- Spoiler:
- Rivisto e tolto incipit ed excipit per rispetto ai grandi autori
Nel piccolo villaggio africano le capanne erano tutte uguali: fatte di paglia e fango. In una di esse viveva Nyah con il padre Simba e il piccolo Khamisi di sette anni.
Un tempo, lì dentro, c’erano tante voci che riscaldavano il cuore, poi l’anziana madre era morta, il marito di Nyah e i due figli grandi erano partiti a cercare fortuna in Europa e da molto tempo non davano notizie.
La vita della donna consisteva soprattutto nella cura dell’orto dietro l’abitazione, ne ricavava prodotti che vendeva periodicamente al mercato, aiutata dal figlio che la seguiva tutto il giorno; era la sua ombra, lo specchio nel quale si rifletteva il lago dei suoi occhi neri.
Era la stagione delle piogge, il vecchio Simba, nonostante l’età, lavorava in un campo di riso, poco lontano dal villaggio, guadagnando pochi scellini che costituivano il suo contributo all’economia del nucleo familiare.
Un giorno una febbre violenta lo costrinse a rimanere a casa. Disteso sulla stuoia, gli occhi lucidi fissi al soffitto, l’uomo si sentiva avvolto da braci roventi, ma appena il malessere gli diede tregua provò ad alzarsi.
— Devo andare al lavoro — biascicò barcollando.
La figlia lo costrinse a rimettersi a letto. Lo accudì dandogli da bere decotti medicamentosi e gli bagnò la fronte, continuamente, con pezzuole umide per far scendere la temperatura.
Quando fu certa che il vecchio stesse meglio gli si avvicinò e accarezzando la barba bianca e ispida gli disse:
— Padre, non avere timore, ci penso io alla famiglia!
Indossò i suoi kanga colorati, uno come gonna, l’altro avvolto intorno al busto e, spingendo un carretto carico di frutta e verdura, insieme a Khamisi si avviò al mercato.
I piedi nudi, ormai incalliti, sollevavano la polvere dalle strade sterrate e piccole nuvole grigiastre seguivano le ruote traballanti del carro.
Il mercato era un brulicare di donne, con le loro vesti macchiate di colori, si aggiravano attorno ai banchi, inebriandosi dei profumi e degli aromi diffusi nell’aria. Molte portavano in testa le ceste per la spesa e i figlioletti, avvolti in ampi fazzoletti, erano legati sulla schiena; madri e figli, avviluppati nella stessa veste, diventavano così una cosa sola.
Khamisi si diede da fare e sistemò le cassette contenenti mango, banane verdi e papaya da una parte e quelle con patate e cipolle e pili pili dall’altra; erano i prodotti del loro orto… tutto quello che avevano.
Nyah cominciò a contrattare abilmente con gli acquirenti. Era molto brava nel negoziare, specie con qualche bianco che capitava da quelle parti.
Una donna giovane, bionda, in jeans e maglietta si avvicinò al loro banco, dopo aver scelto della frutta tentò di risparmiare alcuni scellini, esprimendosi nella lingua locale in maniera corretta. Kamisi la guardava di sottecchi sapendo che con sua madre non l’avrebbe spuntata. La cliente, infatti, ottenne alla fine solo un minimo sconto e un grande sorriso.
Prima di andar via si avvicinò al bambino. Il piccolo sentì il profumo leggero che emanavano quei capelli dorati che parevano diffondere intorno raggi di sole.
— Tu, dovresti avere l’età giusta per cominciare la scuola. Conosci il nuovo edificio che è stato costruito al villaggio, vero? Io sono una maestra. Ti aspetto, mi raccomando…
Il ragazzino abbassò la testa, allora la donna cercò lo sguardo di sua madre.
— Lo manderai vero? È proprio qui, alle spalle del mercato.
Nyah disse una parola sola: — Vedremo.
Lo sciamare delle donne cominciò a diminuire e anche la roba ammucchiata sui banchi del mercato.
— Mamma, che prepari di buono per il pranzo?
— Non ho ancora deciso — rispose lei con aria furbetta.
Finita la loro mercanzia, soddisfatta del guadagno, andò a comprare la farina di mais che le mancava per preparare l’ugali con le verdure per il pranzo, piatto che a suo figlio piaceva molto.
La capanna dove abitavano era distante, ma madre e figlio camminavano spediti. Le gambe lunghe e agili, i muscoli tonici, non risentivano della fatica e gli occhi neri come la notte avevano un luccichio che pareva racchiudere gelosamente qualcosa di prezioso.
Arrivati alla capanna trovarono il vecchio Simba delirante. La febbre era tornata con più veemenza, doveva essere molto alta, l’uomo sudava copiosamente ed era travolto da brividi che scuotevano tutto il corpo. Occorreva subito cercare un medico.
Khamisi si offrì di andare, pur di rendersi utile, ma sua madre si oppose.
— Vado io all’ospedale di Nyololo, tu resta accanto a tuo nonno.
La sua decisione sebbene espressa con molta calma non ammetteva repliche, il tempo di bere un sorso d’acqua e Nyah era già in cammino.
Correva tra sassi e arbusti come una gazzella braccata, il suo respiro le faceva compagnia.
Presto, doveva fare presto, il sole non avrebbe tardato a tramontare.
Un colore acceso rosso-arancione invase il cielo azzurro. La costruzione bianca, adibita a casa della salute, appariva in lontananza sulla collina. Il fazzoletto che aveva in testa e quello sui fianchi sventolavano come bandiere, seguendo il ritmo della sua falcata.
