Lettera dai fondi del caffè
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Lettera dai fondi del caffè
LETTERA DAI FONDI DEL CAFFE’
Il risveglio
Come accade da qualche settimana, Marco si sveglia all’improvviso: in un attimo passa da un sonno grigio e senza sogni alla veglia. Ad occhi chiusi cerca un calore nel cuscino accanto al suo: trova solo freddo.
Respira piano, per non coprire un suono, una voce, un rumore ma si ritrova ad ascoltare il silenzio.
Vorrebbe riaddormentarsi, di colpo come si è svegliato, per tornare a sognare come non gli accade più da tempo, per riassaporare il gusto dei colori evanescenti di una notte serena.
Nulla.
Si alza, rassegnato a dover iniziare un nuovo giorno, arriva alla porta inciampando nelle coperte che un sonno agitato ha scalciato a terra, negli abiti seminati la sera prima, e la sera prima ancora.
Allo specchio del bagno incontra uno sconosciuto dai capelli lunghi, occhiaie profonde, la barba di qualche giorno e uno sguardo spento, malato.
Schifato da quell’immagine, si trascina barcollando in cucina.
Cucina! La si potrebbe anche chiamare discarica a cielo chiuso: scatolette, lattine, confezioni di pizza, bottiglie di acqua a metà, piatti sporchi, bicchieri dimenticati in ogni angolo. L’aria è pesante e muffosa.
Si lascia cadere a terra, appoggiandosi al frigorifero.
Simona, dov’è Simona? Anche stamattina non c’è. Quella un tempo era la sua cucina, sempre ordinata, ma lei non se ne occupa più. Perché?
Il tempo con Simona
Marco aveva impiegato mesi a convincere Simona che era davvero innamorato di lei, era arrivato a fare il pagliaccio, lui sempre così serio e posato.
Gli ci erano voluti altri sei mesi per persuaderla a dividere con lui un appartamentino in centro, che da quel bellissimo primo giorno assieme si era riempito di luce e di colori, di allegria.
Del loro amore, di risate, di musica.
Un piccolo mondo solo per loro due, perfetto.
“Loro”, maledetti, gliel’avevano portata via in otto mesi: lei era stata subdola, se l’era fatta amica silenziosamente, giorno dopo giorno, ingannandola dolcemente.
Lui si era impadronito della sua anima, della sua mente, della sua forza e allegria: non aveva avuto scampo, Simona, la sua Simona.
Loro erano stati troppo forti.
Lei, lui, loro: non li avevano mai chiamati per nome, avevano fatto parte della loro vita, avevano devastato la loro vita, ma non avevano trovato un nome con cui maledirli.
Gli altri sì che li chiamavano per nome: malattia, cancro.
Loro no.
Per non dargli la soddisfazione di ammetterne la prepotenza con cui avevano invaso il loro mondo, distruggendolo. Avevano lottato assieme, fingendo entrambi per la speranza dell’altro, che ne sarebbero usciti vincitori.
Era solo questione di tempo.
Tempo, tempo che era fuggito velocemente, scandito da ore interminabili.
Il tempo di Simona.
La promessa
Da qualche parte squilla un telefonino.
Marco risponde quasi in trance, senza riscuotersi veramente dai suoi pensieri: è Vittoria, una sua collega, che ogni mattina passa a vedere come sta.
Adesso non sale più: solo uno squillo. Se hai bisogno sono qui.
Anche stamattina Marco rimanda il ritorno al lavoro: in ufficio si guarderanno silenziosamente negli occhi, sospirando si occuperanno anche delle sue pratiche, chiedendosi altrettanto silenziosamente se sia giusto soffrire così tanto per aver tanto amato o se sia giusto amare tanto per poi soffrire così atrocemente.
Le stesse domande che si pongono da alcune settimane e la stessa risposta: un silenzio pieno di dubbi.
