solo con metà della bocca, “In un posto più sicuro.”
La gang si muove, raccoglie le nostre cose; veniamo fatte alzare e messe in cammino.
Seguiamo, legate, il quintetto che prende la strada a salire del pendio sulla sinistra.
Forse ho toccato i tasti giusti.
Forse ho solo ritardato l’inevitabile.


***
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SUPERPREDATORI - parte 18 Empty Re: SUPERPREDATORI - parte 18

Messaggio Da Petunia Gio Ago 26, 2021 4:20 pm

Questi @Fante sono dei “fottuti”‘ pipponi (mi sto Mercuryzzando…) Scherzi a parte, li dimagrirei un bel po’.


“ sia caso e casualità, forza primigenia, basata su istinto ed energia piuttosto che preghiere e rituali. Cui non importa la condotta ma solo la vitalità, l’immedesimazione negli schemi di cui egli stesso è parte. Significherebbe privarlo di quella ragione, del tutto umana, che vogliamo per forza riconoscergli, per non sentirci soli e abbandonati.”

questo pure (sono concetti che hai già espresso qualche frammento fa)

Che il mondo, questa società, non è ancora pronta per accettare un Dio privo di ragione; non è pronta a rendersi conto che nessuno controlla o giudica le nostre azioni, che non esistono il Bene e il Male, che le nostre scelte e le relative conseguenze sono sempre e comunque un’esclusiva responsabilità di ciascuno. Per questo, e solo per questo, trovo sia più facile dire con laconica amarezza che Dio non esiste affatto. È un concetto più agevole per le menti mediocri dalle quali siamo circondati.”
Giunse le mani davanti al viso, lo sguardo fisso al tappeto di finta pelliccia che stava davanti al camino, come nella baita, su a Usseaux, dove si ritrovavano sotto Natale.




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