Praticamente lo stavano portando di peso.
Due armadi della sicurezza interna, che parevano appena usciti da un qualche film d’azione di serie B, lo comprimevano uno per lato, mentre un loro gemello lo sospingeva col palmo della mano da dietro. Due passi avanti un altro gentiluomo vestito uguale, con lo stesso ghigno e burbanza ma di metà spessore, faceva strada fra un’ala di impiegati incuriositi dal trambusto.
Plimplin era frastornato. Frastornato e imbarazzato, con tutti quegli sguardi addosso, su di lui sempre così… schivo, avrebbe detto, no? Schivo, sì. Essere al centro della scena lo inquietava assai più della sua condizione di sostanziale cattività, per di più minacciosamente compressa fra quegli energumeni. E poi era anche un po’ indignato. Trattarlo così. A lui! E perché poi? Perché? Era sempre puntuale, riciclava la carta e diceva sissignore a quel coglione di Roncatz, il capufficio che faceva il cascamorto con la Puccipucci della contabilità, che in realtà a Plimplin la Puccipucci piaceva ma sapeva bene che, altezzosa com’era, mai l’avrebbe degnato di uno sguardo.
A tutto questo pensava confusamente Plimplin, mentre clompclompclomp! marciava giocoforza nella gabbia umana dei suoi carcerieri. Arrivati davanti alla porta di mogano del boss, con sopra la targa con scritto “Boss”, la pattuglia si fermò. L’apripista ghignoso si girò di tre quarti e lo guardò con commiserazione, poi, quasi bisbigliando ai due armadi – Aggiustatelo – disse. Plimplin notò i suoi denti gialli; li notò perché aprì esageratamente le labbra dicendo “Aggiustatelo”, che praticamente gli venne un Aggiustaaatelo. C’era chi apriva esageratamente le vocali, chissà perché, forse era a causa di residui dialettali… I due bulli tirarono bruscamente in su Plimplin, si vede che tale era il loro concetto di aggiustamento, e comunque il ghignoso sembrò soddisfatto. Si sistemò la giacca e bussò delicatamente, appena sfiorando la grande porta, mettendosi poi in silenziosa attesa della risposta. Dall’interno non arrivava alcun rumore, e si sarebbe potuto dire che non volava una mosca; Plimplin pensò che in inverno non avrebbe volato comunque e si soffermò fra sé e sé sulla questione dei cliché linguistici. Ma desistette quasi subito perché – pur potendo giurare di non aver udito alcuna risposta – il ghignoso aprì il portone e sì infilò nella stanza, che risultò essere, curiosamente, una piccola stanzetta.
Strano – pensò Plimplin che mai in vita sua era entrato nel temuto ufficio del Boss – un uomo così potente, con un portone così imponente, in una stanzetta così piccina. Strano – continuò a pensare Plimplin – che poi anche Boss fosse piuttosto grosso, dietro a quella piccola scrivania…
I quattro omoni entrarono, con Plimplin spalmato nel mezzo, riempiendo senz’ombra di dubbio tutto lo spazio disponibile.
- Eccolo, signor Boss – disse il ghignoso gettando un’occhiata in tralice al povero Plimplin che nel frattempo oziava con la mente fra qualche autocompatimento e l’osservazione di quella strana stanzetta, così spoglia…
Boss non fece mostra di considerare la situazione, continuando per un po’ ad armeggiare con un fascicolo di quelli usuali in qualunque ufficio, pieno di documenti scritti fitto fitto ai quali Boss gettava occhiate veloci e apparentemente distratte.
Il ghignoso fece un cenno col mento a Plimplin, occhieggiando uno sgabellino che fino a quel momento era passato inosservato all’ispezione plimplinesca. Si sedette, mani sul grembo, aspettando succedesse qualcosa e senza osare prendere alcuna iniziativa.
Passarono alcuni minuti, non avrebbe saputo dire quanti, senza che accadesse nulla.
Poi passarono degli altri minuti che andarono alla stessa maniera.
Plimplin si stava proprio scocciando ma, da uomo timoroso qual era, confidava rassegnato di un epilogo qualunque, ma veloce, che concludesse quella situazione imbarazzante.
