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SUPERPREDATORI - parte 2

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Messaggio Da Fante Scelto Mar Mag 18, 2021 9:50 pm

***
 
Lasciamo il bunker. Ne sono sollevata e assieme preoccupata.
Lasciare il bunker vuol dire scordare il fetore, le mosche, il buio, ma anche avvicinarsi al nostro appuntamento col dolore. Dolore, sofferenza, paura, qualsiasi cosa ci stiano preparando.
Ci hanno slegato i piedi ma abbiamo guadagnato una corda al collo che ci tiene assieme, tutte e quattro in fila, come vacche al macello. Le vacche le legano per le corna, poi sparano loro in fronte. Veloce, indolore.
Vorrei avere le corna.
Vorrei che mi sparassero in fronte.
Sfiliamo a passo indeciso nel tunnel d’ingresso sommerso dalle mosche.
Usciamo nella luce solare intensa, gli occhi si stringono, e senza una mano libera per schermarli vaghiamo per qualche metro accecate e confuse. Più s’abituano più scorgo alberi, piante basse, foglie cadute, fiori tropicali, tutti i dettagli di un mondo dai colori vivi e potenti; sento di nuovo l’inquietudine crescere e il cuore accelerare all’idea che la cosa ritorni e ci sorprenda nello spazio aperto, vulnerabili, in piena luce. Non devo essere la sola a pensarlo per il modo in cui le altre si guardano attorno, spaesate, ed esitano nel passo.
Le nostre Erinni no.
Sanno il fatto loro, hanno imparato, sono abituate. Sanno che rischiamo poco o non saremmo uscite dalla sicurezza relativa del bunker.
In qualche modo le ammiro, sono come io ho sognato di essere quando ho letto per la prima volta il manifesto di Superpredatori. È fisiologico: se sei portata per cercare i fottuti problemi farai di tutto per trovarli. Se credi che un’esperienza diabolica come questa sia un suicidio che ha senso provare, penserai non solo di farcela, ma anche di diventare brava. Di essere un modello. Un’ispirazione.
Pensavo che sarei stata tra le dominatrici di Illumina.
Mi odio. Mi detesto.
Ci viene incontro un altro gruppetto: sono le nostre sei compagne d’Ondata, legate in fila, imbavagliate, anzi cinque: una manca e neanche ricordo di chi si tratti.
Le Erinni si parlano, si consultano, si dividono, poi noi prendiamo verso destra e le altre, con relativa scorta, verso sinistra; incrociamo per pochi secondi i loro sguardi atterriti prima che vengano condotte chissà dove.
Vorrei mandarle a fare in culo, tutte, e augurar loro che finiscano tagliate a pezzi, perché è colpa loro se siamo in questo casino. Aveva ragione la suora, non dovevamo aiutare la donna pelle e ossa, dovevamo spararle. Cretine stupide maledette, è questo che succede a essere pietose.
Vi odio.
Spariscono poco dopo seguendo un sentiero tra gli alberi.
Il colpo che m’arriva dietro il collo è il peggior schiaffo del soldato che abbia mai preso in vita mia; mi sbilancio, barcollo addosso alla suora che si volta preoccupata.
“Non aver paura, bionda,” un viso di donna degno del peggior teatro di guerra mi compare a fianco, irta di capelli neri folti e arruffati, sorride crudele sotto le pitture di guerra, bande nere dall’alto in basso lungo tutto il volto. “La strada è sicura. Ci sono io con te.” Neanche a farlo apposta è quella con la collana d’orecchie. Me le ritrovo lì, a un niente dal volto, quelle dannate orecchie tagliate.
M’assale la nausea.
Alcune sono così livide e gonfie, così piene di sangue rappreso, da sembrare pezzi di gomma masticata. Finte, sono finte, invece sono vere e luride, e stanno poggiate sul petto abbronzato di lei come gioielli estivi. Le odio. Spero non voglia le mie.
Le mie orecchie su una collana.
Te le faccio mangiare se mai mi libererò da qui.
La stessa mano m’afferra la coda dei capelli e tira indietro.
Ride, le altre ridono.
Ridono.
“Sei carina, bionda.”
Mio padre mi chiamava bionda, di solito prima d’incazzarsi e alzare le mani.
Odio essere chiamata bionda, mi manda fuori di testa. Odio che mi si tocchino i capelli, lo detesto. Odio tutto, odio questo posto.
Ingoio la rabbia con un altro ampio condimento di sudore. Ignoro. Guardo avanti.
M’arriva una bastonata sul culo che neanche la furia di mio padre.
Incespico. Bestemmio tra la stoffa. Resisto.
Il leitmotiv è quello di qualsiasi atto di bullismo: infierire per provocare una reazione che giustifichi altra violenza. A scuola obbligavo Elisabetta a prestarmi le penne solo per spaccargliele davanti agli occhi, e se protestava le arrivava un ceffone, un signor manrovescio a cinque dita, e magari un calcio in culo. Adoravo Elisabetta, come zerbino.
Spero mi stia guardando: le devo questa rivincita.
“Benvenuta in Illumina”, insiste quella cingendomi le spalle, come tra amiche, “Mercury.”
Camminiamo e fisso il vuoto, fisso avanti, sbatto le palpebre e mi ripeto di non reagire o diventa peggio. Io sono Elisabetta e mi odio per questo.
Camminiamo verso qualsiasi cosa ci aspetti là dove stiamo andando.
 