Marco torna in cucina, ha sete: la sera prima deve aver mangiato le solite schifezze della rosticceria all’angolo, fredde e unte. Cerca un bicchiere, una tazza pulita.
Si ferma davanti ad uno degli armadietti della cucina: l’unico pulito.
Davanti a quell’antina bianca e immacolata Marco improvvisamente si rende conto del suo stato, e si vergogna di essersi abbruttito fino a quel punto, di non aver lottato per mantenere la promessa fatta a Simona di continuare a vivere anche per lei.
Stringe i denti, ordina al cervello di far alzare il braccio, alla mano di aprire lo sportello, agli occhi di vedere le tazzine del caffè di Simona, i sacchetti del suo caffè.
Lo sportello è aperto: assieme al profumo del caffè arrivano le risate di Simona, risate di gola, piene e contagiose, un alito del suo profumo.
A Marco non piace il caffè: quello strano sapore che rimane in bocca a lungo, quell’amaro che toglie spazio agli altri sapori proprio non era mai riuscito a farselo piacere. Il profumo che saliva dalla caffettiera non gli regalava nessuna sensazione di calore, di sole.
Però aveva imparato a farlo bene, per la sua Simona che negli ultimi giorni non aveva più le forze neanche per quel piccolo gesto.
Il caffè era l’unica bevanda che riusciva a tenere nello stomaco, calda e ben zuccherata le regalava un po’ di sollievo.
A dispetto dei medici.
- Signora, non può bere tutto quel caffè, le farà male.
Marco aveva preso per il bavero quel dottorino dall’aria saccente, lo aveva sbattuto contro il muro, e gli aveva urlato a voce bassa e roca tutta la sua rabbia.
- Il caffè, il caffè le fa male? Sta morendo, “quello lì” se la sta mangiando viva e tu mi vieni a dire che il caffè le fa male! Vattene e non ti avvicinare mai più a lei, hai capito? MAI PIU’!
Quel giorno stesso l’aveva riportata a casa: pochi giorni pieni di parole e di silenzi, solo per loro.
Marco chiude lo sportello: è senza fiato, la voglia di piangere e urlare gli ha tolto il respiro, chiudendogli lo stomaco in una morsa micidiale. Ma ancora una volta non succede nulla.
Il ragazzo si guarda intorno, torna a guardare nell’armadietto e improvvisamente prende una decisione.
Se deve vivere anche per Simona, deve imparare ad apprezzare il caffè, ogni tazzina sarà il suo modo per rafforzare i ricordi, per non perderne neanche uno.
I bambini fanno giuramenti eterni, promesse che sanno di certezza, dimenticate al primo litigio o alla prima amicizia nuova. Così si sente Marco: un bambino che fa una promessa, che giura manterrà, per sentirsi grande, importante.
Per sentirsi vivo, per allontanare il pensiero di morire, di farla finita.
“Se la fai finita, non la rivedrai mai più, magari in un sogno che prima o poi farai lei ti verrà incontro.”
Quante volte Marco si è lasciato cullare dal desiderio dell’oblio più totale, quante volte si è imposto di tornare indietro, senza capirne il motivo.
“Il caffè… il caffè di Simona! Il tuo caffè, amore mio infinito!”
Però non può farlo in mezzo a tutta quella sporcizia e a quel disordine.
La prima volta
E’ mezzogiorno.
Marco ha lavorato senza un attimo di sosta, ripulendo e riordinando ogni angolo della cucina. Ha portato ai cassonetti dell’immondizia almeno cinque sacchetti di cibo andato a male, lattine, giornali comprati e abbandonati in un angolo. Ha fatto pure due lavatrici, seguendo le istruzioni che Simona gli aveva scritto per bene.
Adesso sarebbe pronto. Anche lui è tornato alla civiltà: una doccia bollente, e abiti puliti qualche volta fanno piccoli miracoli.
No, c’è ancora qualcosa che non va.
