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SUPERPREDATORI - parte 6

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Messaggio Da Fante Scelto Gio Mag 27, 2021 1:14 pm

***

Capitolo 2
 
Il sole è sorto.
Sorto da parecchio.
Quando ho visto il chiarore, quando gli occhi hanno preso a sbattere infastiditi, mi sono sentita persa. Forse ho dormito, e se l’ho fatto è stato il peggior sonno della mia vita, qualcosa di talmente sottile da oscillare continuamente tra veglia e riposo, in un’alternanza che alla fine ha confuso i due stati facendoli apparire come un limbo da incubo.
Se ho dormito non ho sognato, e se l’ho fatto credo di aver sognato d’essere legata a un pinnacolo e lì attendere l’alba per la mia esecuzione.
Un’attesa snervante.
Una preghiera che la notte non passi mai.
La notte è passata.
Il sole è sorto, da parecchio. Saranno le nove, le dieci. Ho ancora l’orologio al polso ma nessun modo di consultarlo.
Restiamo lì, legate ai nostri pinnacoli, senza il coraggio di dire alcunché per paura di vederle arrivare, loro, le Erinni di merda. Le mani sono fredde e indolenzite, labbro, naso e orecchio non hanno smesso un attimo di pulsare, forse anche nel sonno.
Poi il sangue.
Ho finito di buttarne ma questo non è d’aiuto: ogni respiro è umido, bagnato, intriso d’odore dolciastro, ma la cosa peggiore è quello seccato su tutta la parte inferiore del mio volto. È difficile descrivere la sensazione del sangue secco sulla pelle, sul muso, giù per il collo: è come una patina, un velo, qualcosa che senti attaccato, come se una lumaca viscida e salata ti avesse passeggiato addosso, senza che tu possa fare niente per lenire il fastidio. Il sangue rappreso è come una seconda pelle.
Ci guardiamo, in quattro, consapevoli.
Il sole è tiepido, l’aria fresca, è una cazzo di giornata perfetta per andare al mare.
Perfetta.
I passi salgono dal sentiero.
È l’ora.
Vengono, un raspare di scarpe e scarponi sul pietrisco: i nostri cuori si stringono e manchiamo un respiro, poi il cuore accelera, le viscere si contraggono.
“Con dignità,” scandisce Rita nel tono più calmo che trova, “Con dignità, ragazze, noi moriremo con dignità.”
Candy inizia a singhiozzare mentre le labbra, le sue ampie labbra, si storcono in una smorfia di profondo, genuino dolore. Mormora e digrigna i denti, supplicando qualsiasi entità in cui creda, posto che una del genere possa davvero credere in Dio o un suo surrogato.
Strattono i polsi in un ultimo, patetico tentativo di far cedere una corda: altre occasioni non ce ne saranno.
Nessun Dio e nessun surrogato ascolta la supplica che invio tra i denti.
Passi sul sentiero.
Atreja è la prima a comparire, dietro di lei il resto della banda.
Si ferma in centro allo spiazzo, apre le braccia in un gesto teatrale.
“Buongiorno,” esordisce con la brezza che le scompiglia i capelli scuri e arruffati, la pelle segnata e assieme carezzata dal primo sole. “Buongiorno, mie care. Vi sentite pronte per questo grande momento?”
Pronte.
Non sono pronta.
Pronta.
Posso dirlo, affermarlo, gridarlo, e so di averlo fatto alla partenza per questo luogo maledetto, ma non lo sono. Non lo sono mai stata.
“Credetemi, sono la prima, la prima, a considerare la vostra morte uno spreco. Uno spreco terribile.” La guardiamo sedersi su un masso, teatrale, quasi poetica nel sollevare un ginocchio e assumere una postura da ritratto, da foto di copertina; in fondo è il suo show, il suo mondo, noi solo una parentesi nel corso delle cose.
“Prima di voi molte altre sono passate attraverso questo stesso iter. All’inizio, quando ero inesperta e spaventata, facevo mettere in ginocchio le mie prigioniere; le facevo mettere in ginocchio e sparavo loro in testa, senza una parola, senza neanche conoscere i loro nomi. Senza un saluto, un discorso d’addio. Potevano essere chiunque nelle loro vite passate, intendo quelle al di là del mare, e io le ho cancellate nello spazio di un secondo, premendo un grilletto. Cadevano per terra, come stracci; cadevano e in un solo momento non erano più lì, lì con me, restavano solo dei corpi inanimati.”
Guarda in alto, come a cercare le parole migliori, umetta le labbra.
“Poi, col passare dei mesi, ho cominciato a dare più importanza allo spettacolo, all’immagine. Allo scopo. Lo scopo di questo gioco, di questo reality, che parola orribile: lo scopo, ragazze mie, è quello di far vedere a tutto il mondo che queste cose, queste brutture, fanno parte della nostra vita. Fanno parte di noi, che ci piaccia o no, sono i nostri incubi e pulsioni, sono come cavalli malati e mostruosi che portiamo dentro, tutti quanti, che li si reprima nel recinto più profondo del cuore o li si lasci liberi di correre. E mi dispiace che dobbiate scoprirlo sulla vostra pelle, ma in fondo: chi mai vi ha obbligate a venire qui? Chi vi ha puntato una pistola alla testa dicendovi di firmare per Superpredatori, di diventare carne per Illumina?”
Socchiudo gli occhi reprimendo l’amarezza.
Atreja apre le mani in un gesto indifferente.
“Ho dato peso allo spettacolo. Fatto qualche gioco, tagliato qualche dito, piccole cose. Più di tutto ho cominciato a spedire quelle povere anime in bocca alle bestie da vive, non più da morte, perché pochi secondi di orrore, di quell’orrore, valevano più di qualsiasi tortura, di qualsiasi violenza. Forse lo sapete, ma i picchi di ascolti sono sempre quando le belve di Illumina mangiano. La gente, quella gente che avete lasciato a casa, sul divano, per la strada, in auto, a lavoro: quella gente molla tutto e accede all’account quando voi finite divorate vive, quando io e le mie guerriere vi buttiamo di sotto.” Scuote il capo, accigliata, le mani ancora aperte come la Madonna in gloria.