***
 
“Non lo capiscono, non ce la fanno a capirlo,” Gioele Palazzese si colpì la tempia con due dita, più volte, un lieve rossore gli prese il volto e così un tremito delle labbra.
Passeggiò su e giù per la piccola saletta relax, inquieto, il basco aggiustato di continuo. Tutto di quella stanza, l’arredo spartano, da casa di montagna, il caminetto elettrico, i dettagli delle decorazioni, gli ricordava la baita, su a Usseaux, dove erano soliti incontrarsi per fare salotto. Confrontarsi, come si diceva allora. Filosofia spiccia, filosofia profonda.
In quella baita era nato tutto. La culla di Superpredatori.
“Uomini in Illumina: e lo farebbero, questi stronzi, lo farebbero! Rovinerebbero il reality per la loro patetica paura di perdere il pubblico. Non capiscono, non lo vogliono capire, che questo non è solo uno show. È realtà estrema, è dissezione della patina di apatia e mollezza che affligge la società Occidentale. È cruda evidenza dove preferiamo coprire tutto, apporre bollini rossi, vietato ai minori di, limitato, chiuso, proibito.”
Sprofondò in uno dei divani, di fronte a lui il caminetto elettrico spandeva una gradevole luce aranciata.
“Ecco, siamo diventati questo. Una società del proibizionismo, dell’oscurantismo, dove niente deve turbare la normalità, nulla deve essere lasciato alla libera fruizione. Chiudiamo la violenza dietro leggi sulla privacy, sulla tutela del decoro, sulla difesa del diritto altrui. Non capiamo, nessuno lo capisce,” deglutì irato, “Che proibire qualcosa, nasconderlo, demonizzarlo, significa incoraggiarne l’uso, incentivare l’infrazione. Sai che da quando hanno approvato l’aggravante per omofobia sono aumentate le aggressioni contro gli omosessuali?”
Abbandonò il capo contro lo schienale, lisciò la barbetta arricciata.
“E così fanno per la violenza, per il sesso. Tuteliamo il decoro della donna proibendo la mercificazione del corpo femminile. Niente più nudi, mezzi nudi, niente soubrette, niente twerking, nessuna esibizione, agenzie di marketing in crisi. Femminismo militante che grida alla vittoria, al successo, alla fine dell’oppressione. Ma poi,” sollevò la testa e puntò un indice, accorato, le montature dorate scintillarono nella luce calda della stanza, “Poi arriva Superpredatori. Arriva lo show dove la donna si libera da tutte le costrizioni, tutti i divieti, dove sfida la dittatura del maschilismo e del femminismo e diventa, anzi ritorna, ciò che era in principio: libera. Libera davvero, libera di essere sè stessa.”
Chiuse il pugno.
Superpredatori porta per la prima volta la morte sullo schermo, intendo una morte voluta, cercata, non accidentale e non frutto di un conflitto forzato, ma di una libera, liberissima scelta. Superpredatori porta la donna a uccidere l’altra donna, a umiliare l’altra donna, a cacciarla, violarla, torturarla, mutilarla e infine privarla della dignità. E la cosa fantastica, il miracolo di questo show, è che non c’è costrizione alcuna. Nessuno ti ha obbligata a scendere in Illumina, a prendere un’arma, a commettere le atrocità che hai commesso. Nessuno.”
Sorrise, e il sorriso divenne una risata silenziosa, soffocata, decorata d’un rossore delle guance e uno scuotere delle spalle.
“Non ci sono uomini in Illumina. Niente maschi, niente oppressione, niente legge del più forte: solo della più forte, di testa, di braccio, di spirito. Il nazi-femminismo ha millantato per decenni che una società di sole donne avrebbe portato pace e stabilità al mondo, e adesso guardate, guardate bene, cosa Illumina vi porta su un grande vassoio d’argento: la verità. La verità assoluta, incontrovertibile, che la donna è solo l’altra faccia dell’uomo quando liberata dalle costrizioni di una società maschilista. Stessa visione agguerrita del mondo, stessa furia interiore, stessa fame di carne umana. Quando saltano i freni inibitori, questo è il risultato: bellissima, magistrale violenza.”
Sorrise, composto, sognante.
“Amo quelle donne, oh se le amo. Tutte, senza eccezioni, che prosperino o finiscano a pezzi nello stomaco di una delle meraviglie di Illumina. Le amo, nell’anima e più a fondo ancora, perché io non sono come quei gretti cacciatori sessuali che affollano le vie del mondo là fuori. Io amo nel senso più vero del termine. Amo e abbraccio quelle leggiadre creature dal momento in cui pongono la firma sul contratto a quello in cui la loro gola si apre o le interiora si rovesciano sul terreno. Io amo, senza eccezioni e senza compromessi. Sono l’uomo perfetto.”
Scosse il capo, soave, prima d’aggiustare gli occhiali sul naso.
“E tutto questo me lo hai insegnato tu. Tu, che credevi nella libertà, quella vera. La libertà è come un sogno rabbioso, una cavalcata selvaggia nelle pianure della fame e della sete infinite: se la libertà finisce dove inizia quella d’un altro allora non è libertà, ma solo una diversa forma d’incarcerazione.”
Morse le labbra, schioccandole.
“Tu mi hai insegnato a guardare oltre il velo dell’ipocrisia, della consuetudine. Mi hai dato metà della chiave per la verità. Hai ispirato Superpredatori. E io ti sarò sempre grato per questo.”
Tese una mano, come un brindisi senza bicchiere, verso il caminetto e l’urna verde smeraldo, sagomata come un rettile preistorico, che vi stava poggiata, immota e fredda, e sembrava guardarlo di rimando.
 
