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Messaggio Da tontonlino Gio Gen 28, 2021 7:05 pm

La Commandant Quéré aveva realizzato l’attraversata Marsiglia-Bastia in meno di dodici ore. Era ormai giorno. Appoggiata al bastingaggio della nave, Anghjula-Marì guardava a tribordo la macchia grigia bluastra dei primi rilievi del Capo Corso galleggiare all’orizzonte, mentre gli effluvi della sua cara macchia cominciavano ad allietarle le narici. Anghjula-Marì riusciva ora a distinguere lo scoglio della Giraglia e presto avrebbe visto sfilare Sisco, Erbalunga, Miomo, Pietranera, poi il porto di Bastia avrebbe aperto i suoi moli a una figlia di questa terra.

Sbarcò alle undici e dieci, con in mano una pesante borsa di pelle. Ciò nonostante, una volta risalita con passo deciso l’avenue du Maréchal Sebastiani, alle undici e quarantacinque si presentò alla biglietteria della stazione ferroviaria, dove sbuffava l’impaziente “trinichellu”. Il treno partì in orario. Lasciatosi dietro le ultime case della città e le stazioni di Biguglia e di Casamozza, s’inoltrò in piena campagna. Oltre il finestrino si succedevano cespugli, alberi e arbusti, in alcuni tratti così fitti da formare una galleria vegetale che sembrava da ostacolo all’avanzamento della “micheline”. A Barchetta, il treno si fermò, ma nessuno scese e nessuno salì. A Ponte Leccia uno salì, due scesero. Alle due, arrivò nella cittadina di Corte. Scesero e salirono vari passeggeri, per lo più turisti. Dopo Corte, il paesaggio era cambiato. Al posto della macchia, a destra e a sinistra, si ergevano dei maestosi pini larici. Quattro ore dopo la sua partenza, u trinichellu si librava sul ponte Eiffel. Nonostante fosse abituata ai grandiosi palazzi del continente, Anghjula-Marì non poté reprimere una leggera smorfia di terrore nel vedersi sospesa nel vuoto.
 
Poco dopo, raggiunse Vivario, dove nessuno l’aspettava. Riconobbe il campanile squadrato con le due campane, le case di pietra, alcune a due piani. Poi vide dei ragazzi giocare nella polvere di uno spiazzo sterrato davanti a una trattoria. All’arrivo di una dama di città, il viso di zia Pasqualina, affacciata alla finestra del primo piano, come soleva fare nei pomeriggi di gran caldo, s’illuminò. Anghjula-Marì posò la borsa a terra e fissò la parente. “Non mi riconosci?”
La zia Pasqualina si precipitò al pianterreno e uscì di corsa ad abbracciare la nipote. Era un’imponente signora che, a dispetto dei tempi e della calura, indossava caparbiamente il vestito tradizionale: faldetta, camicia di lino, imbustu, vestitu, gonna. “Hai mangiato? Come stanno i tuoi? Tu stai bene? Finalmente sei venuta da sola?” chiese asciugandosi le lacrime che le bagnavano le gote con il dorso della mano.
“No, non ho ancora mangiato nulla oggi. Mamma e papà stanno bene, ma hanno i loro dolori e hanno preferito rimanere a Marsiglia. Sarà per un’altra volta. Io sto bene, un po’ di tosse, ma sto bene. Un fastidio più che altro. E tu?”
“Sto bene, ma mi rimane solo la salute, che non è cosa da poco. Diciamo che gli affari non vanno come dovrebbero e che, se continua così, faccio la fine di Maria Felice Marchetti!”
“E cioè?” chiese la giovane donna.
“La signora Marchetti era quella della canzone U trenu di Bastia. Te la ricordi, no?”
“Chi? La signora Marchetti?”
“No, la canzone. La signora Marchetti era una come me. Aveva un’osteria in piagghja. Da quando era entrato in servizio il treno, davvero pochi erano diventati i viaggiatori che prendevano la diligenza e si fermavano nella sua locanda.”
“Non hai più clienti?”
“Sì, qualcuno viene, ma sono più che altro i soliti ubriaconi di paese. Solo raramente mangiano o mi chiedono un letto per la notte. Ma lasciamo i miei problemi a un’altra occasione. Entriamo in casa, che ti preparo qualcosa da mangiare! E dammi quella borsa!” La signora unì il gesto alla parola e afferrò la borsa della nipote. Per casa, la signora Pasqualina intendeva, ovviamente, la sua locanda, dove due clienti, nonostante l’afa di luglio, stavano seduti a un tavolino e consumavano l’ennesimo bicchiere di vino rosso. “È chiuso!” disse la zia Pasqualina rivolgendosi a questi ultimi. “Prendete la bottiglia e tornatevene a casa!” I due clienti, conoscendo il carattere esplosivo della locandiera, preferirono evitare le discussioni e uscire dall’osteria. “Fatti vedere, mia cara! Come sei bella! Come si dice in continente? Sei chic, ecco!” Anghjula-Marì aveva venticinque anni. I capelli e gli occhi neri le conferivano quel carattere severo delle donne corse appena attenuato dai colori sgargianti della gonna e dell’ampia camicia della moda del continente.
 
Le donne entrarono in cucina. La zia Pasqualina riempì un piatto fondo del minestrone che aveva appena preparato. Mentre la nipote, seduta al tavolo, lo stava mangiando a grandi cucchiaiate, aveva messo a friggere un’enorme bistecca in una padella.
 
Quella notte Anghjula-Marì aveva dormito nell’osteria, ma dopo un lungo sonno ristoratore e un’abbondante colazione a base di canistrelli e fiadone, mentre la zia battagliava con il menù del giorno, prese la borsa e si diresse verso l’abitazione della sua famiglia. Dalle finestre, i paesani la guardavano passare e, riconoscendola, le mandavano un saluto. “Ehi, Anghjula-Marì, cume stai? Mi fa piacè chi si venuta!” Alcuni scendevano per strada e andavano a stringerle la mano o ad abbracciarla.
 
