Giro giro tondo
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Giro giro tondo
https://www.differentales.org/t1178-essere-padri-e-un-mestiere-per-pochi:
Giro giro tondo casca il mondo
Un racconto lontano nel tempo che ancora aspettava di essere letto
Arianna ferma la macchina davanti al cancello.
La casa di suo padre.
Basterebbero pochi gesti per vincere questa battaglia: scendere, aprire il cancello, parcheggiare sotto il portico, richiudere il cancello ed entrare in casa. Le chiavi sono da qualche parte, nel disordine organizzato della borsa.
Il tempo di fingere la ricerca delle chiavi per trovare il coraggio di scendere e le vicine pettegole già sventolano le lenzuola sui balconi, nel loro misterioso alfabeto da passaparola, cercando una scusa per quell’attesa.
Un’occhiata veloce allo specchietto: brava, cancella quel viso tirato, quella voglia di lacrime, quel desiderio di scendere e mandare tutte a quel paese, ma in modo meno elegante.
A quel paese! Ma quale paese? Già ci vivono in un paese, perché rischiare di rovinarne un altro? Che restino pure, il grigiore che alita sulle vecchie case e che assorbe ogni tentativo di vita è quello che meritano.
Il cancello è vecchio, ma ben tenuto. Suo padre ci teneva alle piccole cose, magari non era proprio preciso ma almeno tutto aveva una parvenza di ordine.
Il giardino si era un po’ inselvatichito: rose, piante grasse, vecchi cespugli che lei ricorda fin da bambina, quando quella non era ancora la casa di suo padre, si godono finalmente la libertà di crescere a modo loro.
Quando ancora erano una famiglia, avevano abitato in una bella villetta, non molto più in là. Poi il divorzio, la casa era stata venduta e lui si era trasferito in questa casetta, un po' datata ma ben tenuta, che faceva da cuneo alla strada della scuola, dividendo in due il paese.
Maledetto paese: sembra sempre sul punto di morire, di lasciarsi fagocitare dalla città. Poi, niente.
Non va, non gira.
Perché non riesco ad andare avanti? Sono due settimane che leggo, rileggo queste poche righe, ma non si va avanti. Perché questa storia che è tutta lì, sulla tastiera, non esce? Non lo so.
Non è vero: lo so benissimo, perché.
Perché uso la terza persona.
Perché ancora una volta è un personaggio che deve dire e fare quello che IO dovrei dire e fare.
- Non funziona perché è ora di provare, solo provare, non ti preoccupare, a raccontarti. Solo un po', solo quello per cui sei pronta. Se poi non funziona, non se ne parla più: vorrà dire che non è ancora quel momento.
- Proviamo.
Luglio 1997
Fermo la macchina davanti al cancello.
La casa di mio padre.
Basterebbero pochi gesti per vincere questa battaglia: scendere, aprire il cancello, parcheggiare sotto il portico, richiudere il cancello ed entrare in casa. Le chiavi sono da qualche parte, nel disordine organizzato della borsa.
Il tempo di fingere la ricerca delle chiavi.
Il tempo per trovare il coraggio di affrontare quel momento.
Un’occhiata veloce allo specchietto: brava, cancella quel viso tirato, quella voglia di lacrime, quel desiderio di scendere e mandare a quel paese, ma in modo meno elegante, le donnette che mi stanno scrutando dai balconi lì attorno.
Sicuramente mi stavano aspettando: sanno sempre tutto, loro.
Gli affari degli altri riempiono le loro vite fiacche e rassegnate: aspettano di vedere se piango, se tentenno, cercheranno di curiosare tra le tende, conteranno gli scatoloni in cui finirà la vita di mio padre, qualcuna magari vorrebbe anche azzardare ad offrire un aiuto, ma le brutte figure non sono ammesse nella loro cricca.
Tra un po' arriveranno le mie sorelle: dobbiamo liberare la casa, i proprietari l'hanno già reclamata. Dovremo frugare tra le sue cose, nei cassetti e nelle tasche degli abiti, nelle scatole impilate in cantina.
Non vedevo mio padre da anni: solo da poco ci eravamo riconciliati, o almeno ci stavamo provando.
Avevo tante cose da dirgli, ma le parole non erano ancora pronte.
La malattia è stata più veloce di me: le è bastata una sola parola. Fine.
Io non c'ero quando è stata pronunciata.
Però, adesso, io dovrei entrare nella sua vita, quella parte di vita di cui non so praticamente nulla, rivoltare una casa e tasche che non conosco, il tutto aprendo semplicemente un cancello?