“Ma che succede? Cosa siamo diventati, tutti, che ci è accaduto? Arrivano ogni giorno barconi dall’Africa e quanti, quanti dicono e scrivono e pensano che sia cosa giusta lasciar affogare dei disperati, dei rifiuti umani, guardarli morire tra i flutti e raccoglierli gonfi d’acqua su qualche spiaggia? E queste persone, questi pensatori da pochi secondi, sono gli stessi che portano al potere governi populisti, che allevano i loro figli chiudendo gli occhi davanti ai loro soprusi adolescenziali, che parcheggiano nei posti per disabili, e che si connettono di nascosto al server quando una pazza sadica sbatte giovani fighe piagnucolanti tra i denti di improbabili mostri preistorici.”
Mi guarda.
Mi guarda e i suoi occhi sono il luogo più sicuro, più indomito della Terra. Non c’è una singola ombra di dubbio, d’esitazione, solo immensa, infinita consapevolezza.
Un brivido si libera dai vincoli e s’affretta giù per la mia schiena.
“Dovremmo cominciare a considerare, tutti quanti,” il suo tono è calato, più freddo, “Che in realtà noi, gli uomini, le donne, non siamo diventati nulla, non siamo cambiati di una virgola. Siamo sempre gli stessi. Sempre uguali, sempre crudeli, sempre affamati di sofferenza altrui per lenire la nostra. Sono diecimila anni che l’uomo e la donna ci descrivono per filo e per segno come sono, come siamo. Non è cambiato nulla, mai nulla: siamo solo diventati più ipocriti. Più timorosi di noi stessi. Più morti che vivi.”
Il silenzio grandioso di Illumina.
“Più morti che vivi.”
Si alza all’impiedi con la stessa studiata calma.
“Mi dispiace per voi e lo spreco che rappresentate. Niente di personale: sarebbe interessante torturarvi fino a farvi supplicare la morte, ma giocare col cibo è qualcosa che fanno solo gli animali sazi, e io non sono sazia. Non lo sono mai. Più di tutto, mi dicono che la community si è molto agitata per voi; forse Atreja la Sanguinaria e le sue Erinni hanno stancato il pubblico, che ora sta dalla vostra parte, e per questo dobbiamo dare un messaggio forte: Illumina ha una sola squadra vincente. Tutto il resto è carne morta.”
I singhiozzi di Candy-Kane riempiono il breve silenzio prima che le Erinni si muovano, ci raggiungano. Sento la paura e l’ansia crescere.
So di avere un’unica carta da giocare, ma non so quando: ora, tra poco.
Ora.
“Atreja,” la voce mi esce rotta, “Atreja!”
I suoi occhi si posano su di me, fieri e sinistri.
“Devo parlarti, è importante.”
Rita, la suora, mi guardano perplesse. Io rifiuto d’incontrare i loro sguardi.
Atreja si avvicina, a passo svogliato; ha un mezzo sorriso che sembra già preventivare la sua risposta prima ancora di sentire cos’ho da dire. Si ferma accanto a me. “Ti ascolto.”
“Non qui. In privato.”
“Parla.”
“In privato! Lo giuro, Cristo, non è un trucco, voglio solo parlare.”
La mia voce è bassa, quasi sussurrata. Mi vergogno, non ho scelta. Nessuna scelta.
Passano i secondi più lunghi della mia vita, poi lei accenna col capo; una delle Erinni mi slega, e quando le corde cadono a terra è di nuovo orgasmo, è libertà, per quanto effimera. Amplesso.
Vengo presa per un braccio e condotta innanzi, lungo il sentiero che sale ancora, poco più in là, appena oltre lo spiazzo, quanto basta per una dose di privacy. Le mie compagne osservano con preoccupazione crescente.
“In ginocchio, puttana.”
Obbedisco alla guardia, m’inginocchio sul pietrisco; metto le mani sopra la testa come vengo istruita di fare. La lama di un machete mi s’appoggia al collo: il freddo dell’acciaio infligge un brivido.
Atreja mi passeggia accanto, indifferente e distante, fissando ora il cielo azzurro ora qualcosa che attira di lontano la sua attenzione.
“Siamo sole,” scandisce senza guardarmi.
La mia testa vortica cercando le parole migliori, quelle che possano darmi una speranza di uscirne viva.
Deglutisco e, per un attimo, la lama del machete sembra premere di più contro il collo.
“Ascoltami. Io sono venuta qui in Illumina perché non avevo scelta. Mia madre s’è giocata tutti i miei risparmi, mia sorella mi odia, ma a prescindere io sono… sono l’unica che può badare a quella strafottuta famiglia. Senza di me non ce la fanno, capisci? Senza di me sono finite, perse, non ce la possono fare.”
La regina delle Erinni alza una mano, come infastidita, sebbene un nuovo sorriso di circostanza le illumini le labbra piene. “No, no, no, Silvia cara, risparmiati queste lagne da codarda. Tu non sei una codarda, giusto? Non giocarti la carta della pietà: con me non funziona mai.”
“Non è la pietà!” protesto con garbo, “Non mi hai fatto finire! Io ho una proposta per te.”
“Una proposta.”
“Sì, una proposta. Io sono diversa da quelle altre, l’hai detto tu. Io sono… ero un soldato, okay? Sono venuta qui per disperazione, per salvare la mia stupida famiglia, non sono come le altre, per loro è un gioco del cazzo!”
“Questa proposta?”
Prendo un respiro come fosse l’ultimo. “Voglio stare dalla tua parte. Fammi diventare un’Erinni.”
I suoi tratti si rilassano in un sorriso inquietante.
“Fammi diventare un’Erinni: so sparare bene, ho ammazzato una donna, a Kandahar, le ho sparato in testa da più di trenta metri, un colpo da manuale.”
Anche la guardia che mi tiene la spada alla gola sorride nello stesso modo sinistro.
“Hai bisogno di una prova?!” insisto con tutta la foga che riesco a raccogliere, “Te la do anche subito la prova. Subito. Riportami di là, dammi un’arma: io ammazzo una di quelle tre cretine, quella che vuoi tu. La ammazzo, lo giuro, le taglio la gola se vuoi, la uccido a pugni se vuoi, son brava con la boxe. Quello che ti pare.”
Anello e barbigli dorati mi oscillano sulla bocca togliendo qualsiasi dignità alle mie parole.
Passano secondi lenti, pesanti.
Secondi che sanno di amarezza e disillusione.
Atreja muove un paio di passi, la sua espressione serena vaga di nuovo tra compiacimento e compassione. Si china con studiata lentezza davanti a me.
