“Venite ad me omnes qui laboratis et onerati estis et ego reficiam vos.”
(Mt. 11,28-30)
Sono Massimo Esposito (Maximus Juvenis Baptista Expositio) nasco a Napoli nel 1580.
Musicista, teologo, meglio noto come cacciatore di streghe.
Non mi è concesso di sapere il giorno in cui sono nato non avendo conosciuto i miei genitori.
È l’8 aprile del 1580, quando vengo deposto nella Ruota degli Esposti.
La data risulta dai registri della Real Casa della Santissima Annunziata.
La ruota è un cilindro di legno diviso in due parti chiuse da uno sportello, gira ora verso l’esterno, ora verso l’interno.
Un ventre materno nascosto all’interno di un muro.
Istituita dalla regina d'Aragona, moglie di Roberto d'Angiò, nel 1343, è un dono prezioso di cui il popolo napoletano, e non solo, fa uso per salvare la vita di tanti orfani che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di sopravvivere.
Siamo i figli abbandonati dalle madri o perché non hanno modo di crescerli o perché siamo illegittimi.
Quando veniamo accolti, annotano il giorno e l’ora di ingresso, l’età, i lineamenti e gli eventuali segni di riconoscimento, come abiti o piccoli biglietti.
Il suono della campanella e un pianto disperato annunciano la mia presenza. È questo il vagito che segna il mio ingresso nel mondo.
“Denutrito, magro di ossatura, il viso scavato, ha occhi vispi e curiosi, capelli neri e folti”, si legge ancora nel registro, “coperto solo di stracci, stringe nel pugno una croce di legno con un braccio scheggiato. Non presenta nessun altro segno che possa ricondurlo ai genitori”.
Io sono uno di quei bambini che nessuno vuole e come gli altri divento un figlio della Madonna (o figl’“ra Maronn”), perché è Lei che ci protegge e ci assiste.
Oltre all’ospizio per i trovatelli, il vasto complesso include la basilica, un ospedale, un convento e un conservatorio.
Il 16 aprile, il giorno di Pasqua, per volontà di Vincenzo Sapri, vengo battezzato nella Basilica della Santissima Annunziata Maggiore.
Padre Vincenzo appartiene all’ordine dei domenicani, nominato dalla Santa Sede in qualità di inquisitore, con l'incarico di ricercare e giudicare gli eretici.
È un uomo alto, spigoloso, falsamente mite, dai modi decisi e bruschi. Gli occhi profondi e vicini tra loro incutono rispetto e reverenziale terrore.
Mio padrino è Giovan Battista Manso, da cui prendo il secondo nome.
Da figlio abbandonato vengo, inspiegabilmente, accolto dalla nobiltà come un dono divino.
Il mio primo ricordo risale all’età di quattro anni.
È il 13 dicembre del 1584 quando, privo di sensi, cado in un braciere.
Il fatto è inspiegabile e si crede che sia opera malvagia di qualche megera.
Ho ustioni su gran parte del corpo e rimango tra la vita e la morte per diversi giorni.
Durante il delirio, parlo di figure femminili che mi spingono nelle braci ardenti. Un episodio che segna la mia vita e mi porta a diventare quello che sono: un cacciatore di streghe.
Ho nella carne i segni delle ustioni e nell’anima la convinzione, consolidata negli anni, che le streghe vadano perseguitate sempre e ovunque.
Il maestro Sapri è solito dire: “Numquam confidunt mulieres. Non credere a quello che esce dalla loro bocca, mentono.
Non guardarle negli occhi. Sanno ingannare anche solo con lo sguardo, perché sono figlie del demonio.”
Dal 1586 al 1590 Giovan Battista Manso diventa il mio precettore. È un uomo basso di statura, gentile, dallo sguardo ceruleo, la bocca carnosa, sebbene il viso sia scavato e lungo.