Sarò capace di farlo? Penso a come mi sentirei se qualcuno dovesse fare tutto ciò a casa mia.
- Come mi sentirei?
- Saresti morta, che t'importerebbe!
Ho parlato con l'altra me durante tutto il viaggio, di solito funziona per mettere in ordine le idee, ma oggi non è giornata.
Un gioco è bello se dura poco
Che stanchezza! Abbiamo riempito diversi sacchi della spazzatura con cibi stantii, medicinali scaduti, piatti e bicchieri sbeccati, giornali vecchi, saponette secche, stracci e ciarpame di ogni tipo.
- Come quella che troverebbero nei tuoi cassetti.
- No, la mia roba non è ciarpame. E'… la mia roba!
Abbiamo vuotato cassetti pieni di bollette, conti della spesa, schedine del totocalcio, elastici e sacchetti del pane, nastrini colorati, biro che non scriveranno più. Foto, sulle quali abbiamo cercato qualche ricordo che non fosse da rimpiangere di aver ricordato.
Abbiamo frugato negli abiti, tra le camicie e i maglioni che porteremo alle zie, in campagna: sapranno loro a chi darli.
Ho disfatto il letto, controllato gli armadietti del bagno: mi sono vergognata di aver avuto un attimo di repulsione nel toccare le sue cose, le sue cose di quando era malato, dei suoi ultimi giorni in queste stanze.
Ormai il pomeriggio è quasi finito. Le mie sorelle si accordano: in settimana faranno ritirare i mobili che vogliono tenere, il resto se lo porteranno a casa i parenti, il parroco. Io ho voluto solo un quadro, un vecchio che gioca a carte.
Non è neanche un gran quadro, ma… non lo so perché, comunque è lì, sul sedile dell'auto.
Adesso loro se ne andranno a casa, una bella doccia, poi, visto che è sabato, a fare la spesa.
Nessuna recriminazione per la mia assenza degli ultimi anni.
Mia madre si farà accompagnare sicuramente. Lei non ha potuto darci una mano: questa mattina aveva la pressione alta, diventata bassa nel pomeriggio e trasformata in mal di schiena verso sera.
Malanni che noi abbiamo ignorato. Figlie ingrate ed egoiste.
Era offesa, perché non l'abbiamo "invitata".
Se glielo avessimo chiesto: "Cosa? Con tutto quello che mi ha fatto passare? Dovrei fargliene ancora? Lo so, lo so: voi siete sempre state dalla sua parte. Però chi vi ha tirate su?" e così via.
Non so decidermi: passare la notte da mia madre, in compagnia delle sue recriminazioni e delle sue critiche a tutto e tutti, o tornare a casa, un centinaio di chilometri più in là, al sicuro?
Mi ritrovo invece con l'idea balzana di rivedere, adagio, la via che mi ha visto crescere.
Il mio primo pezzo di vita. La prima parte della mia vita fatta a pezzi.
È una di quelle rare volte in cui seguo l'istinto e una strana apprensione mi dice che forse non è la scelta giusta: ci sono passata stamattina e non avevo notato dei grandi cambiamenti, facile quindi che qua e là siano ancora sparsi ricordi che per tanti anni ho tentato di non ricordare.
È vero, la via non è cambiata molto: la stessa sequenza di porte e cancelli.
Il cancello della scuola.
Alto, imponente, con quelle punte così minacciose, arrugginito come sempre. Era già vecchio quando ero bambina. Anni '60. Chiuso come allora. Per entrare si passava da un cancelletto piccolo, sempre aperto. Dietro il cancello, il cortile: sabbia leggera, ghiaietto, qualche ciuffo d'erba.
Quante corse, girotondi, cadute e pianti in quel cortile: il gioco dei verbi, palla prigioniera, grembiulini neri, fiocchi rosa e azzurri.
- Ti ricordi le fotografie?
- Come no! Tutti in fila, i maschi con la riga che sembrava fatta con la squadra…
- Le bambine con i cerchietti, i codini con grandi fiocchi…
- Orecchie a sventola e ginocchia sbucciate. In prima elementare qualche bambino aveva l'aria spaurita: chissà, forse aveva paura della macchina fotografica.
- Era un paese di campagna: le foto si facevano per la cresima, la comunione, dovevano documentare, non ricordare.
- Per la lapide.
- Anche.