Era la solita casa corsa a due piani, con delle scale esterne di pietra per raggiungere la porta d’ingresso. Quando aprì, la porta emise un tetro cigolio. Inutile accendere il contattore della luce: quando i suoi avevano deciso di trasferirsi in continente, avevano disdetto il contratto con il fornitore della corrente. L’interno era così come se lo ricordava, ma tutto coperto di polvere. Il tavolo di noce, intorno al quale la famiglia al completo mangiava, il caminetto nero di fuliggine, la vecchia credenza. Entrò nella sua stanza da letto. Aprì la finestra. Riconobbe l’armadio, dove riponeva i suoi vestitini, la sedia e il comodino. In un angolo, un paio di scarpe appartenute a suo fratello.
Lo sguardo della donna s’incupì. Cesare, si chiamava.
Aveva perso la vita in un agguato, in piena campagna, ucciso da una fucilata al petto. Lo avevano trovato la mattina seguente, riverso nel suo stesso sangue. Nessuna traccia dell’assassino, nessun indizio, o perlomeno queste furono le conclusioni della gendarmeria. “L’uomo che ha ucciso vostro figlio”, avevano detto ai genitori, “non ha lasciato tracce. È uno che sa il fatto suo e di cui nessuno mai sospetterebbe. Mi dispiace, signore e signora Gentili, ma per ora la nostra inchiesta si ferma qui. Non disperiamo però che un giorno quel criminale commetta un errore e si tradisca da solo. Non si sa mai nella vita. Tutto può accadere!”
Tutto poteva accadere ma, finora, nulla era accaduto.
 
II
Filippu Maroselli viveva in una casa bassa, in disparte rispetto al paese. Il tetto era coperto da vecchie lastre di losa ai cui bordi proliferava la muffa verde del tempo. Le mura, intonacate a chiazze da una malta rozza, composta per lo più di pietrisco e cemento, erano diventate, tra una pietra e l’altra, il rifugio di lucertole, gechi e ragni. Il mazzeru si alzò presto quella mattina. Accese la lampada a petrolio sul tavolo, indossò pantaloni, scarpe, camicia e gilet. Dalla piccola dispensa prese un bel bezzo di pane che avvolse in un ampio tovagliolo. Impugnò il suo bastone, spense la lampada e uscì nel buio. Percorse il sentiero che separava la sua abitazione da quella del vecchio Antò Vespucci, ancora più isolata e malandata della sua.  Bussò alla porta. Entrò.
“Allora, sei pronto?” gli chiese l’anziano signore.
“Sì, sono pronto” rispose Filippu.
“Sei andato a caccia questa notte?”
“No.”
“È una cosa buona. Neanche io. Così sappiamo che, almeno in questo periodo, nessuno morirà in paese.”
Poi, guardando il giovane mazzeru, aggiunse: “Che c’è? Ti vedo preoccupato.”
“Un po’ preoccupato lo sono di certo. È la prima volta che partecipo alle mandrache… L’anno scorso abbiamo perso Ghjisè e con lui la battaglia. Ci sono stati tanti morti in paese e, se non vinciamo neanche questa volta, ci saranno altri morti. Potrebbero morire delle persone care” disse il giovane mazzeru.
“Perciò devi essere forte e mettere da parte tutte le preoccupazioni” disse Antò Vespucci. “Dai, mettiamoci in strada ché le Bocche d’Oreccia non sono mica qui appena fuori paese!”
Uscirono. In tasca avevano un coltello bene affilato, in mano un bastone al quale ognuno aveva legato il panno che conteneva quel che sarebbe stato il loro unico pasto del giorno.
“Filippu, non credo che tu sia preoccupato soltanto per la battaglia. È da troppo tempo che ti prepari. Sei sicuro che non ci sia dell’altro?” chiese il vecchio.
“Sì, c’è dell’altro, ma non sono ancora certo di niente” confessò il giovane.
“Spiegati meglio!”
“Ieri è arrivata in paese Anghjula-Marì…”
“Anghjula-Marì di Ghjuanna e Marcu Gentili?” chiese stupito il vecchio mazzeru.
“Sì, Anghjula-Marì Gentili” confermò Filippu.
“Temi una vendetta?”
“Credo proprio di sì” rispose a bassa voce il giovane mazzeru.
 
III
Al posto dei bei vestiti con cui si era presentata in paese il giorno prima, Anghjula-Marì indossava ora quelli della madre, lasciati in un ampio comò al piano superiore. Una camicia bianca e una gonna marrone. Ai piedi, dei morbidi scarpini di cuoio. Prese una scopa e degli stracci e passò la mattinata a spolverare, prima il pianterreno poi il primo piano. Vicino alla stufa a legna c’era una brocca d'argilla. L’afferrò per un’ansa e uscì.
 
