Potrei andare avanti per giorni senza mangiare, diventare una caldaia a gasolio incustodita che nessuno si sogna di accendere, e non preoccuparmi.
Sto sognando luci, luci natalizie e neve, tanta neve, neve strana, difettosa, fiocchi grandi come palle da tennis. Comincio a sperare che qualcuno mi soffochi nel sonno per interrompere questo stupido sogno.
Pioggia e vento forte, un disastro il tempo, questa sera. Scomparsa pure la luce.
Prenderò appunti al buio solo per abbandonare ogni limitazione della mia fantasia. Ho paura pure a osservarlo dalla finestra il brutto tempo, ma non mi va di scartarne il ricordo.
La strada è deserta, una automobile celeste sfida tutti con la sua sonora solitudine meccanica.
La violenza dell’acqua e del vento la blocca. Scende una donna bella e temeraria, pioggia e vento sembrano comandare i suoi repentini sbandamenti.
Una specie di schema, di abbozzo di salvataggio affiora in me. E’ tutta la vita che spero di salvare qualcuno.
Non serve una squadra di scienziati per scendere un piano di scale, aprire il portone e aiutarla a salire in alto, prima che acqua e fango le arrivino alla gola.
Il portone non si apre, un metro di pioggia sembra averlo avvitato al pavimento.
Con il pugno coperto dalla la manica del maglione fracasso il vetro dello spioncino, sono magro ci passerò attraverso.
Non ci passo, per fortuna il portone si apre da solo.
Do un calcio violento a un’automobile. Come risvegliata si sposta, lasciandomi passare, trascinata dalla corrente di quel fiume apparso improvvisamente sulla strada si allontana.
La buona notizia è che l’abito rosa della donna da salvare ha la luminosità del neon, e la distinguo facilmente, aggrappata alla cassetta della posta.
I miei piedi nudi acciaccano tutto quello che è doloroso per provare a raggiungerla.
A poter fare una spesa importante comprerei qualcosa che galleggi, non un idiota come me che neppure sa nuotare a cagnolino. La donna sembra essersi inabissata, non c’è più.
Brandelli della mia tecnica natatoria rudimentale mi fanno avvicinare al cancello, miracolosamente aperto.
Una corda con il sedile dell’altalena attaccato mi sbatte in faccia improvvisamente. Senza imprecare per il dolore l’afferro. Un volto fangoso e sorridente smanaccia gesti dal piano rialzato.
- Ho trovato solo quella, la corda dell’altalena, non potevo mettermi a scioglierla e te l’ho tirata sul naso, mannaggia.
- Sono abituato a ricevere altalene in faccia non si preoccupi, signora.
- Sono Sara e perdonami, questa è la mia casa, vieni dentro prima che acqua e vento ti riportino lontano.
L’ultimo posto di questo mondo che vediamo dovrebbe essere il più bello, almeno per lasciarci un buon ricordo, invece il panorama si accende e si spegne come una lampadina difettosa e mi sfuggono i contorni.
- Ecco i gommoni dei vigili del fuoco, vengono per noi.
- Posso sembrare un coraggioso ragazzo adorante, lei è molto bella, somiglia a Bianca Balti, ma le giuro che sto morendo di paura.
- Ogni giorno me lo dicono in tanti, ma chi è questa Bianca Balti?
Spingo il cancello, scivolo e galleggio sull’acqua come una camera d’aria di bicicletta.
- Ecco hai detto una bugia e il vento ti ha fatto cadere. Ma come farà Dio a infliggerti una punizione se parli a voce così’ bassa?
- Mi perdoni ho il fango perfino in gola e sono a due tacche sotto il livello dell’eccitazione, ma ancora ci vedo bene, lei è bellissima, pure con il cattivo tempo..
- Mammamia che brutto bozzo in testa ti ho fatto con quell’altalena, pensare che ci ho giocato per anni da bambina senza farmi mai male.