Passarono altri minuti, come sopra. Poi, improvvisamente, Boss alzò il testone dalle sue carte fissando, con occhi carichi di disprezzo, il povero Plimplin che non sapeva cosa stesse per succedere ma capiva che qualcosa lo stava.
- Giovanbattista Plimplin!
- Eh… sì… sono io! Signore.
- E non si vergogna?
Boss non aveva una voce ma un vocione. Un timbro da baritono, da tenore… Plimplin se li confondeva sempre, come l’ascissa e l’ordinata, l’efficacia e l’efficienza, ma insomma era un vocione forte, senza fremiti tranne quello del disprezzo che più che trasparire si manifestava con spudorata esigenza di sottomissione del bersaglio, cioè di lui, di Plimplin, che capiva nulla ma presagiva fin troppo.
- Ma… non saprei… devo?
- Come sarebbe a dire? Mi prende pure in giro?
- Mai! Mai! mi scuso sentitamente e forbitamente ma non so, giuro non so di cosa dovrei vergognarmi. Signore. Signor Boss.
Un’ombra di esasperazione velò lo sguardo di Boss.
- Lei È o NON È Giovanbattista Plimplin?
- Confermo, sono io, Giovanbattista Plimplin di Arbucefalo, nato a Cascina Piccola il…
- Ma la smetta! Mi sciorina tutta la scheda anagrafica per prendermi in giro, è evidente! – Disse alterato Boss cercando conferma nel ghignoso e nei tre armadi che annuirono all’unisono, seri seri.
- Ma lei capisce in che grave situazione si è cacciato?
- Beh… no, non saprei, ero nel mio ufficio, giù al terzo piano, e questi signori…
- Lei vuole dire che NON SA perché è venuto qui, davanti a me?
Di fronte agli occhi sempre più grandi di Boss, evidentemente disgustato dall’ignavia di Plimplin, l’omino decise di tacere…
- Lei tace!
Di fronte al viso sempre più vicino di Boss, ormai minacciosamente a pochi centimetri dal suo naso, Plimplin decise di parlare:
- No signore! Ovvero, non voglio tacere, a meno che lei non preferisca, intendo, oppure mi dica lei, comunque “No” nel senso che non ho idea del perché io sia qui…
- Lei è un mentitore – disse quasi finendo la parola in un disperato rantolo Boss. La sofferenza con la quale quel mentitore venne espettorato fece quasi soffrire Plimplin. Povero Boss, dovere perdere tempo con… con… un mentitore! Poi Plimplin pensò che parlava di lui e che, onestamente, pensandosi col cuore in mano, non gli pare di essere un mentitore.
- Chiedo scusa signore… un “mentitore”? Io?
- Non avrà intenzione di negarlo, spero? – Scandì pesantemente Boss quasi a segnare la fatica di sopportare tanto disgusto.
- Ma-ma-ma… io, signore, non mento mai!
Boss sgranò gli occhi e pietrificò il faccione. Il mento praticamente gli precipitò sul petto. Plimplin immaginò che avesse un sigaro in bocca che gli cadeva sui pantaloni bruciandolo, ma Boss non aveva un sigaro in bocca. Boss mantenne a lungo un’esagerata mimica trasecolata. Così a lungo che Plimplin si perse in considerazioni vaghe sulla vita e sulla morte, come del resto gli capitava spesso quando si annoiava, o non capiva quel che accadeva, gli succedeva anche nelle ore di greco al liceo. Ma, ahimé, nulla dura per sempre, e Boss si riebbe, riacquisì una postura dignitosa, si passò una manona sul cranio, sospirò, e guardò Plimplin, questa volta con uno sguardo gelido, era incredibile che ampia gamma di sguardi avesse quell’uomo, ma dopotutto era il Boss…
- Va bene. Se preferisce assumere questo atteggiamento…
- Ma, Signore…
- No-no-no, va bene. È suo diritto. Procediamo con ordine in modo ufficiale, allora. Va bene?
- Ah, beh… sì-sì…
- Allora: signor Giovanbattista Plimplin, ci è giunta notizia che lei ha sottratto una merendina al cioccolato a Dino Stupar il giorno 23 aprile 1972. Nega?
Plimplin, in realtà, si aspettava una rivelazione straordinaria. Si era convinto di essere lo sfortunato protagonista di un clamoroso scambio di persona, di un errore galattico, di un maleficio ordito da Roncatz per qualche oscuro maneggio… ma questa cosa non se l’aspettava proprio.