Nonostante la maggior parte delle abitazioni fosse già allacciata alla rete idrica, intorno alla fontana c’erano sempre delle comari con le loro brocche. La signora Elisa Raffalli, una vedova nota in paese per il puttachju (pettegolezzo) potente, soffocò in bocca la frase che aveva appena iniziato per esclamare: “Anghjula-Marì! Mia cara Anghjula-Marì! La mia migliore amica di quando eravamo piccole! Come stai?” Senza aspettare la risposta, chiese di nuovo: “Sei venuta sola? Non ci sono i tuoi genitori?”
Se quella puttachjona aveva formulato la domanda in quel modo, era perché sapeva benissimo che era venuta da sola. Tutti lo sapevano in paese, e tutti erano certi che Anghjula-Marì non avrebbe affidato a nessuno la vendetta per l’uccisione del fratello. Con la signora Raffalli, la cui brocca aveva appena finito di riempirsi, c’erano altre due donne che aspettavano il loro turno: la signora Francesca Poggi e la signora Paule Gilbert, che l’intero paese chiamava “a pinzuta” (la continentale) nonostante si fosse ormai completamente integrata e nulla, a parte il nome e il cognome, tradisse le sue origini continentali.
“Sì, sono sola. I miei genitori sono rimasti a Marsiglia. Non volevano più vedere i luoghi che gli hanno causato tanto dolore. Io ero piccola allora e ho dimenticato…”
Si può dimenticare la morte di un fratello? La signora Elisa non ne era proprio convinta e finse di credere alle spiegazioni della giovane donna.
“Sono venuta per me” proseguì Anghjula-Marì. “Ho dei problemi polmonari e il mio dottore mi ha consigliato di trascorrere qualche tempo in un luogo di montagna dove ci siano molti pini, come qui.”
“A dinta!”(Povera ragazza!) esclamo la “pinzuta”, che si era talmente bene integrata tra le donne di paese da rubare la battuta alla signora Elisa Raffalli.
 
IV
I due mazzeri stavano risalendo la valle del Vechju, lungo un fiumiciattolo che, nonostante non fosse stato risparmiato dall'estate, poteva ancora offrire ai viandanti le sue scarse acque fresche. Entro sera sarebbero arrivati alle Bocche d’Oreccia, un alto colle che separa le valli del Vechju e del Cruzinu. Su quelle aspre rocce avrebbe avuto luogo la battaglia contro i mazzeri di Pastricciola.
“L’anno scorso è toccato a loro, quest’anno a noi!” disse convinto Antò Vespucci.
“Perché non ci fermiamo a mangiare?” propose Filippu.
“Perché no?” acconsentì il vecchio mazzeru.
Divisero il pane e non lasciarono una briciola. Era importante per loro mettere qualcosa di nutriente nello stomaco: sarebbero stati più forti e avrebbero affrontato il nemico con maggiore energia. Niente di meglio del pane prima del combattimento. Ma dovevano anche essere riposati. La battaglia poteva durare delle ore, anche tutta la notte, e loro non si potevano permettere di lasciare nessun vantaggio ai mazzeri di Pastricciola. Scelsero un posto ben ombreggiato dai pini larici e si addormentarono.
 
Filippu aveva un fucile in mano, uno di quelli a canna lunga. Il cinghiale doveva necessariamente passare davanti a lui se voleva raggiungere la sua tana. Le tracce non mentivano: la bestia aveva attraversato il guado la mattina presto e, prima o poi, sarebbe tornata indietro. Bastava aspettare. Il sole stava calando, i contorni delle montagne diventavano meno nitidi, le ombre ricoprivano tutta la valle improvvisamente silenziosa. Filippu tese l’orecchio. Un fruscio di foglie. Forse una leggera ventata. Forse no. Un altro fruscio. Il giovane mise il fucile in spalla e aspettò. Sapeva che il cinghiale sarebbe tornato indietro, calcando le orme che aveva lasciato la stessa mattina. L’animale sbucò da un cespuglio. Era grosso, era forse il più grosso cinghiale che Filippu avesse mai visto. Le sue lunghe zanne erano promesse di morte. Filippu sparò. Tutta la valle fece eco. Qua e là, gli uccelli della foresta, spaventati dal rumore, presero il volo. Il giovane mazzeru non si fidava. Il cinghiale poteva fingere di essere morto e aspettare che l’uomo si avvicinasse per poterlo sventrare. Ci fu un secondo sparo. Questa volta il cacciatore si avvicinò alla sua preda. Vide le due ferite rosse da cui sgorgava un rivolo di sangue. Afferrò le zampe destre e rigirò l’animale. Il grugno della bestia si stava trasformando. Le zanne si ritraevano, il pelo ispido lasciava il posto a una pelle liscia, le fauci a una bocca umana. Riconobbe le sembianze di suo cugino.
A pochi passi il rumore di un ramo che si spezza. Istintivamente Filippu si nascose dietro un cespuglio. Altri rumori, sempre più vicini. Erano tre capre. Avevano gli occhi rossi e il loro sguardo era feroce, più ancora di quello del cinghiale che giaceva davanti a loro.
“Presto!” disse la prima capra arrivata sui luoghi. “Portiamolo via!”
“Che fretta c’è?" Chiese un’altra. “Ormai è morto!”
Filippu sapeva che si trattava degli spiriti che accompagnano le anime nel regno dei morti. Si fece il segno della croce e uscì allo scoperto.
Rivolgendosi alla prima capra: “Ha ragione il tuo compagno: che fretta c’è? Voi sapete che l’anima di questo povero uomo vi è destinata per l’eternità. Ormai il corpo è separato dall’anima e non c’è più nulla da fare ma vi supplico di non portarla subito via. Ha mogli e dei figli. Aspettate almeno i raccolti di settembre così che possa lasciare un po’ di denaro alla sua famiglia!”
“Questa volta non ci è permesso di concedere più di sette giorni. Sette giorni è il massimo che l’anima di quest’uomo possa ottenere!” rispose la capra.
“Sette giorni sono pochi! Dategli almeno un mese!”
“No! Al massimo sette giorni!”
“E sette giorni siano!” si rassegnò Filippu. Poi si svegliò di scatto.
Vicino a lui, il vecchio mazzeru.
“Ho sognato mio cugino…” disse Filippu.
 