Nasce a Napoli nel 1535. La sua nobile famiglia è originaria di Scala, cittadina situata sulle colline della costa di Amalfi, dove a volte mi porta per respirare aria più salubre. In quegli anni ho un costante pallore e una frequente tosse che fanno pensare ai medici che non sarei vissuto a lungo.
Mi trasmette la passione per la matematica e per gli studi filosofici. Mi insegna la filosofia aristotelica, la logica, lo studio della fisica e della metafisica.
A causa della mia salute cagionevole, sono un bambino introverso e solitario, poco propenso a socializzare.
Preferisco leggere libri e studiare le cose di Dio.
Trascorro le mie giornate all’interno della basilica dell’Annunziata, tra le alte colonne delle navate; il pavimento a mosaico bianco e verde vede muovere i miei primi passi.
L’odore e la luce tremula delle candele rendono il mio animo offuscato e insicuro.
Ma in tutto il convento esiste un luogo dove mi sento quieto e protetto, la Sala de Profundis. È adiacente al refettorio, così chiamata perché prima di consumare i pasti i religiosi si fermano a pregare per i fratelli defunti.
È un locale diverso da tutti gli altri ambienti per fattezza e dimensioni, una sala rettangolare con un magnifico soffitto di legno. Sebbene sia una stanza di passaggio o di attesa, tra la sacrestia e il refettorio, è una camera silenziosa, dove pregare o stare in tranquillità.
All’interno due affreschi sopra le porte d’ingresso abbelliscono l’ambiente, il primo è un volto di Cristo nella lunetta di destra, raffigurante l'Ecce Homo,
L’altro, sulla parete sinistra, raffigura la Madonna con il Bambino in grembo.
Per me che non conosco mia madre, e da lei e da nessun’altra ricevo carezze, la sola visione mi commuove, pur non riuscendo a immaginare tanta bellezza.
Un armadio stretto e scuro occupa un’intera parete. contiene una collezione preziosa di arredi sacri e libri sulla vita di santi, tra cui Tommaso d’Aquino.
Tre inginocchiatoi sono rivolti verso il quadro del Salvator Mundi, con gli occhi che mi seguono; in un angolo semi buio spicca un crocifisso da processione in argento massiccio.
Due candelabri in ferro battuto stanno ai lati di una lunga panca su cui ci si può sedere per leggere o pregare.
Il 15 giugno del 1592, dopo la cerimonia del Corpus Domini, mi trattengo in chiesa con il suonatore di organo. È Cesare Sersale, ed è il primo maestro al conservatorio. Uomo dai modi modesti ma di ampia cultura, mi inizia allo studio prima del clavicembalo e poi dell’organo.
Quando le mie dita sfiorano i tasti e il suono si propaga per le navate provo un’emozione mai sentita prima.
Come se per la prima volta sentissi la mia voce, attraverso le dita sullo strumento, ho la certezza della mia esistenza.
Digitare sopra i tasti i motivi sacri, mi alza al di sopra della misera condizione umana.
E se per Renatus Cartesius l’assioma di tutto il suo pensiero è racchiuso in Cogito ergo sum, per me la musica e suonare lo strumento diventano le ragioni di vita e posso asserire con fermezza: Digito ergo sum.
Nel 1593, tredicenne, dalla Casa dell’Annunziata mi trasferisco al collegio dei gesuiti per intraprendere la carriera ecclesiastica.
I corsi prevedono altri tre anni di studio della grammatica, di studi umanistici e filosofici, oltre che di teologia e delle Scritture.
Ancora su indicazione e incoraggiamento di padre Vincenzo. Sento, da quando sono nato, di essere plasmato dalla sua forte personalità, anche se l’impegno costante e la passione per i libri fanno di me una persona interiormente libera.
Pretendo il massimo da me stesso, senza chiedermi se merito quanto mi viene dato.
Provo per lui un sincero affetto di riconoscenza, perché fa le veci di un padre, quello che non ho mai conosciuto.
Esco dal collegio nel settembre del 1596.
Per il regime di vita osservato, la mia salute migliora e si ristabilisce completamente.