Poi inizia la fila di casette, oggi le chiamerebbero "case a schiera": lo stesso verdolino di trenta, ma che trenta, quarant'anni fa. Tra porta e strada un niente di marciapiede alto due dita.
Non sono mai entrata in quelle case: quando consegnavo i capi che mia madre cuciva, rimanevo sulla porta, aspettando i soldi oppure la promessa che qualcuno sarebbe passato a pagare. Forse sul retro ci sarà un piccolo giardino, si vedono ancora gli stessi pini, più alti delle case.
Solo la moglie del professore mi faceva entrare: era tedesca o francese, non ricordo.
Cicciottella, sempre allegra: i figli all'epoca frequentavano il liceo, un lusso, e a casa loro c'erano sempre amici cittadini che facevano sospirare le ragazzine.
La loro casa, sul retro, si affacciava su un grande cortile.
Intorno, altre case, abitate da gente semplice: operai per lo più.
- Ti ricordi, abitava lì Fabrizio!
- Poverino! La famiglia doveva essere veneta, parlavano solo il loro dialetto, stretto. Un sacco di figli, tutti in scala. Che urlate la loro madre! C'era sempre un fuggi fuggi generale quando usciva di casa armata di voce e scopa, poco importava chi avesse combinato il guaio! Fabrizio era uno dei più piccoli, sempre col moccolo al naso, il colletto di traverso e una timidezza mascherata, come succede sempre, da un briciolo di aggressività.
- Oltretutto balbettava e quindi era sempre in lotta con chi lo prendeva in giro.
Non c'era cancello per entrare nel cortile, solo un arco di portico. Dentro, fuori… per giocare, litigare, nascondersi, cercarsi. No, il cancello c'era, ma era sempre aperto.
Adesso la corte è silenziosa, le case sono state sistemate per bene, ma sembrano sole, senza colore e senza calore. Il cancello adesso è chiuso.
Dall'altra parte della strada la tenuta del Geometra: una volta c'era un grande orto, ora un giardino. La villa è sempre uguale, solo che adesso mi sembra più piccola.
Lì ci abitava Cinzia, la mia amica del cuore.
Che stranezze, la vita. Amiche inseparabili fin dal primo giorno di scuola: stesso banco, sempre per mano nel tornare a casa, nell'andare a messa o al catechismo. Sempre un cercarsi appena fatti i compiti. Eravamo anche riuscite a prendere uno zero in matematica, in seconda elementare: non le avevo passato i risultati della verifica in classe, le avevo passato l'intero quaderno, così poteva copiare meglio.
"ZERO: NON SI IMBROGLIA LA MAESTRA".
E adesso, come dirlo a casa? Neanche ci veniva da piangere.
Per provarci, almeno, avevamo passato le nocche delle dita sul muro della casa di sua nonna, molto ruvido. Niente. Il nodo in gola si fermava lì, insieme al pensiero che probabilmente allo spettacolo dei burattini, che la parrocchia aveva organizzato proprio quel pomeriggio, non ci avrebbero lasciato andare.
(Invece le mamme ci hanno lasciato andare, dopo una bella ramanzina. Ma di quel giorno ricordo di più l'atmosfera che trovai in casa. Zero a parte, ero contenta perché quel giorno il babbo era a casa dal lavoro, magari avremmo fatto pace e poi mi avrebbe portato a fare un giro in bicicletta. Invece LORO avevano litigato e il brutto voto passò quasi inosservato. Forse non avevano trovato modo di addossarsene l'uno l'altro la colpa. Se penso a quel giorno, lo vedo giallo, un giallo scialbo, scuro, un colore venuto male, sabbioso.)
Così amiche, io e Cinzia, ma a casa sua non mi aveva mai invitato: al massimo suonavo alla porta, poi aspettavo che lei scendesse, a giocare.
Il cancello grande si apriva solo per far uscire il Geometra, con il lusso dell'auto, o il fratello e i cugini, con le loro belle biciclette nuove.
Quando abbiamo iniziato le medie, classi diverse e l'amicizia era finita di colpo. Lei era nella classe dei ricchi, la sezione A. Io nella C: non eravamo poveri, solo molto meno ricchi e con i professori eternamente in supplenza.
La casa dell'Ines, col suo cancelletto modesto, nero, basso, di ferro pieno.
L'Ines! Forse era vedova, non ricordo: d'estate, quando tornava dal lavoro, andavo a casa sua. La vita di paese era fatta anche di queste semplicità. Mentre lei dava da mangiare alle galline e ai conigli, oppure si occupava del piccolo orto, io entravo nel mio mondo di sogni.