“Oh Signore, fa non venga buio subito” pregò, rivolgendosi al suo dio.
Sapeva bene che il sole spariva molto presto da quelle parti, lasciando il posto al buio fitto; un solo colore, rimaneva, il nero che pareva inghiottire uomini e cose.
“Devo solo raggiunge la collina. Lì c’ è la luce dell’ospedale” si diceva.
Perdere l’orientamento al buio era facile e lei non era mai uscita di notte. Nel silenzio le giungevano le voci degli animali con i loro versi striduli, rapaci. Brividi s’affacciavano impudenti, la paura era un nemico insidioso che stava per aggredirla.
Prima che il sole tramontasse aveva memorizzato il tragitto che le rimaneva da percorrere. Doveva fare affidamento sulla sua memoria e sul suo istinto.
Nella capanna Khamisi bagnava la fronte di suo nonno.
Il vecchio parlava senza sosta e sulle prime il ragazzo non aveva dato peso alle sue parole, poi rapito da quello che stava raccontando aveva cominciato ad ascoltare.
— Vedi figliolo, devi stare all’erta! La foresta di notte è luogo di caccia. Lontano dalle capanne, il mondo è tutto loro… gli elefanti s’incamminano in cerca di acqua e di cibo e lo stesso fanno i leoni. Annusano la preda da lontano e poi quando è il momento la ghermiscono con un balzo, proprio quando non se l’aspetta. Il segreto della caccia è tutto lì: agire di sorpresa.
Una volta da giovane andai a caccia con gli uomini del villaggio. Io ero intraprendente e spericolato, proprio come te e mi allontanai dal gruppo per seguire un’antilope. Avevo sopra una spalla l’arco con le frecce, come mi era stato insegnato ne avevo avvelenato la punta con la linfa della rosa del deserto, al fianco brillava un grosso coltello da caccia, regalo di mio nonno; mi sentivo potente.
Correvo cercando riparo dietro gli alberi, la preda che avevo scelto era agile e s’infrattava nei cespugli per riprendere poi la corsa, doveva però essere giovane e non molto esperta, non impiegai molto tempo a raggiungerla. Era ormai a tiro, tesi il mio arco. Era mia, stavo per trafiggerla, ma a un tratto uno strano ansimare, alle mie spalle, mi fece voltare.
Un leone magnifico con la fulva criniera al vento era lì e mi guardava.
Era su un’altura poco distante, dietro di lui il branco, in ascolto, aspettava trepidante scrutando ogni sua mossa.
“Sono morto” pensai, fissandolo negli occhi a mia volta. Ero diventato di pietra.
L’animale spalancò le fauci emettendo un sonoro ruggito. Poi si dileguò nella direzione verso la quale era sparita l’antilope, il branco seguì le sue orme sollevando una nuvola di polvere. Non ero io la loro preda.
Rimasi immobile nella stessa posizione per lunghi minuti, quando gli altri mi raggiunsero non dissi nulla della mia avventura, non mi avrebbero creduto.
— Cerca di riposare un po’, sei stanco, nonno!
— Ma tu, tu mi credi vero?
— Certo! Io ti credo.
In realtà il ragazzo non sapeva se credere o meno alla storia che il vecchio gli aveva raccontato, sembrava un sogno, ma una cosa gli parve chiara: il più forte trovava sempre il modo di decidere. Forse però la sola forza fisica non bastava. Aveva notato che i bambini che frequentavano la scuola riuscivano ad avere più capacità nel gruppo. Forse studiare poteva dare una forza nuova a quelli come lui.
Il rumore di un’auto lo riscosse dai suoi pensieri. Era arrivato il medico con sua madre.
Il dottore visitò il vecchio e non ebbe dubbi sulla malattia che aveva colpito Simba: si trattava di malaria. Lasciò i farmaci necessari alla donna e andò via.
Nyah aiutò suo padre a togliere i laceri vestiti zuppi di sudore e a indossarne di puliti e asciutti. Il pallore del vecchio era accentuato dal bianco dei capelli e della barba. Gli occhi neri erano lucidi e guardando la figlia sorridevano e lei sapeva cos’era quella luce che illuminava teneramente il suo vecchio padre: era l’amore che li faceva splendere.
La febbre durò alcuni giorni. Nyah andava da sola al mercato e il ragazzo rimaneva accanto al nonno ancora febbricitante, che dormiva spesso, parlava e mangiava poco.
Una mattina Simba si svegliò e disse di avere fame.
— Sei guarito finalmente — mormorò Khamisi, passandosi una mano tra i riccioli neri.
— Nonno, ti ricordi dei racconti che mi hai fatto mentre eri malato?
— Che racconti? Non ricordo niente, accidenti! E poi qui c’è poco da raccontare, devo rimettermi in forze e lavorare.
— Voglio essere grande e forte come un leone, così tu potrai riposarti.
Il vecchio lo guardò: — Tu? E come pensi di riuscirci?
— Credo sia arrivato il momento di frequentare la scuola, nonno, insegnano tante cose.
— E diventerai forte?
— Il più forte di tutti.
Contento, il ragazzo tirò fuori la palla che aveva costruito arrotolando alcuni stracci e si mise a giocare fuori dalla capanna insieme agli amici, col suo rozzo giocattolo, fino a che la luce del giorno cominciò a scemare.
Il buio stava tornando a invadere il villaggio e rientrò in casa, presto sarebbe ritornata sua madre e le avrebbe detto della sua decisione.
Aveva una luce negli occhi.
Ultima modifica di gemma vitali il Lun 25 Gen - 18:34 - modificato 1 volta.