Sono un giovane forte, dai tratti irregolari, i capelli folti e castani, gli occhi scuri sotto le folte ciglia.
Durante l’anno approfondisco e perfeziono gli studi musicali iniziati al conservatorio.
L’incontro decisivo è quello con Giovanni Maria Sabino. Nato a Turi, il 30 giugno del 1545, è eccellente organista e compositore. Diventa mio insegnante mentre è già primo maestro del conservatorio della Pietà dei Turchini.
Fa di me un vero musicista, tanto da diventare nell’ottobre del 1597, a soli diciassette anni, organista presso l'Oratorio di San Filippo.
Ma dalle mie mani non escono solo note celestiali che arrivano all’Altissimo.
Padre Vincenzo vuole che faccia parte della congregazione attiva nella ricerca degli eretici, quelli che apertamente, e non solo, si proclamano contro la Santa Chiesa e la sua dottrina.
È il tribunale dell’inquisizione che raccoglie testimonianze e testimoni per accertare l'eresia e ha il compito di tentare con tutti i mezzi, compresa la tortura, di convincere l'indagato ad abiurare.
Se questo non avviene resta una sola cosa da fare: ardere i loro corpi.
“Sta scritto nel libro dell'Esodo, (22, 18): Maleficos non patieris vivere, è solito citare padre Vincenzo.
E ancora dal Vangelo di Giovanni, (15, 6): “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi viene raccolto per essere gettato via e bruciato. Non lascerai vivere colei che pratica la magia”.
Divento, con la sua benedizione, il boia di Dio.
Così dalle stesse mani genero il fuoco con cui l’eretico, tra fiamme altissime, esala l’anima purificata fino a Dio.
Il 13 agosto 1598 muore padre Vincenzo lasciandomi orfano per la seconda volta.
Mantengo la sua eredità, rimango il cacciatore di streghe che le porta al rogo.
Il mio viso è diventato rubicondo, rosso vivo, come se le fiamme avessero lasciato anche su di me i segni del troppo calore.
È l’11 novembre Anno Domini 1600, quando, con solenne processione, ci muoviamo dalla cattedrale della Santissima Annunziata.
Sono le tre di un pomeriggio freddo e nuvoloso, una pioggia leggera rende l’aria e l’umore grigi.
La piazza davanti al duomo è gremita, durante la cerimonia religiosa partecipa tutta la cittadinanza.
Viene celebrata la messa solenne, quindi i colpevoli sfilano in miserabili condizioni davanti al vescovo che proclama la sentenza.
C'è spazio per il pentimento in extremis.
Mea culpa mea maxima culpa.
Sono in tre, colpevoli di praticare l'ebraismo in privato e, a quanto dicono testimoni, non solo. L’ uomo e una delle due donne abiurano e hanno salva la vita.
La terza no. Ha i tratti del viso irregolari, scalza, indossa una veste lercia da cui si vedono i segni delle torture. Trema più per il freddo che per la paura. Ha i capelli lunghissimi, castani, attaccati alla fronte madida. Le braccia, lungo i fianchi, hanno già abbandonato la vita, tanto sono bianche. Le dita affusolate, con le unghie strappate, sembrano capaci di suonare uno strumento piuttosto che di uccidere.
È accusata di preparare filtri e pozioni in grado di far perdere la ragione. Di aver fatto un sortilegio a un nobile napoletano, timorato padre di famiglia, di averlo circuito e poi ucciso e di aver gettato in mare il corpo.
È la sola condannata e dopo la lettura della sentenza, tiene la testa bassa, passa davanti a me dirigendosi al palo, mi guarda e lo sguardo è privo di odio.
Dalla piazza alla mia destra, si leva un urlo:
“Ferma la mano, ragazzo! La donna che stai dando alle fiamme non è una strega, è tua madre”.
Il brusio che si alza dalla folla non mi impedisce di sentire: “Non poteva tenerti. Sei figlio del peccato, di una meretrice e di un uomo di chiesa. Vincenzo Sapri è tuo padre. Chiedilo alla croce di legno con il braccio scheggiato che stringevi nel pugno appena nato”.