Un vecchio lenzuolo a mo' di gonna lunga, con lo strascico, un nastro per cintura, un vecchio velo nero in testa e diventavo una regina. Il basso ricovero per cassette e attrezzi dell'orto diventava il mio castello: i tre gradini di una scaletta a pioli mi portavano in torri misteriose oppure in grandi saloni. E allora su e giù a rincorrere principesse disobbedienti e servitori fannulloni, e poi via a galoppare tra le aiuole dell'orticello per sfuggire a draghi feroci.
Quando esageravo con le corse e i salti, l'Ines arrivava con un bel "Basta adesso! Contami un po' cosa hai fatto oggi, su."
Chissà di cosa chiacchieravamo, io e l'Ines? Però ci divertivamo tanto.
Ed ecco una delle case dove avevo abitato: una villetta, affittata in attesa che la nostra fosse terminata. Non ho dei gran ricordi, solo il portone grande del garage, verde, di ferro.
Avevamo scoperto che ci si scriveva bene con i gessetti, era diventata la nostra lavagna per giocare alla maestra, a tris…
E lì davanti, il cortiletto della casa di Dario, anzi della nonna di Dario.
Come avesse potuto resistere quel cancello azzurro non si sa, vista la forza con cui Dario lo chiudeva.
Dario. Colorito scuro, bastava mezza giornata di sole per cambiargli tinta, orecchie a punta, occhi furbi… un diavoletto. Eravamo molto amici: che litigate! Una volta si era molto arrabbiato perché non poteva venire a giocare a casa mia. Gli avevo detto, dalla finestra, che non poteva salire perché avevo gli orecchioni e lui si era messo a urlare che non era vero, ero una bugiarda: - Le tue orecchie sono piccole, come ieri! Non vuoi più giocare con me, ecco! –
Poi c'è la casa del Gianni. I suoi genitori un po' ci facevano perché il padre era diventato impiegato, il fratello grande studiava da geometra. Il cancello era sempre chiuso, bisognava suonare anche se la madre e la nonna erano in giardino, a spettegolare.
Solo un'estate il giardino era diventato "nostro", dei bambini della via.
I signori Rossi avevano i muratori in casa, e nel cortile era stata sistemata una piccola betoniera, con a fianco i mucchi della sabbia e della ghiaia. Il cancello era stato tolto per non intralciare.
Oggi sarebbe impensabile, ma allora andavamo a giocare lì.
I maschietti preparavano sulla sabbia le piste per le macchinine, per le biglie. A noi bambine era permesso, con rametti e foglie, creare i paesaggi per le strade dove sarebbero passate le macchinine, i camioncini. I muratori non dicevano niente, una finta di sgridata se sparpagliavamo troppo la sabbia, poi la raccoglievano con la pala, ci scappava uno scappellotto e un "fate i bravi che sennò…".
Qualche volta, il giorno dopo, trovavamo biglie e macchinine disperse, bene in vista: chissà, magari una partitina se l'erano fatta anche loro, la sera, prima di chiudere il "cantiere".
Anche la vecchia villetta della Nini è ancora lì: è stata la mia prima casa. Era già vecchia allora, e la dividevamo con una vecchia zia – la sorelladellacuginadellacognatadelnipote ecc. ecc. – e sua figlia, nubile (zitella, rende di più l'idea).
Il vecchio cancelletto non c'è più, peccato. Bacchettine di ferro lavorato a torciglione, con la punta a lancia e con dietro una rete fitta fitta, sempre arrugginita. Il cancello grande non l'avevo mai visto aperto: chiuso da anni, era stato coperto dai cespugli.
E il giardino? Minuscolo, ma allora mi sembrava enorme, con i due grandi cespugli a fianco dell'entrata. In primavera erano uno spettacolo di fiori bianchi, a grappolo: se ascolto bene sento ancora il ronzio delle api che banchettavano.
Mi rivedo piccoletta, sotto gli occhi sornioni della "zia", giocare alla mamma con le mie bambole preferite: se il bambino era piccolo, la borsa dell'acqua calda, piena ovviamente, con un vecchio scialletto azzurro; se era grande, l'asse da bucato di mia mamma, con un golfino ben allacciato. La bambola di bisquit, alta come me, relegata in un angolo, nel ruolo di dottore a cui portare i bambini malati. Quante chiacchiere, con la zia che dava corda alle piccole disavventure di piccola mamma, lasciandomi provare ogni tanto, di nascosto, le scarpe con i tacchi della figlia.