V
Da quando era uscita a riempire la sua brocca alla fontana nessuno aveva più visto Anghjula-Marì. Le dirimpettaie spiavano ogni minimo movimento e rumore all’interno della sua abitazione. Niente. Forse dormiva. “Fa a siesta!” asserì comare Maddalena.
“A siesta? Secondo me quella non è in casa” ribatté comare Maria.
“Come, non è in casa? Ma se sono alla mia finestra da questa mattina! L’avrei vista!” contrattaccò comare Maddalena.
“Anch’io sono qui da questa mattina, ma queste giovani moderne ne sanno una più del diavolo. Può darsi che abbia aspettato una nostra distrazione per sgattaiolare dove le pare. Non mi stupirebbe affatto!” rincarò comare Marì.
Era il trentuno del mese di luglio, il quindicesimo anniversario della morte del fratello. Nel cielo azzurro passavano frettolosamente alcuni uccelli ignari degli strazi degli uomini, mentre un venticello fresco e l’ombra degli alti cipressi davano un po’ di tregua dalla calura estiva. Il cimitero era un’oasi di pace. C’erano delle tombe recenti. Una in particolare attrasse la sua attenzione. C’era scritto: Ghjisè Poggioli, nato il 23 dicembre 1924, deceduto il 31 luglio 1946. Un 31 luglio, come il fratello. Sulla tomba del fratello c’era scritto, invece: Cesare Gentili, nato il 2 settembre 1928, morto per mano assassina il 31 luglio 1949. Dolce sia la vendetta.
 
VI
 
I due mazzeri arrivarono alle Bocche d’Oreccia. Erano soli. Lo sguardo poteva ripercorrere la strada fatta finora. Su ogni lato della verde valle del Vechju, alte cime invalicabili. Alle loro spalle, la valle del Cruzinu da cui stavano arrivando i loro nemici. Ai piedi dei mazzeri, un fascio di asfodeli appena tagliati, le uniche armi consentite. Intorno a loro, il paesaggio era piuttosto spoglio. Dopo una breve perlustrazione, trovarono una fessura in una roccia dove aspettare i nemici.
Il sole era tramontato da un’ora. La luna nel cielo illuminava a malapena il campo di battaglia. Sentirono delle voci. Erano in due, come loro. Dalla fessura i mazzeri trattenevano il respiro. Li avrebbero colti di sorpresa, colpendoli per primi. Filippu guardava le sagome nere dei nemici come avrebbe guardato la morte se si fosse presentata davanti a lui. I mazzeri di Pastricciola si accovacciarono dietro una roccia e da lì non si mossero.
“Cosa facciamo?” chiese Filippu.
“Aggiriamo la roccia io da destra, tu da sinistra e li cogliamo di sorpresa. Mi raccomando, non fare rumore!”
Uscirono dalla fessura contemporaneamente e passarono uno a destra e l’altro a sinistra della roccia dietro la quale erano nascosti i mazzeri di Pastricciola. Finché non si trovarono a pochi passi dai loro nemici, non si accorsero di loro. Poi li sentirono sussurrare: “Dove credi che siano?” chiese il primo.
“Credo che siano nascosti qua intorno. Probabilmente ci hanno visti e cercano di sorprenderci. Se dai un’occhiata alla tua destra ne vedrai uno come io vedo quello che sta alla mia sinistra!”
Erano stati scoperti! I mazzeri di Pastricciola si erano velocemente alzati e brandivano i loro steli di asfodelo. Un colpo violento si abbatté sul collo di Filippu. Era come se avesse ricevuto una frustata. A sua volta cercò di colpire l’avversario ma la sua arma andò a vuoto. L’uomo che si trovava davanti a lui era piuttosto agile e aveva scansato il colpo. Tentò di colpirlo un’altra volta, e un’altra ancora. A ogni tentativo l’uomo faceva un passo di lato e riusciva a evitare l’arma nemica. Uno schiaffo d’asfodelo fece voltare la faccia di Filippu, che perse l’equilibrio e cadde a terra. Il suo avversario si precipitò su di lui e cominciò ad assestare dei colpi sulle braccia e sul petto finché non ricevette a sua volta una frustata sul viso. Era il vecchio Antò Vespucci che era venuto in suo soccorso. Filippu si rialzò e cominciò a colpire. Il suo nemico non sembrava ora così agile come prima. Si sentirono dei lamenti. Era l’avversario di Antò Vespucci. “Basta!” gridò al compagno. “Andiamoci a nascondere da qualche parte ché questi stanno avendo il sopravvento su di noi!”
In un attimo i due si voltarono e sparirono nel buio.
VII
Le comari Maddalena e Maria erano ancora appostate alle loro finestre quando scorsero la figura snella di Anghjula-Marì sbucare da una viuzza.
“Eccola!” esclamò comare Marì. “Hai visto che non era in casa?” aggiunse, trionfante.
“Si vede che è proprio furba, quella. Dovremmo stare più attente alle sue entrate e uscite. Chissà che non ne combini una grossa! Per che cosa credi che sia venuta in paese? Dice che è venuta qua per curare una tosse. Tu, l’hai mai sentita tossire?” Poi, vedendo che Angjiula-Marì era tanto vicina da poter sentire le loro conversazioni: “Bona sera, madamicella Anghjula-Marì! Cume state?”
La giovane donna alzò lo sguardo e non poté reprimere un’espressione di disapprovazione. “Grazie! Siete tanto gentili! Voi state bene?” chiese a sua volta facendo prova di tutta la diplomazia di cui era capace.
“Cume ste vecchjie!” rispose sorridendo comare Maria.
“He perché sii una vecchjia!” disse forte una voce maschile dall’interno. “Sempre a la finestra a puttachjià?” Era il marito della signora Marì, un uomo mite e sottomesso, ormai abituato alle abitudini della moglie, ma che ogni tanto, specialmente dopo il primo quarto di buon vino rosso, diceva la sua.
“Ma sta a sente st’imbriagone! Tu pensa a beje u to vinu che a me ci pensu eu!” ribatté inferocita comare Marì.
Anghjula-Marì entrò nella sua cucina e posò sul tavolo il cestino che la zia le aveva appena dato. C’erano delle patate, tre cipolle, due teste d’aglio, dei pomodori, alcune carote, dei fagiolini verdi e un bel cespo di bietola: l’occorrente per fare un minestrone. Mentre si preparava da mangiare, rifletteva. Ma queste due mi sorvegliano per caso? Ma come sono antipatiche le donne di finestra! Come dice il proverbio? Ah, sì: donne di finestra, donne disoneste! Ecco che cosa sono: delle disoneste. S’immaginano forse che io sia come loro e riceva in casa mia degli uomini? O temono che vada in giro a fare la mia inchiesta per sapere chi ha ucciso mio fratello? In tal caso, se dovessi fare la mia inchiesta, non si saprebbe comunque? Che bisogno c’è di spiarmi? Rimarranno deluse le mie care comari. Io, di inchieste, non ne farò. A nessuno chiederò mai se ha qualche sospetto su chi potrebbe avere ucciso mio fratello. Io so già chi è stato.
 