Sono le ultime parole che pronuncia, mentre la trascinano via, una vecchia tutt’ossa e senza denti, dalla cui bocca è uscita la calunnia di una strega o una spaventosa verità.
“Non guardarle negli occhi, non ascoltarle. Non credere a quello che ti dicono”.
Sebbene il rossore copra il mio volto, sento il sangue scorrere gelido, mentre assisto impassibile all'esecuzione.
Maleficos non patieris vivere
La sera si fa più buia e la gente lascia la piazza.
Aspetto che l'ultima fiamma sia spenta e che di quel corpo non rimanga più traccia.
Cinis cinerem, pulvis in pulverem.
È tardi quando rientro nel convento della Santissima Annunziata. Non conosco il motivo ma ho le spalle curve, come se portassi il peso di una croce.
La verità è un inganno o la mia vita è solo menzogna.
Utinam matrem meam scirem, hoc non esset factum.
Ripongo i paramenti in sacrestia. Dalla chiesa nessuna voce. L’abside è sgombro, l’altare vuoto.
Vado verso la Sala de Profundis. Non ho fame e vista l’ora anche il refettorio è chiuso.
Rimetto al suo posto, accanto al Salvator Mundi, la croce d’argento astile portata in processione. Ne estraggo il crocifisso, la parte terminale è appuntita.
Mi segno, lo bacio e, inginocchiandomi. lo stringo ancora una volta nel pugno,
mea culpa mea maxima culpa e con forza lo conficco nel petto, fino a trafiggermi il cuore.
De profundis clamavi ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam ...
Massimo Esposito, nacque a Napoli nell’Anno Domini 1580.
Organista, teologo, più tristemente noto come cacciatore di streghe.
Fu trovato riverso sopra un inginocchiatoio nella sala De Profundis, esanime, la mattina del 12 novembre 1600, all’età di vent’anni.
(Mt. 11,28-30)
Sono Massimo Esposito (Maximus Juvenis Baptista Expositio) nasco a Napoli nel 1580.
Musicista, teologo, meglio noto come cacciatore di streghe.
Non mi è concesso di sapere il giorno in cui sono nato non avendo conosciuto i miei genitori.
È l’8 aprile del 1580, quando vengo deposto nella Ruota degli Esposti.
La data risulta dai registri della Real Casa della Santissima Annunziata.
La ruota è un cilindro di legno diviso in due parti chiuse da uno sportello, gira ora verso l’esterno, ora verso l’interno.
Un ventre materno nascosto all’interno di un muro.
Istituita dalla regina d'Aragona, moglie di Roberto d'Angiò, nel 1343, è un dono prezioso di cui il popolo napoletano, e non solo, fa uso per salvare la vita di tanti orfani che altrimenti non avrebbero alcuna possibilità di sopravvivere.
Siamo i figli abbandonati dalle madri o perché non hanno modo di crescerli o perché siamo illegittimi.
Quando veniamo accolti, annotano il giorno e l’ora di ingresso, l’età, i lineamenti e gli eventuali segni di riconoscimento, come abiti o piccoli biglietti.
Il suono della campanella e un pianto disperato annunciano la mia presenza. È questo il vagito che segna il mio ingresso nel mondo.
“Denutrito, magro di ossatura, il viso scavato, ha occhi vispi e curiosi, capelli neri e folti”, si legge ancora nel registro, “coperto solo di stracci, stringe nel pugno una croce di legno con un braccio scheggiato. Non presenta nessun altro segno che possa ricondurlo ai genitori”.
Io sono uno di quei bambini che nessuno vuole e come gli altri divento un figlio della Madonna (o figl’“ra Maronn”), perché è Lei che ci protegge e ci assiste.
Oltre all’ospizio per i trovatelli, il vasto complesso include la basilica, un ospedale, un convento e un conservatorio.