- Scusi signore… cos’avrei fatto?
- Ah! – esclamò con un’espressione sardonica Boss, mostrando finalmente a Plimplin cosa fosse un’espressione sardonica, che non l’aveva mai capita – Quindi nega. LEI NEGA!
- Ma no, non sto negando…
- Allora ammette!
- Neppure! Oddio che confusione… È che non ho proprio capito… Avrei fatto cosa?
- Lei, proprio lei, ha rubato una merendina al povero Dino Stupar, nel piovoso 23 aprile 1972. È vero o no? Su, risponda e chiudiamo questa farsa penosa.
- 1972? Ma… avevo dieci anni…
- Ebbene?
- Andavo alle elementari, cosa mi sta dicendo? Mi pare di ricordare Dino Stupar… sì… uno magro magro…
- Biondo…
- Sì, giusto, biondo… mi pare portasse gli occhiali…
- No, niente occhiali!
- Ah… sì, è vero, quello era Giancloppete Cavalli, credo…
- Non divaghi.
- No-no… ecco, cosa avrei fatto a Dino?
- Gli ha rubato una merendina!
- Mah… non saprei…
- Ma non è tutto!
- Ah no?
- No! Perché lei, patetico mendace profittatore, diede la colpa a Carolina Ptì, che fu additata da tutti come ladra!
- Ah, Carolina Ptì, me la ricordo, già le crescevano le tettine…
- Non sia disgustoso! Ricorda o no questi fatti?
- Ma, signor Boss, non saprei, vagamente, è possibile…
- Quindi ammette!
- Ma eravamo bambini, ci facevamo gli scherzi…
- Scherzi? Lei chiama scherzo rubare una merendina al povero Dino?
- Ma a me le rubavano tutti i giorni! E mi chiudevano nei gabinetti!
- Non c’entra niente! Lei È UN LADRO.
- Ma per così poco…
- E per di più… e per di più – e la voce gli tremava di sdegno mentre puntava il ditone ciccioso verso il povero Plimplin – e per di più… lei… lei, miserabile ometto…
- Un bambino…
- Lei, miserabile ometto HA MENTITO, accusando la povera Carolina Ptì…
- Adesso me la ricordo bene… povera un accidenti, era una stronzetta…
- Ecco che adesso diffama!
- Oh, santocielo, signor Boss… Può darsi che abbia preso una merendina a Dino o a qualcun altro…
- Verbalizzi, signor Gob!
Solo in quel momento Plimplin si accorse che il ghignoso, appoggiato a una mensolina, stava velocemente trascrivendo la conversazione.
- Ma sì, eravamo bambini…
- Ed ha accusato falsamente l’infelice Carolina?
- Ma che infelice d’Egitto!
- Ma l’ha accusata falsamente sì o no?
- Ma non saprei, può darsi…
- È un sì o un no?
Plimplin non ne poteva più: - Ma sì, sì, l’avrò fatto!
- AH! HA CONFESSATO, FINALMENTE!
- Ma insomma, ho confessato cosa, poi?
- La sua bugia! La sua falsità! Il suo tradimento! Lei è un mendace profittatore fedifrago…
- No, fedifrago no…
- Non interrompa!
- Non sono sposato…
- TACCIA! Lei è un bugiardo irrecuperabile!
- Per una merendina…
- Una merendina oggi, un milione di Euro domani, una bugia infantile ieri e una tremenda oggi…
- Una bugiola infantile…
- Le bugie, caro Plimplin, sono i mattoni dell’inferno. Non glie l’hanno insegnato in famiglia? Non risponda, non c’è bisogno, chissà che educazione avrà ricevuto.
- Oh… - fece Plimplin ormai esausto. – va bene, va bene tutto, la merendina e il resto. E quindi?
- “E quindi?” Come “E quindi”? Lei, naturalmente, è licenziato!
- Licenziato?
- Li-cen-zia-to. – scandì Boss. – Il rapporto di fiducia di questa azienda coi suoi dipendenti è un valore fondamentale. Non possiamo tollerare bugiardi compulsivi come lei. Signor Gob, accompagni quest’individuo all’uscita. E ricordi, “signor” Plimplin, che le bugie hanno le gambe corte!