“Un’offerta generosa, Silvia, ma temo di doverla rifiutare.”
Per un attimo lo sconforto mi assale e divora.
“Se tradisci le tue compagne per me,” prosegue lei, “Un giorno tradirai me per qualcun’altra più forte: non posso fidarmi di una che per salvarsi la vita è disposta a mettere le corna alla sua squadra.”
“Ti sbagli! Se mi prendi con te io ti giuro fedeltà: non ti tradirò, in nessun caso, mai. Lo giuro.”
Il cuore mi sbatte contro lo sterno.
Atreja ride leggera, scuote il capo. “Non essere ridicola. E poi mi dicono che hai un discreto seguito nella community: meglio mettere in chiaro, col resto del mondo, che in Illumina c’è una sola regina. Ormai ti resta poco, Silvia cara, spendi bene il tempo che avanza.”
Ti resta poco.
Mi resta poco.
Un assalto d’ansia. 
“Torniamo dalle altre, su, o penseranno che stiamo tramando qualcosa. Non è carino.”
Ride, leggera. Vengo rialzata di peso, messa in cammino sul sentiero; ritorniamo allo spiazzo dove le altre tre sono state slegate e attendono il nostro ritorno. Mi guardano, non le guardo, fisso i polsi segnati di rosso dalle corde.
Atreja mi passa un panno umido per il volto: pulisco il sangue secco alla buona, lo getto via.
“Che hai fatto?” Rita domanda in un soffio.
“Cercato di salvarci,” bisbiglio, “Proposto un accordo, che ci facessero fuggire, dare una chance di salvezza.”
Non credo di averle convinte ma è tutto ciò che ho.
Le Erinni ci allineano in riga, di nuovo mi ritrovo a essere su un lato della fila, di nuovo ho la suora fianco a fianco e la cosa m’infastidisce; si dispongono intorno, armate e ferine. Atreja apre una cassetta lunga e stretta, ne trae un pungolo d’acciaio che estende con un tocco: la punta prende a sfrigolare di un bagliore elettrico sinistro. Passeggia davanti a noi muovendo l’asta elettrificata con la destrezza di chi è abituato a usare strumenti del genere.
“Siamo alla fine dei giochi, ragazze. Avete perso, purtroppo per voi, ed è ora di pagare il dovuto. Tuttavia ho una buona notizia: ho deciso,” pausa d’effetto, “Di essere misericordiosa. Lascerò vivere una tra di voi, una sola, purché si metta al mio servizio e si renda utile per un piccolo progetto che ho in mente.”
Sento il cuore tuffarsi verso il basso. Gli occhi di Atreja percorrono il  nostro quartetto con calma glaciale, gustando l’ansia che è di colpo raddoppiata, nutrendosi delle nostre false speranze come un parassita insaziabile.
Atreja è insaziabile.
Non è una creatura di questo mondo.
I suoi occhi glaciali si fissano su di me e per un attimo, uno solo, sento il sollievo più caldo e profondo.
“Oggi è il tuo giorno fortunato, cara,” scandisce allungando il pungolo come fosse una spada, “Tu, vieni: lascia queste perdenti al loro destino.”
Ho persino l’istinto di muovere un passo, di uscire dalla riga, anche se i miei occhi, il mio cuore, realizzano, hanno già realizzato che l’asta non punta al mio petto. Candy-Kane emette un verso di stupore mentre si scosta da noi, nei suoi occhi c’è una meraviglia e un’incredulità che neanche l’apparizione di Dio in persona potrebbero suscitare.
Barcolla via dalla fila per qualche passo, si butta in ginocchio prima ancora che una delle Erinni la metta giù di peso.
“Grazie,” balbetta con gli occhi dilatati e le mani giunte, “Grazie, oddio, grazie.”
Mando giù la delusione con un sapore amaro di sconfitta, di beffa. Atreja guarda me, solo e soltanto me.
Nei suoi occhi c’è la derisione più nera mascherata dietro una placida espressione di superiorità.
Si muove accanto a Candy, le accarezza i capelli biondi e lisci come fosse un cane, ed è quello che è: una cagna scodinzolante, senza un grammo d’onore.
“Grazie…”
“Aspetta a ringraziarmi, tesoro. Io ho bisogno di una prova di fedeltà.”
Sento il sangue ribollire e la frustrazione montare sopra qualsiasi livello di guardia, lotto col bisogno ormai fisico di uccidere Candy e uccidere me stessa. Qualsiasi cosa per far cessare la vergogna.
Atreja aiuta la cagna a rialzarsi, raccoglie dalla stessa cassetta di poco prima una verga di bambù, gliela mette in mano. Lei s’asciuga le lacrime prima di contemplare il dono.
Ho una paura fottuta di quello che sta per succedere.
“Sarai tu, cara,” il tono della regina delle Erinni è freddo e assieme suadente, “A portare le tue amiche dalla bestia, giù al canyon. E fustigherai loro il culo ogni volta che rallentano, ogni volta che si fermano, ogni volta che ti guardano in un modo che non ti piace. Hai capito?”
Parla a lei ma è come se fissasse tutte noi.
Sento freddo, un freddo d’inverno.
Candy annuisce appena. Il suo sguardo è cambiato. Se c’è del rimorso, del disagio per il dover alzare la mano contro di noi, viene oscurato dalla fame disperata, dalla cattiveria dell’opportunismo, dell’occasione, quella che fa l’uomo e la donna ladri.
A piccoli passi s’avvia e va a mettersi dietro di noi, dove non possiamo vederla.
Atreja mi guarda, guarda me, e sorride tra le rughe: è il suo modo d’insegnarmi una lezione, una che non dimenticherò per il poco che mi resta da vivere.
“Molto bene, ragazze,” la regina di Illumina batte le mani due volte, come una maitresse, una signora nel suo feudo, “È ora di andare, è ora di far eccitare qualche milione di maschi e femmine da oltre il mare.”
La pausa è oscena. Trattengo il fiato.
“Via i vestiti. Togliete tutto.”
Il breve silenzio che segue equivale alle note funebri di un organo. Il cuore prima si ferma e poi accelera brusco.
“Eddai però,” mormoro con la voce che s’impasta per la vergogna e la paura, un gesto di sconforto delle mani, “Nude no, che cazzo, lasciaci almeno l’onore dei vestiti, per favore. Non chiediamo altro.”