VIII
La luna stava per tramontare a sua volta. Era impossibile vedere a più di tre passi.
“Ci dobbiamo inventare qualcosa se vogliamo vincere!” disse Filippu.
“Questi sono furbi, ma non quanto credono. Tra poco non si vedrà più nulla. Vieni con me! Dobbiamo fare presto!”
Il vecchio seguiva un sentiero che si snodava tra gli ammassi di roccia, scendeva precipitosamente per poi risalire fino a una parte del colle già immersa nel buio più denso.
“Ora, tu stammi a sentire. Quando la luna sarà completamente tramontata dobbiamo parlare tra di noi, come in una normale conversazione. Non troppo forte, perché quelli non devono sospettare di nulla” disse il vecchio mazzeru.
“Che intenzioni hai?” chiese Filippu.
“Più o meno ho capito dove si sono nascosti. Non so se ci hai fatto caso ma i nostri nemici sono giovani e forse non conoscono le Bocche come le conosco io. Davanti a loro c’è un burrone che probabilmente non hanno visto. Noi siamo sull’altro lato. Se riusciamo ad attirarli nella nostra direzione c’è la possibilità che vi finiscano dentro."
Un’ora più tardi era buio pesto. Antò Vespucci prese un ramo secco che spuntava da un cespuglio vicino e lo spezzò. “Stai attento a dove metti i piedi!” disse ad alta voce. “Vuoi che ci facciamo scoprire?”
“Non l’ho fatto apposta!” rispose Filippu. “Ad ogni modo credo che quei due si siano dati alla fuga, tanto ne hanno buscate!”
“Li fai così codardi?” chiese il vecchio.
“Secondo me hanno capito la lezione e se la sono data a gambe levate” disse sarcastico il giovane mazzeru.
“La prudenza non è mai troppa!” sentenziò il vecchio. “Ne so qualcosa…”
“Sì, ma devi credere a me: a quest’ora, con quel poco che si vede, questi o si sono rintanati da qualche parte come dei conigli o sono già sulla strada di casa.”
All’improvviso si sentì un urlo e un tonfo. Uno dei mazzeri avversari era caduto nella trappola. “Matteo! Matteo! Dove sei?”
“Aaaah! Aaaah!” si sentì dal fondo del burrone. “Mi sono rotto una gamba! Mi fa tanto male! André, cerca un sentiero e vienimi a cercare! Ormai la battaglia è persa.” Poi, rivolgendosi agli avversari, gridò: “Avete sentito? Avete vinto voi! Quest’anno toccherà a noi sopportare lo strazio dei seppellimenti, ma giuro su Iddio onnipotente che l’anno prossimo non andrà così! No, non andrà così! Vi pentirete di tutti i lutti di cui sarete causa!”
 
I mazzeri di Vivario avevano vinto la loro battaglia. Il loro paese non avrebbe avuto le morti dell’anno che era appena finito. Il vecchio mazzeru aveva perso una sorella più giovane di lui, morta di polmonite, e un cugino di primo grado. Filippu, aveva pianto la nonna e uno zio. La nonna era deceduta naturalmente, di vecchiaia come si suol dire, lo zio nell’alto Niolu in uno scontro con i gendarmi. Era un bandito d’onore e aveva passato la maggior parte della sua vita nella macchia. Recentemente si era presentato in paese con tre compagni di sventura, tutti armati di fucile. Ogni tanto, con le dovute precauzioni, veniva, di notte, a salutare i parenti. Festeggiava silenziosamente con una buona bottiglia di vino e un pasto come si deve. E sicuramente dormiva in un letto più morbido di quello del suo nascondiglio.
Ci sarebbero stati meno morti, ma uno era sicuro.
 