Come si divertiva, la vecchietta! Due bambine, complici!
Ormai sono quasi arrivata davanti alla mia ultima casa.
Ma lo sguardo va al grande cancello di quella che una volta era una cascina, con le case per i contadini e la casa padronale. Se chiudo gli occhi rivedo l'aia con qualche gallina scappata dal pollaio, i carri per il fieno, la mietitrebbia, i cani alla catena e lei, la Maria.
La Maria era un mito, in paese e non solo. Era vecchissima, piccola e piegata su sé stessa, sempre vestita di nero, con un foulard ben annodato sotto al mento, secca e rugosa. Le mani, segnate dall'artrite e dal lavoro, sembravano artigli. Parlava sempre a voce bassa, poco più di un bisbiglio. A noi bambini faceva un po' paura, eppure il suo sorriso sdentato era così dolce, le sue carezze ruvide ma delicate.
La Maria sapeva segnare le storte, il mal di stomaco, il mal di schiena, il mal di testa.
Mia madre mi portava da lei quando avevo mal di testa e all'epoca ne soffrivo spesso.
Mi sedevo di fronte a lei e lei mi metteva le mani, odorose di cipolla o di piselli appena sgranati, di vecchiaia, sulla fronte, sulla nuca, davanti agli occhi, bisbigliando chissà cosa.
Io chiudevo gli occhi e mi lasciavo cullare da quei tocchi leggeri, dal bisbigliare, dai suoni di tranquilli cortili di campagna, dal suo odore, dal profumo del fieno.
Il mal di testa passava. Forse era suggestione o forse queste capacità esistono davvero, eppure poi stavo meglio. Lei non voleva mai nulla, tornava a sgranare piselli o pannocchie, silenziosa.
Negli anni a seguire nessuna pillola avrebbe fatto effetto così in fretta.
Ed ecco la villetta dei miei. Non è cambiata molto. Come accade ricordando le cose con gli occhi del passato, la rivedo più grande, il giardino era più grande, l'orto era più grande.
Hanno cambiato la cancellata, adesso ci sono delle siepi e l'edera nasconde quasi l'entrata.
Strano! Mi aspettavo emozioni diverse. Eppure, ci ho abitato tanti anni, lì. Invece niente.
È lì che i litigi dei miei mi hanno rubato l'incoscienza dell'infanzia, rattristato un'adolescenza che non aveva visto contestazioni: cosa potevo contestargli poi? Che ero stufa di vivere l'altalena dei loro umori, dei loro rancori, delle loro false riappacificazioni?
È lì che passavo i pomeriggi, leggendo accovacciata sui gradini o sdraiata sul prato, badando alle mie sorelle, saltellando in giardino a cacciare le libellule o le farfalle da chiudere nei vasetti, oppure nell'orto con il nonno, in cucina con la nonna, a pulire le verdure per il minestrone.
Certo, ci sono stati anche momenti allegri, dietro a quelle siepi, ma oggi non me li ricordo.
Non li voglio ricordare.
Oggi ho voglia di quella rabbia che vorrei urlare a loro, per fargli male, per farli soffrire.
Per fargli capire quanto avevo sofferto.
Si sono fatti in quattro per noi, per non farci mancare il necessario e qualcosa di più del necessario, ma adesso mi sento come se non avessi avuto niente. Niente di quello che era veramente necessario.
Ho solo del vuoto dentro.
Vorrei avere del dolore, ma non c'è.
Vorrei avere nostalgia, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di dire parole, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di ferire, ma non c'è.
Vorrei… cosa vorrei, ormai?
Ho passato la notte da mia madre, in città: la stanchezza mi ha dato la scusa per non uscire con la sua amica del momento e stamattina me ne sono andata presto, prima che i suoi malanni della domenica prendessero forma.
Sono andata al cimitero. Era presto ma il custode è stato molto gentile: - Venga signora, le apro, non si preoccupi!
- No grazie, non voglio entrare.
Non ce l'ho fatta, papà.
Volevo entrare e chiederti scusa, di cosa non lo so, ma ti avrei chiesto scusa.
Scusa papà, per essermi fatta convincere che tu avevi tutte le colpe: ero piccola, papà. Per me uomo e donna significavano papà e mamma, non potevo capire le cose dei grandi.