Il 16 aprile, il giorno di Pasqua, per volontà di Vincenzo Sapri, vengo battezzato nella Basilica della Santissima Annunziata Maggiore.
Padre Vincenzo appartiene all’ordine dei domenicani, nominato dalla Santa Sede in qualità di inquisitore, con l'incarico di ricercare e giudicare gli eretici.
È un uomo alto, spigoloso, falsamente mite, dai modi decisi e bruschi. Gli occhi profondi e vicini tra loro incutono rispetto e reverenziale terrore.
Mio padrino è Giovan Battista Manso, da cui prendo il secondo nome.
Da figlio abbandonato vengo, inspiegabilmente, accolto dalla nobiltà come un dono divino.
Il mio primo ricordo risale all’età di quattro anni.
È il 13 dicembre del 1584 quando, privo di sensi, cado in un braciere.
Il fatto è inspiegabile e si crede che sia opera malvagia di qualche megera.
Ho ustioni su gran parte del corpo e rimango tra la vita e la morte per diversi giorni.
Durante il delirio, parlo di figure femminili che mi spingono nelle braci ardenti. Un episodio che segna la mia vita e mi porta a diventare quello che sono: un cacciatore di streghe.
Ho nella carne i segni delle ustioni e nell’anima la convinzione, consolidata negli anni, che le streghe vadano perseguitate sempre e ovunque.
Il maestro Sapri è solito dire: “Numquam confidunt mulieres. Non credere a quello che esce dalla loro bocca, mentono.
Non guardarle negli occhi. Sanno ingannare anche solo con lo sguardo, perché sono figlie del demonio.”
Dal 1586 al 1590 Giovan Battista Manso diventa il mio precettore. È un uomo basso di statura, gentile, dallo sguardo ceruleo, la bocca carnosa, sebbene il viso sia scavato e lungo.
Nasce a Napoli nel 1535. La sua nobile famiglia è originaria di Scala, cittadina situata sulle colline della costa di Amalfi, dove a volte mi porta per respirare aria più salubre. In quegli anni ho un costante pallore e una frequente tosse che fanno pensare ai medici che non sarei vissuto a lungo.
Mi trasmette la passione per la matematica e per gli studi filosofici. Mi insegna la filosofia aristotelica, la logica, lo studio della fisica e della metafisica.
A causa della mia salute cagionevole, sono un bambino introverso e solitario, poco propenso a socializzare.
Preferisco leggere libri e studiare le cose di Dio.
Trascorro le mie giornate all’interno della basilica dell’Annunziata, tra le alte colonne delle navate; il pavimento a mosaico bianco e verde vede muovere i miei primi passi.
L’odore e la luce tremula delle candele rendono il mio animo offuscato e insicuro.
Ma in tutto il convento esiste un luogo dove mi sento quieto e protetto, la Sala de Profundis. È adiacente al refettorio, così chiamata perché prima di consumare i pasti i religiosi si fermano a pregare per i fratelli defunti.
È un locale diverso da tutti gli altri ambienti per fattezza e dimensioni, una sala rettangolare con un magnifico soffitto di legno. Sebbene sia una stanza di passaggio o di attesa, tra la sacrestia e il refettorio, è una camera silenziosa, dove pregare o stare in tranquillità.
All’interno due affreschi sopra le porte d’ingresso abbelliscono l’ambiente, il primo è un volto di Cristo nella lunetta di destra, raffigurante l'Ecce Homo,
L’altro, sulla parete sinistra, raffigura la Madonna con il Bambino in grembo.
Per me che non conosco mia madre, e da lei e da nessun’altra ricevo carezze, la sola visione mi commuove, pur non riuscendo a immaginare tanta bellezza.
Un armadio stretto e scuro occupa un’intera parete. contiene una collezione preziosa di arredi sacri e libri sulla vita di santi, tra cui Tommaso d’Aquino.
Tre inginocchiatoi sono rivolti verso il quadro del Salvator Mundi, con gli occhi che mi seguono; in un angolo semi buio spicca un crocifisso da processione in argento massiccio.