- Il bozzo passerà, senza la sua botta in testa sarei affogato, e non lo dico per dare un’immagine romantica alla faccenda, lo dico perché sono negato nel nuoto.
- La mia automobile è diventata un sottomarino, neppure si vede più. Saliamo al primo piano, ci metteremo abiti asciutti in cucina.
Con occhi disorientati osservo la grande stanza, quello che colpisce è che non c’è nulla di alimentare in quel posto.
- A cosa pensi?
- Penso che sembra più una camera da letto, con un letto.
- Sì, hai ragione, la chiamo cucina perché prima lo era, anche se con il buio si vede poco è una camera da letto, la cucina è sottacqua, meglio rimandare l’incontro con lei.
- Ho paura di cadere e farmi male al buio.
- Fiu, mi è capitato un supereroe.
- Non prendermi in giro.
- Andremo a tastoni e se hai paura dammi la mano, conosco ogni centimetro di questa casa..
- Vive da sola qui?
- Sì, e tu dove abiti?
- Io vivo di fronte, con mia madre, a cinquanta metri da qui.
- Povero piccolo, ecco perché hai paura del buio.
- La smetta o me ne vado.
- Mi piace la faccia che fai, mi piace la faccia che hai. Quel maledetto fiumiciattolo è diventato il Danubio, dovrai accontentarti di me, non riusciremo ad allontanarci da qui prima di domani.
- Mi accontenterò. Rido.
- Ora puoi lasciarla la mano, siamo seduti, ti sollevo dal compito per te sgradevole di provarci con me.
Fuori continua la musica ossessiva del vento spezzata da vari richiami di gente nascosta dal buio.
- Non vedo compiti sgradevoli.
- Appartieni a coloro a cui basta indossare una giacca per vederli rigidi come manichini, e dammi del tu.
- Mi sta grande la giacca, non è colpa mia.
Mi vergognavo della mia solitudine, non della giacca. Non sapevo come coprirla, come nasconderla.
Non sapevo come raggiungere Sara, unica fonte di calore in quell’universo di brividi.
Avevo lasciato mia madre da sola per trasformarmi in un miserabile buono a nulla.
Cominciavo a sentirmi in colpa, passata l’euforia iniziale.
Mia madre la trovo immobile sulla solita poltrona scolorita, dalla finestra osserva il buio, se si può osservare il buio. Sono due anni che non esce e non cammina.
- Dove sei stato?
- A salvare una ragazza in difficoltà.
- Bravo, e come si chiama?
- Si chiama Sara, mi ha dato il suo indirizzo di posta elettronica, è molto carina.
- Vi siete divertiti insieme?
Non le avrei detto più niente, ogni volta che le parlavo di una ragazza si fingeva interessata, poi faceva di tutto per farla allontanare.
- In un certo senso sì, ci siamo divertiti a non acciaccarci i piedi al buio.
- Solo quello?
- Solo quello, mamma, lei è molto seria e giudiziosa.
Mi viene in mente un’azione audace e riempio fino all’orlo un bicchiere di limoncello per farmi passare il rossore.
- Piano con quella robaccia alcolica. Dettami il suo indirizzo.
- Che vuoi fare?
- Qualcuno della famiglia deve sapere con chi comunichi tesoro, ma tranquillo non leggerò le tue cose.
Dovunque la portasse il suo disturbo lei non poteva muoversi da quella poltrona.
- D’accordo, scrivi, ma non mi chiamare più tesoro, non sono un bambino.
- Non ho fatto nulla di male.
- Sì, scusami.
Dovevo sopportare non solo i suoi consigli non richiesti, ma anche il modo immancabilmente affettuoso con cui me li dispensava.
Dopo due giorni i miei amici mi accompagnarono in ospedale, avevo forti dolori al petto.
Un infarto fulminante annullava le testimonianze di tutto quello che mi apparteneva, e proprio alla vigilia di Natale.
La reazione di mia madre fu catastrofica, nulla al mondo avrebbe potuto darle più dolore.