***
 
Il posto è degno, va riconosciuto.
Dapprima il terreno ha cominciato a salire, poi è diventato un pendio sul quale la vegetazione si è diradata, e infine sono apparse le rocce. Rocce secche, cumuli di pietre e sassaie, guglie, archi di arenaria, in un elevarsi di sentierini e strettoie nelle quali quelle cose, quelle bestie, non potrebbero mai passare.
Sono scaltre, sanno il fatto loro queste Erinni. Forse alcune sono state nell’esercito o hanno lavorato come contractor. Sanno il fatto loro.
Ci inerpichiamo su per un massiccio di pietra costellato di pinnacoli, con gli stivali che scivolano di continuo tra le rocce frastagliate e non una mano libera per parare la caduta. Prendiamo bastonate, calci e sassi addosso per qualsiasi cosa: se scivoliamo, se ci fermiamo, se ci lamentiamo, se alziamo gli occhi, e a volte anche senza niente di tutto questo.
Così cammino e guardo avanti, fissando l’unica cosa che posso osservare senza alzare gli occhi, e quella cosa è il culo della suora che mi cammina innanzi. È un signor culo, sagomato, chiuso dentro a dei pantaloni neri che sembrano starle incollati addosso.
La odio, la suora, spero la facciano a pezzi per prima.
Il posto dove approdiamo dopo svariati giri e passaggi è ciò che assomiglia a un accampamento di fortuna. Vivono qua, le zoccole, tutte o alcune di loro. Ci sono giacigli, svariati falò spenti, c’è della carne che essicca su spuntoni di legno e verdura ammucchiata. C’è persino il bucato steso. Queste merde lavano i loro panni e li stendono tra le rocce, come le persone civili; non importa se ci smembreranno col sorriso.
Tutto ha una certa aria di casa, di comfort, per quanto spartano: non mi farebbe schifo vivere qui, così, lontano dalla tv, dalla radio, dal traffico, da mia sorella, da mia madre. Ci farò un pensiero, se sopravvivo.
Ci sono anche un paio di casse di plastica dura, di quelle antitutto: ho sentito che di tanto in tanto paracadutano dei rifornimenti, delle armi nuove, dei bonus. Come nei videogiochi: fai punti a sufficienza, premi in arrivo.
Poi di colpo il senso di casa cambia.
Realizzo con colpevole ritardo che i panni stesi non sono candidi. Sono tagliati, spesso sporchi di sangue, di terra, di polvere.
Qualcosa dentro si agita e si contorce: non sono panni stesi, sono qualcosa di diverso. Sono camice, magliette, sono pantaloni infilzati, sono reggiseno e mutandine appese a bastoni e lasciate a garrire nella brezza calda. Ci sono persino scarpe e stivali, con calze e calzette, disposti dentro alcove della pietra, anfratti, dove la roccia è stata graffiata, incisa, con simboli da preistoria e scritte che confido di star leggendo male. Insulti. Formule. Ricordi.
Non sono panni stesi, sono trofei.
Sono i resti di quelle che prima di noi hanno fatto lo stesso percorso, legate e percosse, bastonate come capre. Sono i vestiti che coprivano corpi adesso sepolti nel ventre di una creatura di Illumina, o nella sua merda.
Corpi trucidati e dati in pasto alle belve.