Due candelabri in ferro battuto stanno ai lati di una lunga panca su cui ci si può sedere per leggere o pregare.
Il 15 giugno del 1592, dopo la cerimonia del Corpus Domini, mi trattengo in chiesa con il suonatore di organo. È Cesare Sersale, ed è il primo maestro al conservatorio. Uomo dai modi modesti ma di ampia cultura, mi inizia allo studio prima del clavicembalo e poi dell’organo.
Quando le mie dita sfiorano i tasti e il suono si propaga per le navate provo un’emozione mai sentita prima.
Come se per la prima volta sentissi la mia voce, attraverso le dita sullo strumento, ho la certezza della mia esistenza.
Digitare sopra i tasti i motivi sacri, mi alza al di sopra della misera condizione umana.
E se per Renatus Cartesius l’assioma di tutto il suo pensiero è racchiuso in Cogito ergo sum, per me la musica e suonare lo strumento diventano le ragioni di vita e posso asserire con fermezza: Digito ergo sum.
Nel 1593, tredicenne, dalla Casa dell’Annunziata mi trasferisco al collegio dei gesuiti per intraprendere la carriera ecclesiastica.
I corsi prevedono altri tre anni di studio della grammatica, di studi umanistici e filosofici, oltre che di teologia e delle Scritture.
Ancora su indicazione e incoraggiamento di padre Vincenzo. Sento, da quando sono nato, di essere plasmato dalla sua forte personalità, anche se l’impegno costante e la passione per i libri fanno di me una persona interiormente libera.
Pretendo il massimo da me stesso, senza chiedermi se merito quanto mi viene dato.
Provo per lui un sincero affetto di riconoscenza, perché fa le veci di un padre, quello che non ho mai conosciuto.
Esco dal collegio nel settembre del 1596.
Per il regime di vita osservato, la mia salute migliora e si ristabilisce completamente.
Sono un giovane forte, dai tratti irregolari, i capelli folti e castani, gli occhi scuri sotto le folte ciglia.
Durante l’anno approfondisco e perfeziono gli studi musicali iniziati al conservatorio.
L’incontro decisivo è quello con Giovanni Maria Sabino. Nato a Turi, il 30 giugno del 1545, è eccellente organista e compositore. Diventa mio insegnante mentre è già primo maestro del conservatorio della Pietà dei Turchini.
Fa di me un vero musicista, tanto da diventare nell’ottobre del 1597, a soli diciassette anni, organista presso l'Oratorio di San Filippo.
Ma dalle mie mani non escono solo note celestiali che arrivano all’Altissimo.
Padre Vincenzo vuole che faccia parte della congregazione attiva nella ricerca degli eretici, quelli che apertamente, e non solo, si proclamano contro la Santa Chiesa e la sua dottrina.
È il tribunale dell’inquisizione che raccoglie testimonianze e testimoni per accertare l'eresia e ha il compito di tentare con tutti i mezzi, compresa la tortura, di convincere l'indagato ad abiurare.
Se questo non avviene resta una sola cosa da fare: ardere i loro corpi.
“Sta scritto nel libro dell'Esodo, (22, 18): Maleficos non patieris vivere, è solito citare padre Vincenzo.
E ancora dal Vangelo di Giovanni, (15, 6): “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi viene raccolto per essere gettato via e bruciato. Non lascerai vivere colei che pratica la magia”.
Divento, con la sua benedizione, il boia di Dio.
Così dalle stesse mani genero il fuoco con cui l’eretico, tra fiamme altissime, esala l’anima purificata fino a Dio.
Il 13 agosto 1598 muore padre Vincenzo lasciandomi orfano per la seconda volta.
Mantengo la sua eredità, rimango il cacciatore di streghe che le porta al rogo.
Il mio viso è diventato rubicondo, rosso vivo, come se le fiamme avessero lasciato anche su di me i segni del troppo calore.