Due armadi della sicurezza interna, che parevano appena usciti da un qualche film d’azione di serie B, lo comprimevano uno per lato, mentre un loro gemello lo sospingeva col palmo della mano da dietro. Due passi avanti un altro gentiluomo vestito uguale, con lo stesso ghigno e burbanza ma di metà spessore, faceva strada fra un’ala di impiegati incuriositi dal trambusto.
Plimplin era frastornato. Frastornato e imbarazzato, con tutti quegli sguardi addosso, su di lui sempre così… schivo, avrebbe detto, no? Schivo, sì. Essere al centro della scena lo inquietava assai più della sua condizione di sostanziale cattività, per di più minacciosamente compressa fra quegli energumeni. E poi era anche un po’ indignato. Trattarlo così. A lui! E perché poi? Perché? Era sempre puntuale, riciclava la carta e diceva sissignore a quel coglione di Roncatz, il capufficio che faceva il cascamorto con la Puccipucci della contabilità, che in realtà a Plimplin la Puccipucci piaceva ma sapeva bene che, altezzosa com’era, mai l’avrebbe degnato di uno sguardo.
A tutto questo pensava confusamente Plimplin, mentre clompclompclomp! marciava giocoforza nella gabbia umana dei suoi carcerieri. Arrivati davanti alla porta di mogano del boss, con sopra la targa con scritto “Boss”, la pattuglia si fermò. L’apripista ghignoso si girò di tre quarti e lo guardò con commiserazione, poi, quasi bisbigliando ai due armadi – Aggiustatelo – disse. Plimplin notò i suoi denti gialli; li notò perché aprì esageratamente le labbra dicendo “Aggiustatelo”, che praticamente gli venne un Aggiustaaatelo. C’era chi apriva esageratamente le vocali, chissà perché, forse era a causa di residui dialettali… I due bulli tirarono bruscamente in su Plimplin, si vede che tale era il loro concetto di aggiustamento, e comunque il ghignoso sembrò soddisfatto. Si sistemò la giacca e bussò delicatamente, appena sfiorando la grande porta, mettendosi poi in silenziosa attesa della risposta. Dall’interno non arrivava alcun rumore, e si sarebbe potuto dire che non volava una mosca; Plimplin pensò che in inverno non avrebbe volato comunque e si soffermò fra sé e sé sulla questione dei cliché linguistici. Ma desistette quasi subito perché – pur potendo giurare di non aver udito alcuna risposta – il ghignoso aprì il portone e sì infilò nella stanza, che risultò essere, curiosamente, una piccola stanzetta.
Strano – pensò Plimplin che mai in vita sua era entrato nel temuto ufficio del Boss – un uomo così potente, con un portone così imponente, in una stanzetta così piccina. Strano – continuò a pensare Plimplin – che poi anche Boss fosse piuttosto grosso, dietro a quella piccola scrivania…
I quattro omoni entrarono, con Plimplin spalmato nel mezzo, riempiendo senz’ombra di dubbio tutto lo spazio disponibile.
- Eccolo, signor Boss – disse il ghignoso gettando un’occhiata in tralice al povero Plimplin che nel frattempo oziava con la mente fra qualche autocompatimento e l’osservazione di quella strana stanzetta, così spoglia…
Boss non fece mostra di considerare la situazione, continuando per un po’ ad armeggiare con un fascicolo di quelli usuali in qualunque ufficio, pieno di documenti scritti fitto fitto ai quali Boss gettava occhiate veloci e apparentemente distratte.
Il ghignoso fece un cenno col mento a Plimplin, occhieggiando uno sgabellino che fino a quel momento era passato inosservato all’ispezione plimplinesca. Si sedette, mani sul grembo, aspettando succedesse qualcosa e senza osare prendere alcuna iniziativa.
Passarono alcuni minuti, non avrebbe saputo dire quanti, senza che accadesse nulla.
Poi passarono degli altri minuti che andarono alla stessa maniera.
Plimplin si stava proprio scocciando ma, da uomo timoroso qual era, confidava rassegnato di un epilogo qualunque, ma veloce, che concludesse quella situazione imbarazzante.
Passarono altri minuti, come sopra. Poi, improvvisamente, Boss alzò il testone dalle sue carte fissando, con occhi carichi di disprezzo, il povero Plimplin che non sapeva cosa stesse per succedere ma capiva che qualcosa lo stava.