IX
Anghjula-Marì si stava apprestando a scendere al fiume a lavare i panni. Nonostante fosse stata molto mattiniera, c’era gente in giro per il paese. Persino quelle due puttachjione dirimpettaie avevano preso servizio! Avrebbe giurato che l’intera comunità femminile del paese la stesse sorvegliando. Due alla finestra, anzi tre con comare Brigitta, una seduta davanti al suo negozio chiuso, un’altra all’angolo della via.
Aveva portato con sé una bacinella d’alluminio nella quale aveva ammucchiato la sua roba e un panetto di sapone di Marsiglia. In riva al fiume non c’era nessuno, per fortuna, ma non appena ebbe immerso il primo lenzuolo nelle acque fresche, ecco arrivare la sua cara amica d’infanzia, Elisa Raffalli.
“Anche tu a lavare i panni?”
“Eh, sì! Ci vuole ogni tanto. È più comodo qui che in casa!” rispose Anghjula-Marì.
“Allora, come ti trovi in paese? Bene?”
“Bene, bene!”
“Hai saputo che la figlioletta di Eugenia Venturi si è ammalata?” chiese la puttachjiona.
“Eugenia Ventura, la figlia di Orsu Venturi? Che cos’ha la bambina?”
“Non si sa! Ed è questo il punto. Neanche il dottore ci ha capito niente. È un mistero” disse Elisa Raffalli. “Sappiamo solo che si è ammalata il giorno che sei arrivata tu!”
“Che c’entro io? Piuttosto, siete sicuri che quello è un buon medico?” chiese Anghjula-Marì.
“Certo che è un buon medico! Che dici? Ha curato tutta la mia famiglia quando abbiamo avuto bisogno di lui. Da sempre!” rispose indignata la signora Raffalli.
“Quanti anni ha?”
“Che cosa vuoi insinuare? Che è troppo vecchio e che ci sono delle nuove malattie? Sta a sentire: in paese c’è una strega che va in giro di notte a succhiare il sangue di quella povera creatura. Ecco che cos’ha la bambina!”
“Una strega? Ma no! Non è possibile! Ma come le pensate queste cose!” replicò Anghjula-Marì.
“Una strega! E abbiamo anche un’idea di chi sia! Un giorno o l’altro dovrà aspettarsi una brutta sorpresa!” disse Elisa Raffalli strizzando con forza il lenzuolo che aveva appena risciacquato.
Anghjula-Marì non osò ribattere che queste cose fanno ormai parte del passato e che la medicina moderna ha fatto dei passi da gigante ultimamente, ma preferì sviare la conversazione e parlare di argomenti meno gravosi, come del caldo e della pericolosità dei fiumi in piena estate.
Col passare dei minuti le due donne furono raggiunte da altre e la conversazione si disperse in un chiacchierio collettivo.
Una volta lavati, risciacquati e strizzati, i panni furono a mano a mano reintrodotti nella loro bacinella d’alluminio. Anghjiula-Marì sollevò il suo fardello con le due mani, lo adagiò bene in equilibrio sulla sua testa e con la perizia di un funambulo si avviò verso casa.
 
X
Alle tre del pomeriggio, sotto un sole rovente e un cielo senza nuvole, i due mazzeri rientravano in paese.
“O jente, so ghjunti i mazzeri!” gridò Carlu-Petru Falchetti sul suo carretto. “Venite!”
In men che non si dica i due mazzeri furono circondati da una folla di paesani che li pressavano di domande.
“Allora? Li avete battuti questa volta? Hanno avuto la loro lezione?”
“Sì, l’hanno avuta!” rispose Filippu.
“E se la ricorderanno a lungo!” aggiunse Antò Vespucci.
“Andiamo a bere qualcosa!” propose Carlu-Petru Falchetti che nel frattempo era sceso dal carretto e raggiunto i mazzeri.
“Non vi pare che prima dobbiamo risolvere una questione?” Il tono della voce era aspro e più che una domanda era un ordine. Era Elisa Raffalli, che appena arrivata sembrava volere prendere le redini della situazione. “È vero che i nostri mazzeri hanno vinto la battaglia e, se avremo meno morti quest’anno, non significa che non morirà nessuno.  Vi ricordate di chi è venuto in paese ultimamente? E della figlia di Eugenia Venturi? Dobbiamo agire al più presto!”
“Mi scuserete,” disse il giovane mazzeru “ma non posso rimanere a festeggiare con voi. Ha ragione la signora Raffalli. Ci sono delle questioni più urgenti da risolvere.” Si fece largo tra la piccola folla, fece un gesto di saluto e sparì in una viuzza. Poco dopo bussò alla porta del cugino, Pedru Anziani. Quest’ultimo aprì.
“È andata bene?” chiese.
“Abbiamo vinto!” rispose Filippu.
“Meno male! Basta con questi morti! Quest’anno si spera di non seppellire nessuno!”
“Speriamo! Ma tu sai chi c’è in paese?” chiese Filippu.
“Sì, che lo so!” rispose il cugino.
“E te ne stai beato e tranquillo?”
“Perché no? Mica lo sa, lei, che sono stato io a uccidere il fratello, anche se è stato un incidente” disse.
“Non ne sarei così sicuro. Si mormora che sia una strega, in paese, e prima o poi le streghe le cose le vengono a sapere. Non mi stupirebbe che, in qualche modo, sia venuta a sapere del nostro segreto” obiettò Filippu.
“Non ti preoccupare per me, caro cugino. Mi so difendere. Un bicchiere di vino?”
“No, grazie. Come ricevuto. Ora torno a casa…” rispose il giovane mazzeru. Dopo di che salutò e se ne andò.
 