Abiti sporchi, legati a corde e bastoni, si agitano nella brezza come fantasmi, si contorcono e frusciano in un modo che fa accapponare la pelle. Il sole batte e filtra su tessuti candidi, scuri, variopinti. Il sole sbianca e scolorisce la stoffa, morde il kevlar, siede su stivali di ottima fattura, accarezza scarpe da ginnastica ancora immacolate.
Per un attimo sembra quasi di vederle, qui e lì tra le rocce, le figure dissezionate, pallide, di quelle poveracce, quelle volontarie, quelle dementi che come me, come noi, hanno messo una firma su un foglio per venire quaggiù e morire in modo atroce.
Non c’è altra spiegazione: ho firmato per morire. Mi hanno chiesto Vuoi crepare? Ho firmato e risposto .
Pensavo di spaccare il mondo, Iraq, Afghanistan, pensavo di dare lezioni, pensavo, pensavo.
La mia tuta tattica infilzata su un bastone, ho firmato per questo. Gli stivali coperti di simboli e messi in un’alcova. Le mie mutande appese come una bandiera nel vento. Ho firmato per questo.
Immagini vivide e sanguinolente sulle retine.
Voglia di piangere.
Se torno a casa smetto, mai più un’arma in mano. Mai più avventura. Viaggio. Caos. Morte.
Il sentiero si allarga in uno spiazzetto costellato di guglie di pietra, di torrioni naturali: la stradina prosegue ma ci fermiamo.
Tolgono la corda dal collo, tagliano la fascetta.
Dio, la fascetta. Il momento in cui si spezza è orgasmo puro, è un brivido che sale dalle cosce e arriva fino al cervello. Sento di nuovo i polsi, le mani, le dita. Dura poco, ma è orgasmo, è amplesso.
In due mi prendono e sbattono contro uno dei pinnacoli, corda nuova, corda da lavoro, finisce per stringermi di nuovo i polsi, le gambe, e così per tutte le altre. Ci legano a piloni di pietra a caso, intorno, come nelle vignette del Far West, come gli indiani coi cowboy: quando ero piccola avevo messo una proprio così, contro una colonna a scuola, Polly, e l’avevo presa a schiaffi in faccia perché mi dava fastidio il suo nome. Puoi chiamarti Polly? Come i polli, le galline, lei era una gallina, tutta ben vestita, con gli occhialetti sottili. Glieli avevo tolti prima di prenderla a schiaffi.
Polly, puoi chiamarti Polly? La odiavo, ma solo per il suo nome. Mi dissero anni dopo che era un soprannome: si chiamava Susanna.
Spero che Polly mi stia guardando.
Mi strappano il bavaglio e di nuovo sale, per breve, un mezzo orgasmo. Stringo le labbra, le mascelle indolenzite, i denti che tornano a toccarsi, sopra con sotto, la lingua è secca. Il gusto del sudore resta. M’attraversa il pensiero che quel panno lurido sia solo un altro pezzo di stoffa appartenuto a una morta, che abbia respirato e succhiato il sudore d’un cadavere, e soprassiedo per evitare un conato, un assalto di stomaco. È tutto un enorme, colossale orrore.
Arriva dell’acqua e sembriamo cagne in calore, col respiro che accelera, la voglia di chiedere da bere e la paura di prendersi un pugno, una bastonata. Avessimo la coda scodinzoleremmo.