- Giovanbattista Plimplin!
- Eh… sì… sono io! Signore.
- E non si vergogna?
Boss non aveva una voce ma un vocione. Un timbro da baritono, da tenore… Plimplin se li confondeva sempre, come l’ascissa e l’ordinata, l’efficacia e l’efficienza, ma insomma era un vocione forte, senza fremiti tranne quello del disprezzo che più che trasparire si manifestava con spudorata esigenza di sottomissione del bersaglio, cioè di lui, di Plimplin, che capiva nulla ma presagiva fin troppo.
- Ma… non saprei… devo?
- Come sarebbe a dire? Mi prende pure in giro?
- Mai! Mai! mi scuso sentitamente e forbitamente ma non so, giuro non so di cosa dovrei vergognarmi. Signore. Signor Boss.
Un’ombra di esasperazione velò lo sguardo di Boss.
- Lei È o NON È Giovanbattista Plimplin?
- Confermo, sono io, Giovanbattista Plimplin di Arbucefalo, nato a Cascina Piccola il…
- Ma la smetta! Mi sciorina tutta la scheda anagrafica per prendermi in giro, è evidente! – Disse alterato Boss cercando conferma nel ghignoso e nei tre armadi che annuirono all’unisono, seri seri.
- Ma lei capisce in che grave situazione si è cacciato?
- Beh… no, non saprei, ero nel mio ufficio, giù al terzo piano, e questi signori…
- Lei vuole dire che NON SA perché è venuto qui, davanti a me?
Di fronte agli occhi sempre più grandi di Boss, evidentemente disgustato dall’ignavia di Plimplin, l’omino decise di tacere…
- Lei tace!
Di fronte al viso sempre più vicino di Boss, ormai minacciosamente a pochi centimetri dal suo naso, Plimplin decise di parlare:
- No signore! Ovvero, non voglio tacere, a meno che lei non preferisca, intendo, oppure mi dica lei, comunque “No” nel senso che non ho idea del perché io sia qui…
- Lei è un mentitore – disse quasi finendo la parola in un disperato rantolo Boss. La sofferenza con la quale quel mentitore venne espettorato fece quasi soffrire Plimplin. Povero Boss, dovere perdere tempo con… con… un mentitore! Poi Plimplin pensò che parlava di lui e che, onestamente, pensandosi col cuore in mano, non gli pare di essere un mentitore.
- Chiedo scusa signore… un “mentitore”? Io?
- Non avrà intenzione di negarlo, spero? – Scandì pesantemente Boss quasi a segnare la fatica di sopportare tanto disgusto.
- Ma-ma-ma… io, signore, non mento mai!
Boss sgranò gli occhi e pietrificò il faccione. Il mento praticamente gli precipitò sul petto. Plimplin immaginò che avesse un sigaro in bocca che gli cadeva sui pantaloni bruciandolo, ma Boss non aveva un sigaro in bocca. Boss mantenne a lungo un’esagerata mimica trasecolata. Così a lungo che Plimplin si perse in considerazioni vaghe sulla vita e sulla morte, come del resto gli capitava spesso quando si annoiava, o non capiva quel che accadeva, gli succedeva anche nelle ore di greco al liceo. Ma, ahimé, nulla dura per sempre, e Boss si riebbe, riacquisì una postura dignitosa, si passò una manona sul cranio, sospirò, e guardò Plimplin, questa volta con uno sguardo gelido, era incredibile che ampia gamma di sguardi avesse quell’uomo, ma dopotutto era il Boss…
- Va bene. Se preferisce assumere questo atteggiamento…
- Ma, Signore…
- No-no-no, va bene. È suo diritto. Procediamo con ordine in modo ufficiale, allora. Va bene?
- Ah, beh… sì-sì…
- Allora: signor Giovanbattista Plimplin, ci è giunta notizia che lei ha sottratto una merendina al cioccolato a Dino Stupar il giorno 23 aprile 1972. Nega?
Plimplin, in realtà, si aspettava una rivelazione straordinaria. Si era convinto di essere lo sfortunato protagonista di un clamoroso scambio di persona, di un errore galattico, di un maleficio ordito da Roncatz per qualche oscuro maneggio… ma questa cosa non se l’aspettava proprio.