XI
“Milla!” (eccola!) esclamò ad alta voce dalla sua finestra comare Maria.
“Milla chi?” chiese una voce maschile dall’interno.
“Tu stai buono e pensa a riempirti il bicchiere!” rispose con disprezzo la donna di finestra.
Anghjula-Marì se ne stava tornando a casa dopo un pomeriggio passato con la zia. Erano andate in giro per gli orti vicini a comprare qui un chilo di carote, là una bella insalata o dei pomodori. Avevano persino cucinato assieme. Fu sorpresa nel sentire la sua vicina di casa gridare dalla finestra ma fu ancora più sorpresa nel vedersi improvvisamente circondata da una trentina di uomini e donne. Formavano un cerchio minaccioso che si restringeva rapidamente, fino a quando non si sentì afferrare le braccia e fu immobilizzata.
“Legatela a quell’anello!” ordinò Elisa Raffalli. Aveva il fuoco negli occhi e una voce rauca, come se avesse gridato per ore. Aspettò che Anghjula-Marì fosse legata all’anello che sporgeva dal muro e che normalmente serve a legare le briglie dei cavalli, degli asini o dei muli, poi si avvicinò alla giovane donna, che ancora stentava a capire che cosa le stesse succedendo, e le urlò in pieno viso: “SEI UNA STREGA E NOI SAPPIAMO COME TRATTARE LE STREGHE!”
“MA SIETE TUTTI PAZZI! NON PUÒ SUCCEDERE UNA COSA DEL GENERE! CHE COSA AVETE TUTTI CONTRO DI ME?” Anghjula-Marì urlava, sperando che qualcuno le venisse in aiuto. La zia, forse, ma la zia stava lontano da casa sua ed era impossibile che la sentisse.
All’improvviso apparve in tutti i suoi paramenti l’Abbée Petrucci, il parroco del paese. Aveva in una mano una croce di legno e nell’altra un aspersorio. Avanzava lentamente, tendendo il braccio con la croce davanti a lui e pronto a irrorare di acqua benedetta questa povera creatura posseduta dal demonio.
“PAZZI! SIETE TUTTI DEI PAZZI! DEI PAZZI! IO NON SONO UNA STREGA! VOI SIETE IL MALE, NON IO!” gridava disperata la povera donna.
“Faccia il suo dovere, sciò curatu!” ingiunse la Raffalli, che aveva piantato lo sguardo nel cielo, come se da esso, da un momento all’altro, potesse sopraggiungere una schiera di angeli di Dio.
Il parroco appoggiò la croce contro il viso di Anghjula-Marì e cominciò ad aspergerla di acqua benedetta.
“In nome del padre, del figlio e dello spirito santo. Ora ripeti con me le sette preghiere!” disse concitato.
“Quali preghiere?” chiese stupita la donna.
“Dio Onnipotente, Eterno Creatore e Conservatore degli Esseri Tutti, ecco che noi Ti preghiamo e Ti supplichiamo per tutti gli Spiriti! RIPETI!”
“RIPETI!” urlò a sua volta Elisa Raffalli come estasiata da quanto solo lei vedeva nella volta celeste.
“Io non ripeto queste sciocchezze!” si difese Anghjula-Marì.
“CHE COS’È QUESTA STORIA? PERCHÉ LA MIA NIPOTE È STATA LEGATA AL MURO COME UN ANIMALE? LIBERATELA IMMEDIATAMENTE!” Era la zia Pasqualina. Accortasi che la nipote si era dimenticata di portare con sé i fagioli secchi da mettere a mollo, era uscita in fretta e in furia per raggiungerla. Sentendo le urla, aveva accelerato il passo finché non le si era offerto davanti il deplorevole spettacolo dell'esorcismo. Come accennò ad avvicinarsi alla nipote per fare lei stessa quanto aveva ordinato, cinque compaesani le sbarrarono il passo.
"No!" disse Elisa Raffalli, che aveva smesso di spiare il firmamento per fissare la nuova arrivata negli occhi.  "Sua nipote deve essere esorcizzata!"
"Se ti prendo ti esorcizzo io, con queste mani!" minacciò la zia.
"Tenetela!" ordinò di nuovo la Raffalli. Due uomini afferrarono le braccia della donna .
"Tu stai attenta a non incrociare la mia strada, che ti strippo e mi mangio le tue budella!" riprese la zia.
"Ne saresti capacissima e non mi stupirebbe se fossi una strega pure tu!" commentò sarcastica la Raffalli. “Abbée Petrucci, riprenda l’esorcismo!” aggiunse continuando a fissare la zia Pasqualina e mentre quest’ultima minacciava e inutilmente si dibatteva.
“In nome del padre, del figlio e dello spirito…” riuscì appena a proferire l’uomo di chiesa.
“LASCIATELA ANDARE!” urlò qualcuno dall’angolo della via. Tutti si voltarono. Era Filippu, u mazzeru. “Lasciatela andare! Lei non è una strega!”
“… santo!” continuò prete abbassando la croce.
“E come le sai queste cose?” chiese con aria di sfida Elisa Raffalli.
“Non ne posso essere certo, nonostante io sia mazzeru!” disse Filippu. “Ma pure voi avreste dovuto capire che la vista della croce e l’acquasanta sono causa di dolore e orrore per i demoni. Vi risulta che questa donna abbia urlato di dolore e manifestato timore vedendo la croce? Liberatela! Lei non può essere una strega.”
“E se la bambina morisse?” replicò Elisa Raffalli.
“Non morirà!” disse Filippu sapendo che questa sua affermazione sarebbe bastata. Mentre stavano slegando Anghjula-Marì Filippu si avvicinò alla giovane donna. “Devi promettere una cosa. So quanto avete sofferto per la morte di tuo fratello. Ero ancora bambino, ma io stesso ne ho pianto, talmente ero affezionato a lui. Ma ha pianto anche un’altra persona, una persona di cui non posso rivelare il nome, ma che da allora non cessa di pensare a quel terribile incidente. Di questo si tratta, di un incidente. Il colpo è partito da solo… Non è stato un agguato, come hanno detto i gendarmi” disse Filippu.
“Sei stato tu?” chiese un certo Carlu Andreani il cui passatempo preferito consisteva nel fare delle congetture sui vari delitti della regione.
“No, non è stato lui!” disse Anghjula-Marì. “Sappiamo chi è stato, e da molto tempo” disse Anghjula-Marì. "È successo una mattina presto. Mia madre era andata in chiesa a pregare per l’anima di mio fratello proprio sotto la statua della Madonna, dietro il confessionale. A un certo punto entra un uomo, che va diritto nel confessionale. Poi arriva l’abbée Petrucci. Mia madre se ne stava per andare, perché non si ascoltano le confessioni degli altri, ma quando sentì il nome di mio fratello, il nostro amato Cesare, si raggelò e rimase a sentire tutta la confessione. È così che abbiamo appreso dell’incidente e che abbiamo rinunciato a ogni vendetta. C’è già stato troppo sangue in paese, inutile versarne altro. Non sono venuta per vendicarmi. In realtà vi ho mentito. Non ho problemi di salute. Non sono venuta in paese per curare la tosse. Sono qui per sostituire la lapide che da troppo tempo fa ombra alla memoria di mio fratello. Nessuna vendetta è dolce se è ingiusta.”
Sentendo queste parole di Anghjula-Marì un brivido percorse i presenti. La zia Pasqualina si sbarazzò della presa degli uomini che la stavano immobilizzando e, con il dorso delle mani, asciugò le lacrime che affluivano abbondanti agli occhi. Dalla sua postazione comare Marì scoppiò in un pianto che si può solo definire “asinino”. La piccola folla si pressò contro la giovane donna che aveva aperto a tutto il paese gli occhi del perdono.
 