Potrebbero giocare con noi, sputare nell’acqua e noi la berremmo comunque, per la sete. Potrebbero darci del piscio, berremmo comunque. Invece sono delle signore, queste Erinni, e l’acqua ce la danno sul serio. Non è fresca, non è buona, ma è acqua.
Scende in gola come ambrosia, me la versano dall’alto, sbrodolo, tossisco, soffoco, non importa: bevo a sorsi grossolani, con un rivolo che mi sgocciola al lato della bocca, come una bambina, una cretina; Iraq, Afghanistan, lì bevevo da un thermos tattico, qui mi imboccano, manca solo il biberon. Voglio un biberon. Voglio tornare a essere una stronzetta di sette anni, una bulletta da scuola elementare. Ero figa a sette anni, e ancora di più a quindici. Il fidanzato di mia cugina mi toccava, era grosso e tatuato. Avevo paura di lui, parecchia, ma tornerei indietro, volentieri, tornerei indietro subito. Tutto purché lontano da qui.
L’acqua finisce.
Ne vorrei ancora, non oso chiedere.
Tossisco, sbrodolo. Una mano mi prende il mento, è la stessa bastarda con la collana d’orecchie, mi guarda come si guardano le dementi, le Elisabetta, e sorride. Le avrei sorriso anch’io, a Elisabetta.
“Mi occuperò di te, bionda.”
Sono sua, come Elisabetta era mia. Come Polly, anche Polly era mia.
“Ti farò ancora più bella.”
Ero bella a quindici anni; adesso pure, ma ho perso il sorriso. Lo diceva il fidanzato di mia cugina, qualche anno fa, ma senza più toccarmi: hai perso il sorriso, Silvì. L’hai perso proprio.
L’ho perso parecchio tempo fa, mia madre m’ha pure portato dal dottore.
Le è sparito il sorriso, vede le labbra qui? Son scesi gli angoli, sembra sempre incazzata. Non è mica la depressione? Su internet dicono che è depressione.
Ho gli angoli delle labbra che puntano in basso e gli occhi stretti. Sembro sempre incazzata. Non posso farci niente.
“Ancora più bella.”
Vorrei sfidarla, risponderle, farle vedere che non mi possono vincere: abbasso lo sguardo con l’acqua che finisce di ruscellare al lato della bocca.
Non sono in molte le Erinni, saranno sei, sette, perlomeno quelle che stanno con noi nel piccolo spiazzo; la mente viaggia facendo calcoli improbabili, contando le opportunità. Se una di noi si libera, se si toglie dalla vista, se trova un’arma da fuoco, sei colpi, sette colpi, se, se, se.
Quando il dolore si avvicina il cervello corre per salvarsi, anche quando salvezza non c’è.
Una delle stronze sta già tirando fuori strumenti e lame.
La vescica s’allarga di nuovo.
Guardo in alto, al cielo azzurrissimo che pure volge verso sera, e se c’è un Dio dovrà chiedermi scusa, perché ero qui per ammazzare, non per essere ammazzata. Ero qui per far impazzire il pubblico con finezze da Iraq e Afghanistan, non con la mia carcassa massacrata.
Se c’è un Dio spero che mi tolga la sensibilità. Ho sentito che esiste una malattia del genere, una che ti rende immune a qualsiasi sensazione fisica, dolore incluso.
Vorrei essere malata di quella cosa, qui, ora, adesso.
Rita, Candy, la suora: guardano tutte i ferri del mestiere con l’orrore negli occhi.
Siamo carne su un banco di mattatoio.
Se c’è un Dio vorrei che fosse vegetariano.
 