Lei sorride di nuovo. “Onore? E cosa avreste fatto per meritare questo onore?”
Chiudo gli occhi, scuoto la testa, la ragione mi abbandona e fugge per sentieri disabitati.
“Ci sta guardando il mondo… Facci morire con rispetto.”
“Credimi, bionda, i vostri followers non vedevano l’ora che arrivasse questo momento.”
Ha ragione, lo so, lo sappiamo tutte. Ha sempre ragione, in un modo o nell’altro. E di nuovo bionda, anche se sa il mio nome; saprà anche che odio essere chiamata bionda, saprà che mi chiamava così mio padre, di solito prima di alzare le mani.
La verga elettrificata si alza e sfrigola. “Via i vestiti. Adesso.”
“Almeno tenere qualcosa, per favore…”
Questa volta è Rita a fulminarmi con uno sguardo. “Con dignità,” mi rimprovera, “Si affronta tutto con dignità.”
Sbottona la camicia per dare l’esempio, per darci l’esempio.
Dov’è la dignità di morire nude divorate da un mostro?
Dov’è la dignità in un qualsiasi angolo di questo posto?
Ci spogliamo.
In tre, in riga, a malincuore, sbottoniamo e sfiliamo.
La divisa tattica e i paramenti in kevlar mi scivolano via tra le mani, nonostante tutto il tempo che mi prendo: sembrano non volermi più stare indosso, sembrano voler fuggire dal mio corpo come fossi già cadavere.
Cerco di non guardare, non guardare le altre, non guardare le Erinni, non guardare Atreja. Non guardare me stessa.
Vorrei esser cieca, cavarmi gli occhi.
Tolgo la maglietta e con molti, troppi secondi d’esitazione il reggiseno.
Dio, la vergogna.
Sgancio il cinturone.
Abbasso i calzoni.
Il mondo sta guardando Mercury, la soldatessa, che si spoglia e che sotto a tutto indossa delle mutandine azzurre. Mi hanno sempre portato bene azzurre.
La suora, alla mia sinistra, alza una mano, lo sguardo timido rivolto verso il suolo. “Ho una richiesta,” mormora in un filo di voce.
Sembra un buon pretesto per fermarmi, per restare con le mani sull’orlo degli slip e attendere gli eventi.
Atreja si avvicina, lenta, teatrale. Squadra la ragazza da un passo, accenna col capo.
“Vorrei,” lei alza due occhi nocciola in quelli ben più scuri della regina di Illumina, “Poter tenere la croce.”
Atreja attende un lungo attimo poi allunga una mano, raccoglie il crocifisso argentato che le pende dal collo.
So che sta per farlo.
Per strapparglielo.
Per irriderla e toglierle anche questo conforto.
“Ma certo,” risponde con un sorriso genuino, “Tienila pure, cara.”
Gliela adagia tra i seni tondi e sodi, candidi, con un gesto quasi erotico.
La suora annuisce appena.
Dio.
Atreja è una vera signora, non c’è che dire. Vale più di tutte noi messe assieme.
Calo le mutandine consapevole che quelle come lei sono la vera essenza del mondo; quelle come me, che stanno impilando i loro vestiti in mondovisione, possono solo seguire a distanza.
Ora ho un problema, sempre lo stesso.
Tutti i pervertiti del mondo mi guardino pure tette, fica e culo: non m’interessa, non più.
Ma c’è una cosa che non posso accettare.
Alzo una mano, fissando a terra, rossa di vergogna. “Ho una richiesta.”
Il mondo si ferma di nuovo. La suora mi guarda preoccupata, perché ricorda, ricorda bene cosa le ho promesso ieri sera.
Atreja sorride, sottilmente divertita; si accosta con lo stesso piglio ilare, guardandomi e cercando invano i miei occhi. “Ti ascolto.”
Deglutisco, continuo a fissare il mucchio che furono i miei vestiti. Per quanto mi spiaccia, non sprecherò la mia richiesta da moritura per far andare la suora all’inferno prima di me. Cerco l’espressione più composta possibile, senza trovarla. “Io,” mormoro a denti stretti, “Io detesto i fottuti feticisti. Vorrei tenere gli stivali. Per favore.”
Atreja sorride ancora, quasi ride. Mi accarezza il viso come una madre comprensiva.
“Suvvia, anche loro hanno diritto a qualche soddisfazione: togli tutto, cara.”
Espiro con la morte nel cuore; mordo le labbra per trattenere il fastidio, la vergogna, che pure mi avvampano in viso e addosso. “Io non te l’avrei mai, mai fatta subire un’umiliazione del genere, mai.”
“Tu non sei me, tesoro.”
“Mai l’avrei fatto.”
Si scosta. “Togli tutto.”
Siedo a terra con un sospiro frustrato.
Slaccio gli stivali.
Li sfilo.
Li butto sopra al mucchio.
Così le calze.
Sono nuda.
Siamo nude.
Tre pezzi di carne, nude e cariche di vergogna, in riga, con un braccio a coprire il seno e una mano tra le cosce. Tremiamo, o almeno io tremo, d’imbarazzo, di sconforto. Il mondo sta guardando Mercury nuda e sconfitta.
Il mondo.
La rete.
Mercury.
Nuda.
Sconfitta.
Pigia, pigia, col pigiare, e forse sto vivendo una parodia del mio personale incubo.
“Le mani dietro la testa.”
Il pungolo sfrigola: ubbidiamo. Siamo nude, indifese ed esposte come bestie da mostra.
La suora ha un corpo della madonna, e questo mi fa incazzare. È magra ma non esile, è lavorata, liscia come seta, pallida ma di un pallore sensuale, erotico, come i suoi capelli platinati. Ha due seni proporzionati, non grandi, non piccoli, tondi.
Non ha i miei addominali tonici, non ha il mio corpo fibroso, non ha il mio cipiglio né il mio portamento, eppure, se dovessero mettere ai voti le nostre carcasse denudate, forse vincerebbe lei. Forse i pervertiti della rete, dovendo scegliere, preferirebbero segarsi sulle foto sue più che sulle mie, e questo mi fa incazzare.
Oltre all’umiliazione, la beffa.
Una di più.
Vorrei non avere tutta la dannata bigiotteria infitta nella faccia, per un aspetto migliore.