Perdonami papà, per essermi lasciata convincere che non ci volevi poi così bene: ero una bambina, papà, eppure avevo capito la fatica di costruire la nostra casa, un pezzo ogni domenica, con i tuoi amici ad aiutarti.
La fatica di un lavoro per le mezze giornate di quando facevi i turni, in fabbrica.
Nella mia testolina confusa avevo intuito che c'era qualcosa di sbagliato, che forse c'erano altri modi di raccontare le cose, di vivere le giornate, di essere amata e soprattutto di amare.
Scusami papà, per aver aspettato tanto, anche quando ho capito le fatiche di un matrimonio, di crescere un figlio - la tua splendida nipote - a dirti che adesso non starei più dalla parte di uno o dell'altra, ma accanto a voi, che non è mai giusto dover scegliere.
Non ce l'ho fatta, papà.
Quel cancello è rimasto chiuso.
Aprile 2007
Non sono mai più tornata davanti a quell'ultimo cancello.
Al perché ho dato tanti nomi: impegni, lontananza, pigrizia. Vigliaccheria. Il tempo che passa troppo veloce, che aggiusta le cose, lasciandole più fragili di prima.
Al non avere una ragione per farlo che non siano le ricorrenze.
Al voler chiudere con certe cose.
Senza riuscirci.
Oggi però ho trovato il coraggio per le parole: un’amica mi ha regalato un libro, si intitola “Le ore contate”.
Quel contate assomiglia tanto a raccontate, le ore raccontate, le ore trascorse a riordinare i ricordi e a cercare parole semplici con cui contarti come sono adesso.
Ho scritto.
Hai visto quante volte ho ripetuto "papà"? Forse per tutte le volte che avrei voluto pronunciarla e non ho trovato la voce.
Ho deciso, papà: le incertezze iniziali e le ripetizioni le lascio, fanno parte ormai di questa storia, come tu, nel bene e nel male che abbiamo dentro di noi, fai parte della mia vita.
Forse queste parole te le porterò e se il cancello sarà chiuso, spero in un custode gentile che lo apra.
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"Quindi sappiatelo, e consideratemi pure presuntuoso, ma io non scrivo per voi. Scrivo per me e, al limite, per un'altra persona che può capire. Spero di conoscerla un giorno… G. Laquaniti"
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Re: Giro giro tondo
Ciao @Susanna
ho letto questo racconto in “raccoglimento”. Non so se la storia sia personale ma, per la verità che trasuda da ogni parola, propendo per il sì. Io credo che forse il padre in questione non potrà leggere le parole che hai scritto, ma le avrà sentite pronunciare dal tuo cuore.
Molto forte la presa di coraggio iniziale nel voler trasformare quella terza persona in prima.
Dal punto di vista della scrittura trovo la parte iniziale e finale asciutte nella stesura e dense di emozioni. Molto molto belle da leggere e interiorizzare. La parte centrale è deliziosa per i ricordi e le descrizioni di una realtà di paese e di personaggi da quadro naïf.
Grazie per la condivisione e davvero brava.
ho letto questo racconto in “raccoglimento”. Non so se la storia sia personale ma, per la verità che trasuda da ogni parola, propendo per il sì. Io credo che forse il padre in questione non potrà leggere le parole che hai scritto, ma le avrà sentite pronunciare dal tuo cuore.
Molto forte la presa di coraggio iniziale nel voler trasformare quella terza persona in prima.
Dal punto di vista della scrittura trovo la parte iniziale e finale asciutte nella stesura e dense di emozioni. Molto molto belle da leggere e interiorizzare. La parte centrale è deliziosa per i ricordi e le descrizioni di una realtà di paese e di personaggi da quadro naïf.
Grazie per la condivisione e davvero brava.
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Re: Giro giro tondo
Tutta realtà. Purtroppo. Non è facile raccontarsi e raccontare il proprio vissuto, ma arriva il momento in cui si deve farlo. E l'età non conta.Petunia ha scritto:Ciao @Susanna
ho letto questo racconto in “raccoglimento”. Non so se la storia sia personale ma, per la verità che trasuda da ogni parola, propendo per il sì. Io credo che forse il padre in questione non potrà leggere le parole che hai scritto, ma le avrà sentite pronunciare dal tuo cuore.
Molto forte la presa di coraggio iniziale nel voler trasformare quella terza persona in prima.
Dal punto di vista della scrittura trovo la parte iniziale e finale asciutte nella stesura e dense di emozioni. Molto molto belle da leggere e interiorizzare. La parte centrale è deliziosa per i ricordi e le descrizioni di una realtà di paese e di personaggi da quadro naïf.