***
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Messaggio Da Petunia Gio Ago 19, 2021 8:07 am

Ciao  @Fante Scelto. Trovato l’inizio.
Ricomincio da capo… 👍
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Messaggio Da Petunia Sab Ago 21, 2021 7:04 pm

Crudo, intenso. Molto forte. L’atmosfera è declinata perfettamente. 
Mi sembra ottimo il fatto che tu introduca goccia a goccia frammenti del passato di Mercury. Aiutano molto a empatizzare. Ottimo anche Il fuori scena con i produttori del reality. 


Due piccole osservazioni.




È un signor culo, sagomato, chiuso dentro a dei pantaloni neri che sembrano starle incollati addosso. 
(frase simpatica e di effetto ma un po’ mascolina. Da donna (del genere Mercury direi: “sembra una gallina che porta a spasso il culo con quei pantaloni attillati etc.) 

hai perso il sorriso, SilvìL’hai perso proprio . 
Mi sono persa. Perché usi Silvì? Per ora l’hai chiamata Elisabetta e Mercury. Silvì da dove esce fuori? Non è neppure riconducibile a Elisabetta come diminutivo. Perché non Ely?
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Messaggio Da Fante Scelto Dom Ago 22, 2021 2:32 am

Petunia ha scritto:Crudo, intenso. Molto forte. L’atmosfera è declinata perfettamente. 
Mi sembra ottimo il fatto che tu introduca goccia a goccia frammenti del passato di Mercury. Aiutano molto a empatizzare. Ottimo anche Il fuori scena con i produttori del reality. 


Due piccole osservazioni.




È un signor culo, sagomato, chiuso dentro a dei pantaloni neri che sembrano starle incollati addosso. 
(frase simpatica e di effetto ma un po’ mascolina. Da donna (del genere Mercury direi: “sembra una gallina che porta a spasso il culo con quei pantaloni attillati etc.) 

Ottima chiamata, aggiusto.


hai perso il sorriso, SilvìL’hai perso proprio . 
Mi sono persa. Perché usi Silvì? Per ora l’hai chiamata Elisabetta e Mercury. Silvì da dove esce fuori? Non è neppure riconducibile a Elisabetta come diminutivo. Perché non Ely?

Nuuooo, Elisabetta è la poveraccia che Mercury bullizzava a scuola.
Il vero nome di Mercury è Silvia Irace.
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