Una delle Erinni, dalla lunga chioma bruna, comincia a intonare un canto, una nenia: sono parole incomprensibili scandite al ritmo d’un piede sbattuto per terra. Mi sforzo di capire, di ascoltare, di captare qualche parola per convincermi che sono solo stanca e alterata, che canta in italiano e la mia testa non c’è, vacilla.
Non colgo una parola.
Sembra un dialetto, sardo alla lontana, ma il tono, il timbro, sono molto più cupi, più selvaggi. Per qualche ragione una suggestione di Sardegna mi riporta ai tempi della scuola, quando d’estate andavamo da zio Luca. Le spiagge. La macchia.
La nenia si ripete, come una lunga strofa che ricomincia sempre.
È un canto penetrante, anche senza musica, che ha l’impostazione e il tempo d’una ballata del folklore.
Visioni di nuraghi diroccati e di cespugli di mirto in fiore sfarfallano e lampeggiano da qualche parte dentro l’anima. I volti truci, solenni, delle Erinni fanno sembrare quella cantilena un inno di morte.
Di sepoltura.
È un canto funebre o così crede la mia mente suggestionata.
Nuraghi oscuri e ombrosi.
Gocce di sangue sulle pietre.
Sono caduta scalando la sassaia, il ginocchio è abraso, piango. Tutti guardano divertiti. Mia madre alza di spalle e Ma sì, non è niente, così impari ad andare dove non devi. Disinfettante sulla ferita.
Ragni crociati ondeggiano su tele agitate dalla brezza.
La Sardegna è la terra dei ragni.
Tutto cade nell’abbraccio di otto zampe e altrettanti occhi se lasciato incustodito, tutto appartiene ai ragni.
Le maschere grottesche del carnevale di Mamoiada danzano per un attimo dietro le retine.
Gocce di sangue sulle pietre.
Il respiro accelera.
La stessa Erinni che canta intinge un mazzetto d’erbe secche dentro una ciotola di latta, poi passa davanti a noi come un sacerdote con l’aspersorio, scagliando gocce che investono la pelle come pioggia primaverile. Irrora i nostri corpi nudi con uno schizzo di qualsiasi cosa il recipiente contenga.
Chiudo gli occhi ed è Sardegna, è acqua, è spuma tra gli scogli. È profumo di lavanda in fiore.
Il tocco delle gocce è freddo, intenso, così come l’odore che sprigionano: vegetale, pungente. È acqua profumata con essenza di fiori, e qualsiasi significato abbia nella loro grottesca tradizione mi appare come un misero, doveroso conforto per quanto ci aspetta.
Gocce colano e scivolano sul petto, tra i seni, lungo la linea alba che si alza e s’abbassa seguendo il ritmo del mio respiro. Trattengo il pianto che cerca di farsi strada in tutti i modi tra le ciglia.
Profumo di iris selvatica.
Gocce scendono e sussurrano tra le cosce, raccontando di un altro mondo dove il dolore e la sofferenza non esistono, dove saremo libere dalla paura.
La nenia cessa, e così l’aspersione.
Riapro gli occhi anche se avrei voluto tenerli chiusi.
“In fila.”
Mani ci prendono, sospingono; formiamo una fila, Rita, la suora, poi io: mani ci alzano il braccio destro perché vada a poggiare sulla spalla di quella che sta davanti.
“Sguardi bassi.”
La mia mano è sulla spalla della suora, un contatto del quale farei volentieri a meno.
“Sguardi bassi.”
Un ceffone dietro la nuca mi obbliga a stare con la testa più giù ancora, a fissare per terra, il pietrisco, le nostre gambe, i miei piedi, quelli di lei. Come temevo, ha dei piedini deliziosi. Meglio: piaceranno ai fottuti feticisti del mondo.
Meglio, per quel che resta da sopportare, da vivere, da andare avanti.
Trattengo ancora un assalto di lacrime.
Un’occhiata intorno, Atreja, e un cenno d’assenso.
“In cammino.”
Si muove, la banda delle Erinni, fa ala dietro di noi, la loro officiante detta il passo avanti a tutti. Camminiamo, nude, con una mano sulla spalla di quella davanti, come in uno stupido, fottuto gioco. Camminiamo, coi piedi che incespicano e faticano a trovare l’equilibrio sul pietrisco, ma più di tutto perché tremano come le nostre gambe. Tremano.
Candy-Kane ci segue come è stata istruita di fare; ci segue sventolando il suo bambù, un segno di potere, e se all’inizio ha qualche remora a usarlo, le occhiate inquisitrici di Atreja cancellano ogni premura; basta un passo malfermo, un’indecisione, perché arrivi un insulto e la carezza dello scudiscio sulla schiena, sul culo. E l’unica schiena e l’unico culo che ha in piena vista sono quelle dell’ultima della fila, sono i miei: so che, anche guidassi io la processione, cercherebbe comunque me col suo dannato attrezzo.
Anche se trema e ha paura, abbaia offese e fustiga per dimostrare alle Erinni tutto il suo impegno.
La odio.
L’ho sempre odiata.
La discesa sotto il sole che inizia a scaldare e la brezza che ci scompiglia i capelli è qualcosa di terribile tanto quanto poetico; siamo un quadro del passato, uno del futuro, siamo carne che cammina e lo fa per l’ultima volta. Siamo una tela dai vaghi colori erotici.
Scendiamo lungo il sentiero che si stringe e si snoda senza rispetto, infine pieghiamo sulla pietraia, prendendo una direzione diversa da quella del giorno prima, quando siamo arrivate qui, nella tana delle lupe.
Arriva un alt e ci fermiamo.
La scena che si apre tra i cespugli rinsecchiti e mossi dal vento, tra le rocce rossastre, è quella di un magnifico canyon naturale, irradiato dal sole, che guardiamo dall’alto, aperto sotto di noi anche se in buona parte celato dalla prospettiva; colorato dal giallo e dal rosso di fiori di pianta grassa, abbarbicati nelle alcove della pietra, dal verde smorto di foglie coperte di peluria. E poi l’azzurro, l’azzurro indomito del cielo.
Il sole, abbacinante, fa socchiudere gli occhi e riscalda la pelle, che va imperlandosi d’un sottile velo di sudore, più per l’ansia, la paura, che per la temperatura.
Noto il ponte: un piccolo, sottile, malconcio ponticello di corda e assi sta sospeso sopra al canyon, fin dall’altra parte, talmente leggero da oscillare all’occasionale soffio deciso della brezza.