È l’11 novembre Anno Domini 1600, quando, con solenne processione, ci muoviamo dalla cattedrale della Santissima Annunziata.
Sono le tre di un pomeriggio freddo e nuvoloso, una pioggia leggera rende l’aria e l’umore grigi.
La piazza davanti al duomo è gremita, durante la cerimonia religiosa partecipa tutta la cittadinanza.
Viene celebrata la messa solenne, quindi i colpevoli sfilano in miserabili condizioni davanti al vescovo che proclama la sentenza.
C'è spazio per il pentimento in extremis.
Mea culpa mea maxima culpa.
Sono in tre, colpevoli di praticare l'ebraismo in privato e, a quanto dicono testimoni, non solo. L’ uomo e una delle due donne abiurano e hanno salva la vita.
La terza no. Ha i tratti del viso irregolari, scalza, indossa una veste lercia da cui si vedono i segni delle torture. Trema più per il freddo che per la paura. Ha i capelli lunghissimi, castani, attaccati alla fronte madida. Le braccia, lungo i fianchi, hanno già abbandonato la vita, tanto sono bianche. Le dita affusolate, con le unghie strappate, sembrano capaci di suonare uno strumento piuttosto che di uccidere.
È accusata di preparare filtri e pozioni in grado di far perdere la ragione. Di aver fatto un sortilegio a un nobile napoletano, timorato padre di famiglia, di averlo circuito e poi ucciso e di aver gettato in mare il corpo.
È la sola condannata e dopo la lettura della sentenza, tiene la testa bassa, passa davanti a me dirigendosi al palo, mi guarda e lo sguardo è privo di odio.
Dalla piazza alla mia destra, si leva un urlo:
“Ferma la mano, ragazzo! La donna che stai dando alle fiamme non è una strega, è tua madre”.
Il brusio che si alza dalla folla non mi impedisce di sentire: “Non poteva tenerti. Sei figlio del peccato, di una meretrice e di un uomo di chiesa. Vincenzo Sapri è tuo padre. Chiedilo alla croce di legno con il braccio scheggiato che stringevi nel pugno appena nato”.
Sono le ultime parole che pronuncia, mentre la trascinano via, una vecchia tutt’ossa e senza denti, dalla cui bocca è uscita la calunnia di una strega o una spaventosa verità.
“Non guardarle negli occhi, non ascoltarle. Non credere a quello che ti dicono”.
Sebbene il rossore copra il mio volto, sento il sangue scorrere gelido, mentre assisto impassibile all'esecuzione.
Maleficos non patieris vivere
La sera si fa più buia e la gente lascia la piazza.
Aspetto che l'ultima fiamma sia spenta e che di quel corpo non rimanga più traccia.
Cinis cinerem, pulvis in pulverem.
È tardi quando rientro nel convento della Santissima Annunziata. Non conosco il motivo ma ho le spalle curve, come se portassi il peso di una croce.
La verità è un inganno o la mia vita è solo menzogna.
Utinam matrem meam scirem, hoc non esset factum.
Ripongo i paramenti in sacrestia. Dalla chiesa nessuna voce. L’abside è sgombro, l’altare vuoto.
Vado verso la Sala de Profundis. Non ho fame e vista l’ora anche il refettorio è chiuso.
Rimetto al suo posto, accanto al Salvator Mundi, la croce d’argento astile portata in processione. Ne estraggo il crocifisso, la parte terminale è appuntita.
Mi segno, lo bacio e, inginocchiandomi. lo stringo ancora una volta nel pugno,
mea culpa mea maxima culpa e con forza lo conficco nel petto, fino a trafiggermi il cuore.
De profundis clamavi ad te, Domine: Domine, exaudi vocem meam ...
Massimo Esposito, nacque a Napoli nell’Anno Domini 1580.
Organista, teologo, più tristemente noto come cacciatore di streghe.
Fu trovato riverso sopra un inginocchiatoio nella sala De Profundis, esanime, la mattina del 12 novembre 1600, all’età di vent’anni.