Grazie per la condivisione e davvero brava.
Il paese esiste, ovviamente, e quando mi è capitato di tornarci, di percorrere quella via - oggi posso farlo anche con Google - è sempre più spento. Belle ville nuove, quartieri curati ma è un paese dormitorio. A quei tempi si giocava in strada, merende a casa di tutti, scappellotti e sgridate senza madri che si lamentano, conoscevano i loro polli...
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Re: Giro giro tondo
Non è facile ripercorrere le tappe dolenti del vissuto, anche per pudore di certi sentimenti, a volte, ma tu ci sei riuscita, e senza filtri, creando empatia nel lettore. Per te, penso sia stato liberatorio.
Brava.
Brava.
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Re: Giro giro tondo
Arriva anche il momento in cui "nascondere" è più pesante che ricordare e allora, giustamente come dici, è liberatorio narrarsi. Il dolore, le conseguenze di certi eventi non passano di certo, il tempo non sempre aggiusta le cose, le attenua solamente. Condividere, a volte, toglie un po' dl peso che certe vicende lasciano sulle nostre spalle.FraFree ha scritto:Non è facile ripercorrere le tappe dolenti del vissuto, anche per pudore di certi sentimenti, a volte, ma tu ci sei riuscita, e senza filtri, creando empatia nel lettore. Per te, penso sia stato liberatorio.
Brava.
Grazie a tutti di aver capito.
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Re: Giro giro tondo
Cara Susanna,
hai fatto bene a condividere questo racconto che ha tanto atteso d’essere scritto; vi ho trovato diversi punti di interesse.
Anzitutto mi ha attirato il discorso sulle difficoltà della scrittura autobiografica. Poteva venirne fuori un metaracconto; così non è stato, ma non era questo l’obiettivo che ti proponevi di raggiungere. Volevi parlare di un magone che non andava mai giù, ma hai saputo farlo evitando i rischi dell’autobiografia: lo sfogo ombelicale, e il narcisismo.
Ti sei posta dei quesiti.
- Pdv: prima o terza persona?
- Tecniche narrative: Riferire i pensieri come ricordi, come monologhi o dialoghi tra te e l’altra te?
- Trama: ovvero come ricucire i pezzi di una vita fatta a pezzi.
- Coprotagonista: Come far apparire chi non c’è. La figura del padre aleggia in tutto il racconto.
Ognuno di questi punti richiederebbe una discussione, ma cerco di sintetizzare per proporre qualche suggerimento.
Una volta scelto il pdv, eliminerei il primo incipit.
L’uso delle tecniche di scrittura adottate rivela incertezze; mi sembra il punto debole del testo.
La trama si snoda attraverso un percorso che diventa il filo conduttore del racconto: rifare la strada fatta in fretta al mattino, rivedere la stessa sequenza di porte e cancelli che si animano di presenze.
È un modo per trovare le parole e, trovatele, per trasformare le ore passate in ore raccontate. La parola scritta diventa una sorta di terapia nel ridare senso a ciò che si pensava insignificante o non si voleva ricordare.
Così ecco il cancello della scuola, sul cortile che si anima di corse, di cadute di bimbi nei loro grembiulini, così una folla di personaggi evocati dai luoghi ricompaiono nei loro gesti, parole, azioni a ogni soglia, a ogni casa: Fabrizio, Cinzia, Iris, il geometra, la Nini, la Maria. Tutti a ricomporre il puzzle di un’infanzia che se non è stata felice, ha pure avuto momenti lieti.
Davanti all’ultima casa dove la famiglia ha abitato prima di disgregarsi, tuttavia, non affiorano emozioni, solo un vuoto grande.
“Vorrei avere del dolore, ma non c'è.
Vorrei avere nostalgia, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di dire parole, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di ferire, ma non c'è.”
Il percorso termina davanti al cancello del cimitero, dove la protagonista non riesce a entrare, ma inizia uno struggente monologo muto col padre.
La centralità di questa figura si rivela fin dall’inizio quando Il padre morto è descritto attraverso gli oggetti rimasti nell’ultima abitazione, nel disordine lasciato, nella ritrosia della figlia a toccare i medicinali scaduti, le cose da ammalato.
Ma è il finale di parole trovate, scritte e mai dette, il punto più alto del racconto; qui davvero non cambierei una virgola.