Cominciò a cercare nei cassetti tracce di me, fotografie e brevi appunti, poi si ricordò dell’indirizzo di quella ragazza. Spesso si sporgeva dalla finestra in cerca di lei. Ma oltre a folate di vento non le arrivava altro.
Pure le luci dei lampioni somigliavano a pallidi bagliori cimiteriali.
L’aria invernale sulla pelle le dava brividi e costruiva merletti di un’idea smisurata, pazzesca: le avrebbe scritto a nome mio, anche se non se la sentiva proprio di dirle che non c’ero più. L’avevo vista una volta sola, anche se una parte di me non ci credeva, ed era come se l’avessi vista sempre.
Senza il mio apparire quello diventava un passo importante, un calibro intellettuale nuovo e decisamente generoso. Chi l’avrebbe mai pensata una capacità simile in mia madre.
Quel sostituirsi a me somigliava a una mia resurrezione, dopo che quello stupido infarto mi aveva cancellato dal mondo. La sua premura verso i fragili l’aveva spostata verso me, il figlio adorato morto.
Poteva sentirsi ignara e innocente come il sistema temporalesco che stentava a sparire se sarebbe riuscita a confidarsi con quella donna al posto mio. Non voleva scoprire niente, voleva solo tenermi in vita il più possibile.
La prima lettera ebbe la sua epifania.
Ciao Sara, ho lo sguardo fisso sul cancello della tua casa e mi sembra proprio di vederti. Eravamo d’accordo che ci saremo rincontrati, ma questo maledetto virus mi terrà a letto per un bel po’. Ci sono state un sacco di mattine in cui non avevo voglia di alzarmi e ora subisco il castigo di stare a letto per forza, ora che mi butterei giù dalla finestra per raggiungerti prima possibile.
Ho deciso di dare una direzione diversa alla mia vita, ho perso troppe cose a starmene rintanato dentro casa e voglio recuperare tutto, anche le cose superficiali. Non fraintendere, tu non appartieni a quelle. Voglio trovare la strada per le tue labbra, quello sarà il migliore dei giorni quando la troverò, almeno per me.
Che poi sei stata parecchio vicino a me e non ho azzardato a farlo per non rischiare un doloroso rifiuto. Sembro uno scaricatore di porto e ho il cuore in una custodia di velluto, come un adolescente, purtroppo.
Tu avrai pensato di me: ecco un uomo che vive in una grotta di ghiaccio tutto l’anno.
Ho detto a mia madre che sei una donna delicata e bella, ed è come se stessi con te da tanto tempo.
Lei si è messa a ridere, ma con rispetto, che se mi accorgo che non ti rispetta la mando a quel paese e cambio casa, l’ho già fatto una volta.
Sono arrabbiato solo a ricordarlo e se proprio vuoi saperlo mi sto asciugando gli occhi sul cuscino. Ma solo per il nervoso, mica sono pazzo a mettermi a piangere per una cosa così stupida.
Mia madre mi ha dato tutta la sua approvazione. Mi ha imposto di accorciarmi i capelli e di far sparire i jeans, dicendo che una splendida ragazza come te non può stare vicino a uno zulù come me.
Quando mi guarda fisso mi sento quaranta paia di occhi addosso. E non lo ha fatto mai prima.
Parole fin troppo sincere, ma non poteva durare a lungo e invitai Sara nella nostra casa.
Le mostrai medaglie e fotografie, pure i gagliardetti della scuola primaria e perfino il suo pallone di cuoio bucato.
E le dissi che pregavo tanto, e che non lo facevo per ottenere qualcosa, ma solo per umiltà verso Dio.
Sara non si sentiva truffata, tutt’altro.
Prendendo le mie mani, le sue unghie senza smalto opposte a un groviglio di rughe, si accarezza il viso e poi le teneva strette, invece di liberarle.
- Ho ripreso a fumare, tutti quelli a cui muore un figlio riprendono a fumare.
Sara mi osserva impietrita dallo stesso dolore.