- Scusi signore… cos’avrei fatto?
- Ah! – esclamò con un’espressione sardonica Boss, mostrando finalmente a Plimplin cosa fosse un’espressione sardonica, che non l’aveva mai capita – Quindi nega. LEI NEGA!
- Ma no, non sto negando…
- Allora ammette!
- Neppure! Oddio che confusione… È che non ho proprio capito… Avrei fatto cosa?
- Lei, proprio lei, ha rubato una merendina al povero Dino Stupar, nel piovoso 23 aprile 1972. È vero o no? Su, risponda e chiudiamo questa farsa penosa.
- 1972? Ma… avevo dieci anni…
- Ebbene?
- Andavo alle elementari, cosa mi sta dicendo? Mi pare di ricordare Dino Stupar… sì… uno magro magro…
- Biondo…
- Sì, giusto, biondo… mi pare portasse gli occhiali…
- No, niente occhiali!
- Ah… sì, è vero, quello era Giancloppete Cavalli, credo…
- Non divaghi.
- No-no… ecco, cosa avrei fatto a Dino?
- Gli ha rubato una merendina!
- Mah… non saprei…
- Ma non è tutto!
- Ah no?
- No! Perché lei, patetico mendace profittatore, diede la colpa a Carolina Ptì, che fu additata da tutti come ladra!
- Ah, Carolina Ptì, me la ricordo, già le crescevano le tettine…
- Non sia disgustoso! Ricorda o no questi fatti?
- Ma, signor Boss, non saprei, vagamente, è possibile…
- Quindi ammette!
- Ma eravamo bambini, ci facevamo gli scherzi…
- Scherzi? Lei chiama scherzo rubare una merendina al povero Dino?
- Ma a me le rubavano tutti i giorni! E mi chiudevano nei gabinetti!
- Non c’entra niente! Lei È UN LADRO.
- Ma per così poco…
- E per di più… e per di più – e la voce gli tremava di sdegno mentre puntava il ditone ciccioso verso il povero Plimplin – e per di più… lei… lei, miserabile ometto…
- Un bambino…
- Lei, miserabile ometto HA MENTITO, accusando la povera Carolina Ptì…
- Adesso me la ricordo bene… povera un accidenti, era una stronzetta…
- Ecco che adesso diffama!
- Oh, santocielo, signor Boss… Può darsi che abbia preso una merendina a Dino o a qualcun altro…
- Verbalizzi, signor Gob!
Solo in quel momento Plimplin si accorse che il ghignoso, appoggiato a una mensolina, stava velocemente trascrivendo la conversazione.
- Ma sì, eravamo bambini…
- Ed ha accusato falsamente l’infelice Carolina?
- Ma che infelice d’Egitto!
- Ma l’ha accusata falsamente sì o no?
- Ma non saprei, può darsi…
- È un sì o un no?
Plimplin non ne poteva più: - Ma sì, sì, l’avrò fatto!
- AH! HA CONFESSATO, FINALMENTE!
- Ma insomma, ho confessato cosa, poi?
- La sua bugia! La sua falsità! Il suo tradimento! Lei è un mendace profittatore fedifrago…
- No, fedifrago no…
- Non interrompa!
- Non sono sposato…
- TACCIA! Lei è un bugiardo irrecuperabile!
- Per una merendina…
- Una merendina oggi, un milione di Euro domani, una bugia infantile ieri e una tremenda oggi…
- Una bugiola infantile…
- Le bugie, caro Plimplin, sono i mattoni dell’inferno. Non glie l’hanno insegnato in famiglia? Non risponda, non c’è bisogno, chissà che educazione avrà ricevuto.
- Oh… - fece Plimplin ormai esausto. – va bene, va bene tutto, la merendina e il resto. E quindi?
- “E quindi?” Come “E quindi”? Lei, naturalmente, è licenziato!
- Licenziato?
- Li-cen-zia-to. – scandì Boss. – Il rapporto di fiducia di questa azienda coi suoi dipendenti è un valore fondamentale. Non possiamo tollerare bugiardi compulsivi come lei. Signor Gob, accompagni quest’individuo all’uscita. E ricordi, “signor” Plimplin, che le bugie hanno le gambe corte!