Nelle parti precedenti, invece, generosi tagli di frasi renderebbero, a mio parere, più fluida e coesa la struttura del testo, migliorandolo.
hai fatto bene a condividere questo racconto che ha tanto atteso d’essere scritto; vi ho trovato diversi punti di interesse.
Anzitutto mi ha attirato il discorso sulle difficoltà della scrittura autobiografica. Poteva venirne fuori un metaracconto; così non è stato, ma non era questo l’obiettivo che ti proponevi di raggiungere. Volevi parlare di un magone che non andava mai giù, ma hai saputo farlo evitando i rischi dell’autobiografia: lo sfogo ombelicale, e il narcisismo.
Ti sei posta dei quesiti.
- Pdv: prima o terza persona?
- Tecniche narrative: Riferire i pensieri come ricordi, come monologhi o dialoghi tra te e l’altra te?
- Trama: ovvero come ricucire i pezzi di una vita fatta a pezzi.
- Coprotagonista: Come far apparire chi non c’è. La figura del padre aleggia in tutto il racconto.
Ognuno di questi punti richiederebbe una discussione, ma cerco di sintetizzare per proporre qualche suggerimento.
Una volta scelto il pdv, eliminerei il primo incipit.
L’uso delle tecniche di scrittura adottate rivela incertezze; mi sembra il punto debole del testo.
La trama si snoda attraverso un percorso che diventa il filo conduttore del racconto: rifare la strada fatta in fretta al mattino, rivedere la stessa sequenza di porte e cancelli che si animano di presenze.
È un modo per trovare le parole e, trovatele, per trasformare le ore passate in ore raccontate. La parola scritta diventa una sorta di terapia nel ridare senso a ciò che si pensava insignificante o non si voleva ricordare.
Così ecco il cancello della scuola, sul cortile che si anima di corse, di cadute di bimbi nei loro grembiulini, così una folla di personaggi evocati dai luoghi ricompaiono nei loro gesti, parole, azioni a ogni soglia, a ogni casa: Fabrizio, Cinzia, Iris, il geometra, la Nini, la Maria. Tutti a ricomporre il puzzle di un’infanzia che se non è stata felice, ha pure avuto momenti lieti.
Davanti all’ultima casa dove la famiglia ha abitato prima di disgregarsi, tuttavia, non affiorano emozioni, solo un vuoto grande.
“Vorrei avere del dolore, ma non c'è.
Vorrei avere nostalgia, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di dire parole, ma non c'è.
Vorrei avere il coraggio di ferire, ma non c'è.”
Il percorso termina davanti al cancello del cimitero, dove la protagonista non riesce a entrare, ma inizia uno struggente monologo muto col padre.
La centralità di questa figura si rivela fin dall’inizio quando Il padre morto è descritto attraverso gli oggetti rimasti nell’ultima abitazione, nel disordine lasciato, nella ritrosia della figlia a toccare i medicinali scaduti, le cose da ammalato.
Ma è il finale di parole trovate, scritte e mai dette, il punto più alto del racconto; qui davvero non cambierei una virgola.
Nelle parti precedenti, invece, generosi tagli di frasi renderebbero, a mio parere, più fluida e coesa la struttura del testo, migliorandolo.
mirella- Padawan
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Re: Giro giro tondo
Grazie Mirella per la lettura e per la disamina. E' un racconto rimasto lì per tanto tempo, ogni tanto una lettura. Poi arriva il momento in cui deve uscire, per tanti motivi. Di tanto in tanto - potenza della tecnologia - con Google ripercorro quella strada e tutto torna, perchè poco è cambiato.mirella ha scritto:Cara Susanna,
hai fatto bene a condividere questo racconto che ha tanto atteso d’essere scritto; vi ho trovato diversi punti di interesse.
Ma è il finale di parole trovate, scritte e mai dette, il punto più alto del racconto; qui davvero non cambierei una virgola.
Nelle parti precedenti, invece, generosi tagli di frasi renderebbero, a mio parere, più fluida e coesa la struttura del testo, migliorandolo.
Sul tagliare non saprei cosa lasciare indietro, perchè tutto è nel mio passato. Però accetto volentieri un altro punto di "penna", magari con un messaggio privato, per non occupare troppo spazio qui, potremmo condividere una seconda versione: tutto serve. Tanto quello che è stato è stato, e non me ne avrei sicuramente a male.
Un abbraccio
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Susanna- Maestro Jedi
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Re: Giro giro tondo
Lo farò al più presto.Promesso.
mirella- Padawan
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