Ci fermiamo prima, veniamo fatte chinare con gesti e prese indelicate, accosciate a semicerchio in uno spiazzo di terriccio rosso, tra le pietre secche; veniamo fatte alzare sulle ginocchia, nude, con le mani portate sopra la testa per l’ennesima volta, con le caviglie incrociate: siamo il ritratto della sconfitta, dell’umiliazione.
Della vergogna.
Il dannato telefono ci passa in rassegna perché gli account Platinum non perdano un dettaglio della nostra nudità o della paura, l’angoscia, che ci divora.
Respiriamo aria calda e secca con la voglia di piangere e la speranza che tutto finisca presto.
La croce pende dal collo della suora, ancorata tra due seni candidi; mi trovo a chiedermi che conforto possa mai dare un pezzo d’acciaio, l’immagine d’un uomo morto, morto come crepiamo noi oggi, solo senza un’intera rete a guardare. Ho studiato catechismo da piccola, perché mia madre è religiosa, ma non so se esista un Dio, o più di uno, o non ce ne siano affatto. Non l’ho mai capito.
So che puoi passare buona parte della vita a bestemmiare e pensare che Dio sia spazzatura, Lui e tutti quelli come Lui, ma quando sai che la tua ora è arrivata, e non hai neanche un pezzo di stoffa addosso, inizi a considerare l’idea che forse hai sempre sbagliato tutto, e che quella grande cosa immateriale che sarebbe una divinità si sta fregando le mani in attesa del tuo arrivo.
A quel punto hai solo due scelte: fare ammenda e provare una paura fottuta, oppure convincerti che se sei arrivata lì, a quel punto, in quella situazione, è solo per colpa Sua. E odiarlo con tutte le forze che ti restano, ogni singolo secondo che ti avanza da vivere.
Mi sento più orientata su quest’ultima strada.
Ho odiato tutta la vita.
Prima le Elisabetta, poi le Polly, quindi sono passata a odiare gli uomini, poi gli uomini stranieri, gli stranieri tutti, i comunisti, le canzoni in spagnolo, a odiare mia sorella, infine mia madre. Mio padre l’ho odiato da che ho memoria. Che sarà mai odiare anche Dio?
“Ci siamo, ragazze,” Atreja batte le mani come ha già fatto prima, “Ora di cominciare.”
Come fosse un risposta, dal fondo del canyon si leva un verso che conosciamo; il sangue gela come già ieri, il respiro diventa di ghiaccio. È lui, la cosa, ad ora l’unico essere di sesso maschile su questo dannato arcipelago.
È un lamento a metà tra il lugubre e l’incazzato, un verso che non è di questa terra e che sa di passato ancestrale.
Dio.
Ti prego, fa che non sia troppo doloroso.
L’immagine di quei denti intravisti nel buio del bunker.
Fammi morire subito.
Atreja giunge le mani davanti al viso, l’espressione questa volta seria come il momento impone. “Chi va per prima?”
Ci guardiamo. Per un lungo, lunghissimo momento ci guardiamo, noi tre, con gli occhi carichi di paura e tutto il dolore del mondo. Offrirsi, non offrirsi, passare per prima, per seconda, per terza, cosa cambia?
Non ho il coraggio, la forza, di dire nulla. Fisso le altre e basta, e le altre lo stesso. Ci fissiamo e siamo come bambine perse tra la folla: senza una direzione, senza un punto di riferimento.
Siamo sole e smarrite.
Sole.
“A sorte?” La regina delle Erinni sbatte un’unica volta le palpebre.
Vorrei rispondere che va bene, che è indifferente, ma la voce non c’è, l’energia non c’è.
Il respiro pieno di Rita spezza l’impasse, così il suo viso levigato che s’increspa e s’acciglia. “Ma quale sorte,” scandisce sprezzante, “Ma vado io, cazzo, che sarà mai! Non le vedi queste due?” la guardiamo, attonite, amare, “Son solo delle ragazzine, delle bambine, che onore c’è ad ammazzarle, ah? Lasciale andare, madonna, butta me alla bestia, che queste hanno ancora un’esistenza davanti e per te non sono una minaccia. Lasciale andare, fai un gesto onorevole una volta nella vita, macellaia maledetta.”
L’espressione indifferente, sorniona, di Atreja non dà speranze che ci lasci vivere sul serio.
Rita prende un respiro pieno, carico. “Vado io per prima.”
La guardiamo con la morte nel cuore e senza il fegato di contraddirla.
Vorrei piangere.
Atreja sorride appena, nel suo modo distaccato e assieme presente, vivo, crudele. Annuisce. Una delle Erinni si muove, sposta le mani di Rita da dietro la testa a dietro la schiena, la lega con cura.
La fa alzare.
Una seconda Erinni raccoglie una sorta di lancia, un bastone lunghissimo e appuntito, e precede tutti avventurandosi sul ponte; le assi scricchiolano e ondeggiano sotto il suo passo rapido pure sicuro; lei attraversa, va a sistemarsi all’altro capo, sulla roccia, dove si volta in attesa.
Da sotto, il lamento della bestia riecheggia per la seconda volta.
Rita viene spinta avanti, fermata di fronte ad Atreja. Nuda, anche passati i quaranta e tre dannati figli, fa ancora un grande effetto.
Il telefono riprende ogni dettaglio con cura maniacale.
“Un’ultima cosa da dire al mondo?” chiede la dominatrice, atona.
Rita, composta, chiude gli occhi per un istante, alza il capo al cielo azzurro. “Tranquilli, ragazzi. Mamma sta tornando a casa.”
Chiudo gli occhi anch’io. Due lacrime bagnano le ciglia. Mordo il labbro, anche se fa male per tutta la roba che ci è infitta dentro, per non piangere come una cretina.
Ha tre figli, Rita, tre figli, un marito, probabilmente una montagna di soldi. Ed è qui a morire, in Illumina, per una cosa sua, una questione di principio, un desiderio d’avere di più.
Non posso perdonarla né capirla.
Non posso accettare questa sfida alla logica.
Non posso.
Atreja annuisce ancora, guarda in cielo per un attimo come quei figli potesse scorgerli nella forma di alcuni cirri, poi torna da lei. “Mettiti giù.”
La guardiana la obbliga in ginocchio, poi stesa a terra, la faccia di lato nella polvere; Atreja si china, lenta, estrae il coltello dal fodero.