XII
Una settimana dopo, Anghjula-Marì si ritrovava ancora appoggiata al bastingaggio del Commandant Quéré. A babordo, questa volta. La città di Bastia era ormai un punto lontano, Miomo era sparita dietro quelle rocce, Erbalunga offriva lo spettacolo della sua torre Genovese. Tra poco sarebbe apparso Sisco, poi la Giraglia.
“Addio, Corsica. Ti ho amata!” disse Anghjula-Marì.
 
Alcune ore prima, quando ancora il paese di Vivario era immerso nel buio, Elisa Raffalli si era svegliata. I suoi occhi erano più rossi che mai. Si era alzata, ed era uscita di casa. Camminava nelle vie oscure, attenta a non fare il minimo rumore, come potrebbe camminare un ladro in casa d’altri. Si fermò davanti casa di Eugenia venturi. Si avvicinò alla porta come per aprirla, poi vi rinunciò. “La bambina ha poco sangue. Meglio lasciarla stare. So dove è abbondante” mormorò.
Tornò nella via, voltò a destra, attraversò la piazza e si trovò davanti alla casa di Pedru Anziani, il cugino del mazzeru. La porta non era chiusa a chiave.


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Messaggio Da Ospite Dom Feb 07, 2021 12:00 am

Magnifico, uno dei racconti più belli e ben scritti che ho letto da quando sono su questo forum. Ha tutto: una trama studiata e radicata nella terra natia, due storie (e mezza) che si intrecciano splendidamente e si completano l'una nell'altra, elementi della tradizione che arrichiscono una narrazione molto descrittiva e immersiva (forse pure troppo all'inizio: tutti quegli orari e i sali e scendi dei passeggeri erano davvero noiosi da leggere). Ecco, forse, quest'ultimo punto di forza  è anche un punto di debolezza, poichè se non si fa una ricerca su Wikipedia (di questi tempi, però, è cosa da rapida da farsi) si rischia di non poter godere appieno della meraviglia che è questo racconto perché manca la conoscenza  delle basi su cui esso si fonda. In ogni caso, comunque, vivissimi complimenti.

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Messaggio Da Petunia Gio Feb 11, 2021 7:19 pm

Questo splendido racconto necessita di più di una lettura tanto è ricco di informazioni e stimolante per i contenuti. Non conoscevo affatto cosa significasse il mazzerismo e chi fosse un mazzeru. Avendo imparato un po’ a conoscerti ero certa che il tuo scritto avesse radici di conoscenza storica approfondita e dunque prima mi sono goduta la lettura e l’atmosfera che hai saputo così ben rappresentare, poi mi sono informata e ho riletto con maggior possibilità di comprendere il testo. Credo che lo leggerò di nuovo perché sono convinta che ci siano altri dettagli che mi sono sfuggiti.
Leggendo le tue storie non si ha mai la sensazione di spendere male il proprio tempo. Se ne esce comunque arricchiti e questa è una qualità che apprezzo enormemente e che nel mio piccolo cerco sempre di portare anche nelle mie storie. Non posso che rinnovarti i complimenti nell’attesa di leggerti ancora.

Ti segnalo questa frase:” Devi promettere una cosa. So quanto avete sofferto per la morte di tuo fratello.”  

Quell’avetw va bene se è rivolto alla famiglia, ma se l’intento è quello di dare del “voi” allora quel “tuo fratello” stona un po’.

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Messaggio Da tontonlino Ven Feb 12, 2021 11:34 pm

Grazie di essere passati da queste parti. In effetti, il racconto non è facilmente leggibile se ci si approccia al mazzerismo per la prima volta. È un suo limite. Diciamo che rispecchia il mio interesse personale per la Corsica, dove ho trascorso i primi anni della mia vita.
Kalliste, la più bella, come viene chiamata la Corsica, offre diversi punti di riflessione in campo etnologico e in quello culturale in genere. 
Tornando ai nostri mazzeri mi sono stati di enorme utilità gli autori seguenti: Edith Southwell, Dorothy Carrington e Roccu Multedo. Anche Internet, ovviamente, mi è stato di grande aiuto.
Per il presente racconto avevo come punto di riferimento "Colomba" di Prosper Mérimée dove Orso Antò della Rebbia deve vendicare col sangue la morte di un parente. Contrariamente alla novella di Mérimée, in Ritorno in paese non c'è desiderio di vendetta. I compaesani della protagonista sembrano più temerla che desiderarla e c'è forse più voglia di vita che di morte.
Rinuncio comunque ad analizzare il mio racconto perché credo che l'autore sia sempre il peggior giudice di se stesso e lascio al lettore il compito il migliorarlo.

@Petunia: sì, mi riferivo alla famiglia.
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