Dio Cristo.
“Non ho paura di te,” Rita lotta per guardarla in volto mentre viene tenuta giù, premuta al suolo, “Non ho paura di te, hai capito?”
“Non serve più che tu ne abbia.”
Dio, Dio.
Trattengo il fiato mentre la lama le si appoggia all’orecchio e inizia a incidere. Gocce rosse scolano sulla sabbia. Il verso di Rita è rabbia con dolore, è la frustrazione degli ultimi momenti; tenta di contorcersi e dibattersi, mugolando e imprecando mentre il coltello finisce il suo doloroso percorso.
Atreja si rialza e nella mano ha l’orecchio sinistro insanguinato di quella che è stata la donna più razionale e lucida dell’Ondata 9. Avremmo dovuto dare a lei il comando, subito, e forse adesso saremmo ancora vive.
Saremmo altrove.
Avremmo dovuto fare così.
Ancora vive.
Altrove.
Atreja bacia il suo trofeo di carne e lo intasca in una scarsella; Rita si rialza, provata ma non sconfitta. Si rialza con negli occhi ancora uno sguardo di sfida, anzi di dignità, come ha detto così tante volte nelle ultime ore.
Dignità.
Sangue le scola dall’orecchio mutilo giù per il collo, è nuda e legata, ma ha ancora molta, parecchia dignità. Si scosta dalle mani dell’Erinni che la sorregge, getta alla regina di Illumina un’ultima occhiata sprezzante, a noi quello che sembra un congedo, un addio senza rimpianti.
Di nuovo risalgono le lacrime, stringo i denti per non lasciarle andare.
Rita s’avvia verso il piccolo ponticello sospeso e senza barriere, barcollando leggermente; l’Erinni che l’ha accompagnata si ferma poco prima, raccoglie una lancia identica a quella della collega dall’altro lato del ponte. Entrambe sono lì a respingere qualsiasi patetico tentativo di tornare indietro o andare avanti.
La mia mente cavalca paure antiche ripetendo in loop che tra poco dovrò fare la stessa identica cosa.
“Voi due,” Atreja ha un gesto severo verso di noi, “In piedi.”
Ubbidiamo con la morte nel cuore, ci alziamo con le gambe che tremano.
“In piedi, teste di cazzo: guardate come muore una donna coraggiosa e imparate qualcosa, se vi riesce.”
Imparate.
Come se potessimo morire altre volte, come se potessimo imparare in pochi minuti che ci restano.
Rita è una donna coraggiosa, più di me. Non saremo mai come lei, neanche dovessimo morire altre cento volte.
Ci muoviamo, incerte, a piccoli passi verso l’orlo del canyon, sotto gli sguardi vigili delle Erinni. Ci fermiamo al limite della roccia, dove inizia lo strapiombo.
Lui è lì sotto.
Alla luce del sole, in piena vista, appare ancora più mostruoso che nella penombra del bunker e ora riesco a vederlo nella sua interezza. Sarà lungo una decina di metri dalla testa alla coda, alto, a occhio, il doppio di me; la sua pelle squamata è di un blu elettrico, cangiante, che passa al beige nella parte inferiore. Credo sia un rettile bipede, un qualcosa che non fa parte, o non dovrebbe far parte, di questo mondo, eppure è lì, non molto più in basso, cinque, sei metri al massimo: si aggira a passo lento su grosse gambe muscolose, ispezionando cose sul terreno, come annoiato dall’attesa, come sapesse che il pasto sta arrivando.
È un dinosauro o qualcosa che ci somiglia. Non dovrebbero esistere i dinosauri, non esistere più, ma a Illumina non importa. Illumina non segue le regole del resto del mondo.
Dio solo sa come lo hanno attirato fino lì o se non abbia instaurato una qualche forma di abitudine.
Grottesco.
Sa che gli gettano prede umane vive e allora passa di lì, di routine, per vedere se becca qualcosa, se è giornata. Magari ha un nome.
Un fottuto nome, come un gatto randagio.
Dio, in quel vecchio film di guerra, quello con gli elicotteri, non avevano idea di cosa fosse veramente l’orrore.
“Cammina.”
Pungolata dalla lancia dell’Erinni, Rita si avvia. I suoi passi sono incerti, trema.
Nel momento in cui poggia piede sul ponticello e la sua figura si staglia contro il cielo magnifico di Illumina, la bestia alza la testa di scatto per guardarla; in quegli occhi, uno per lato, alberga il peggio della creatività di Madre Natura.
Col sangue che le ruscella giù per il lato del collo e sul petto, col viso impallidito nonostante l’abbronzatura, nuda ma in qualche modo ancora dignitosa, Rita barcolla e si ferma in centro alla passerella. Guardiamo lei, guardiamo il mostro che nel frattempo si è spostato più vicino al ponticello e osserva con attenzione, concentrato, con le grandi mani artigliate aperte e tese. Emette una sorta di sibilo e schiocca le mascelle, mascelle lunghe e strette come quelle di un coccodrillo, irte di denti.
Eppure sembra un gatto, un dannato gatto, bloccato e concentrato sull’oggetto dell’attenzione, fermo come in uno screenshot, con gli occhi leggermente dilatati.
Avevo un gatto, da piccola; non era mio, era dei napoletani del palazzo accanto, ma girava libero e quindi era come fosse mio. Si chiamava Ricky, ma Ricky mi faceva schifo come nome e per me era Panzer. Si fermava in quel modo, Panzer, quando lo vedevo passare in cortile e lo chiamavo dal balcone, agitandogli una fetta di prosciutto; amava il prosciutto, Panzer, e io amavo lui. Ho pianto come una cazzo di fontana quando è morto.
Amavo Panzer e lui amava me, e per certi versi lo amo ancora; per questo non ho mai voluto adottare un gatto mio: non volevo tradirlo, e non volevo piangere di nuovo quando fosse morto anche lui. Non volevo.
In un altro mondo vorrei adottare quel rettile, vorrei amarlo quanto ho amato Panzer: se mi graziasse lo vorrei fare, penso che potrei farlo.
Lacrime tra le ciglia, ormai sta diventando un’abitudine.
“Avanti.”
Il gesto di Atreja è quello d’una condottiera collaudata; Candy-Kane, poco dietro di noi, osserva pallida e attonita.
Rita esita, guarda in cielo, mormora qualcosa.
Le lance ai due capi della passerella sono pronte a colpire se esiterà ancora a lungo.
Rita chiude gli occhi.
È una donna coraggiosa, più di tutte noi messe assieme.
La mente comincia a urlarmi che io no, io non salterò, dovranno buttarmi giù loro perché io non ce la farò mai a saltare. Mai.
Rita è una donna coraggiosa. Molto più di me.
Tranquilli, ragazzi. Mamma sta tornando a casa.
Casa.
Il vento le scompiglia i capelli scuri.
Un respiro.
Si muove.
Un passo avanti, nel vuoto.
Casa.
Dio.
Per un attimo rimane come stagliata contro il cielo, contro il nulla arioso di Illumina.
Poi cade.
Cade per pochi metri, impatta al suolo e la sabbia allevia l’urto ma è niente confronto a ciò che sta per arrivare.
È niente.
Dieci metri di rettile preistorico scattano in avanti con la foga degli affamati, le sono addosso nello spazio di un attimo.
Dio.
Sento il cuore fermarsi mentre quella donna, la migliore dell’Ondata 9, viene fiocinata da mascelle raccapriccianti e sollevata in aria, come un fuscello, il collo della bestia si piega e i muscoli si gonfiano. Il suo grido, se c’è, viene coperto dal latrato delle Erinni che salutano la morte all’unisono, un urlo tribale, qualcosa che a sua volta non sembra di questo mondo, che mi gela il sangue e la pelle.
Rita rimane in aria un istante, poi le fauci lasciano la presa e lei ricade a terra. Mani artigliate la inchiodano di peso al suolo e adesso sì, il suo grido di dolore, straziante, riecheggia nel canyon mentre centimetri di unghie calcificate le entrano nella coscia, nel fianco.
Non respiro più, non sento il battito nel petto.
Guardo, pallida e attonita, mentre le fauci della cosa calano su di lei e si serrano tra petto e schiena. Denti come piccoli coltelli affondano nella carne viva.
Il sangue.
Dio, il sangue.
Zampilla e poi fiotta, inonda la sabbia a sprazzi. Le gambe di Rita si divincolano e raspano la terra in un gesto disperato, estremo, sollevando sbuffi di polvere. Poi rallentano. Le grida diventano versi strozzati, suoni che non sembrano neppure più umani.
I polsi le si arrossano, lo vediamo anche dalla nostra posizione, la pelle sfregiata dalla violenza con la quale tenta di liberarsi, forse per istinto, in quegli ultimi attimi. La suora si copre la bocca con una mano.
La bestia non si muove.
Rimane lì, ferma, con le mani a tenere la preda umana al suolo e le fauci chiuse sul suo corpo; fianchi di rettile si ampliano e contraggono al ritmo costante d’un respiro ancestrale.
Rita si dibatte ancora qualche istante, poi gli spasmi diventano solo più contrazioni lievi.
Le gambe si muovono appena.
Il sangue.
Non grida più: solo un rantolo, un verso pietoso, polmonare, orribile, riempie lo spazio del canyon.
Le gambe non si muovono più.
Un refolo caldo le agita ancora, per breve, i capelli impolverati.
Dio.
La suora si volta: porta le mani ai miei fianchi come in un gesto infantile, disperato, sorella più piccola a sorella più grande, affonda il volto contro la mia spalla.
Singhiozza.
Non lo permetterei mai a nessuno, in nessun caso, neanche alla mia vera sorella, di attaccarmisi addosso così, ma a pochi minuti dalla fine posso accettarlo. Posso accettare questo patetico gesto d’affetto e le chiudo una mano sui capelli, glieli stringo forte. Le bacio la chioma, di sfuggita, solo per impedirmi di piangere, per tenere duro ancora un po’, mentre i barbigli dorati che mi pendono dal labbro le si spargono sulla testa.
Lacrime tra le ciglia.
Siamo nude e abbracciate, come cretine, e se qualcuno mai stesse guardando noi invece dello scempio ci troverebbe forse più erotiche ancora, ma per una volta non m’importa. Per una volta non riesco a pensare ad altro che la donna appena spirata nel canyon, ai suoi dannati figli.
Nient’altro.
La bestia lascia la presa delle fauci, solleva la testa: sangue rosso vivo gli sgocciola tra i denti e le gengive annerite. Caccia un verso di soddisfazione, stridente, lacerante, qualcosa che sembra l’urlo d’una creatura degli inferi o lo scendere rabbioso d’una saracinesca.
Si china di nuovo ma non voglio guardare più, non voglio guardare, anche se il rumore della carne strappata, delle ossa spaccate, mi arriva fino ai polmoni, al buco più profondo dell’anima. Il boccone rosso tracimante che tira su e ingolla con movimenti decisi del collo è l’ultima cosa che, mio malgrado, rimane impressa sulle retine. Non andrà via tanto in fretta, almeno per quel che poco che mi resta.
Rimaniamo abbracciate, a dar la schiena allo spettacolo della morte, a respirarci addosso, pallide e provate. Il sole non scalda più, non brucia più.
Mani ci strappano l’una all’altra, trascinandoci indietro dove eravamo poco prima.
“Che carine,” Atreja commenta con un sorriso materno, “Che carine.”
Finiamo in ginocchio, scomposte; le mani dietro la testa neanche riesco più a tenerle da quanto tremano.
“Allora,” lei passeggia lì accanto, guardandoci con lo stesso fare sornione; la luce disegna sul suo volto segnato, marcato, chiaroscuri importanti. “Chi è la prossima?”
***
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SUPERPREDATORI - parte 6 Empty Re: SUPERPREDATORI - parte 6

Messaggio Da Petunia Mar Ago 24, 2021 8:15 am

sulla pelle, sul muso, giù per il c (viso lo preferirei)


Forse lo sapete, ma i picchi di ascolti sono sempre quando (dopo sempre manca “altissimi” )



Rita, la suora, mi guardano Etc.   (Qui metterei Rita e la suora altrimenti sembra che la suora sia Rita)



sembra già preventivare la sua risposta   (anticiparne la risposta. anticipare la sua risposta)



dell’occasione, quella che fa l’uomo e la donna ladridmmmmh…. espressione sfruttata e poco ficcante in un contesto come quello che descrivi. La toglierei del tutto.



preferirebbero segarsi sulle foto  (userei masturbarsi o, al limite, farsi le seghe)
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