Esce di corsa e torna un’ora dopo con buste della spesa rigonfie di provviste. Cibo vero.
Finalmente è il momento: sul tavolo giallo una tovaglietta colorata, una tazzina, un cucchiaino, la caffettiera bollente e sul piattino un quadratino di zucchero tagliato in due.
Riempie la tazzina a metà, mezza zolletta di zucchero che fa sciogliere per bene e poi assaggia.
Non gli piace, inutile, il caffè non gli è mai piaciuto, ma si obbliga a finirlo, a non bere dell’acqua, a non correre a lavarsi i denti. Chiude gli occhi e cerca un ricordo di Simona.
Forse è solo suggestione, ma gli pare che i tratti del viso della sua donna siano più decisi, freschi. Si lascia tentare da un’altra tazzina: va già meglio, prova ad aggiungere una lacrima di latte. Non male. Per cominciare, almeno.
Marco passa il pomeriggio a riordinare il resto della casa, ascoltando il sapore del caffè. Si ritrova a ridacchiare: cerca di fare il meno rumore possibile per ascoltare il sapore del caffè! Da non crederci!
- Sto diventando pazzo, o forse lo sono già! Macchisenefrega!
Si prepara una cena finalmente decente, si concede persino qualche pagina di un libro che avevano iniziato tanto tempo fa, quando ancora Simona riusciva a concentrarsi sulle parole.
Simona, Simona… ogni gesto, ogni pensiero finisce inesorabilmente con “Simona diceva, Simona faceva”. Finirà mai questa tortura?
Comunque, stasera niente caffè, la giornata è stata piena di emozioni e il sonno lo sorprende, all’improvviso: si sveglia la mattina dopo sul divano, le luci ancora accese, infreddolito ma finalmente riposato.
In cucina trova tutto pronto per la sua personale cerimonia, che si gusta attimo per attimo, per imparare: la caffettiera che inizia a gorgogliare, il profumo che si spande, curioso di raggiungere ogni angolo della stanza, il caldo della tazzina stretta tra le mani.
Squilla il cellulare, come ogni mattina, ma oggi Marco si fa trovare pronto in strada. Si sente come fosse il primo giorno di scuola, un po’ intimidito.
Lo accolgono con un sorriso, un abbraccio.
Viaggio nel passato
Sono passati due mesi, Marco ha ripreso una vita quasi normale. Normale almeno per gli altri: una serie di azioni scontate riempie le sue giornate, qualche sogno ha fatto capolino in notte ancora troppo lunghe.
E in mezzo a quei mille niente, il suo rito del caffè.
Strano come un gesto così semplice possa diventare il momento più importante della giornata, quasi bramato.
Ogni sera, dopo aver rassettato per bene la cucina, sceglie con cura la musica e poi si gode la sua tazzina di caffè, scambiando due chiacchiere con Simona, finalmente libero da menzogne. Le racconta della sua solitudine, del vuoto che sente attorno, del vuoto che sente dentro. Di come sta lottando per non arrendersi. Della paura di non farcela.
Una mattina si accorge che l’ultimo sacchetto di caffè sta finendo.
- Dov’è la lista della spesa? Ah, eccola!
- Non comprerai mica il caffè al supermercato?
Ogni tanto Marco parla da solo, succede, non è grave, anzi è liberatorio.
- No, pensavo di provare in quella torrefazione di via Garibaldi.
- Ma quando mai! Devi trovare il negozio dove lo comprava Simona.
- Simona se lo faceva mandare, arrivava con un corriere.
- Magari sul sacchetto c’è l’indirizzo, il telefono.
In effetti sul sacchetto trova l’indirizzo: un paesino sulle colline tra Toscana e Umbria. Posto strano per una torrefazione. Il numero è sempre occupato: al terzo tentativo Marco si decide. Mette in una borsa l’occorrente per qualche giorno di vacanza, un libro e via, senza pensarci troppo.
Il paese è davvero minuscolo, passa quasi inosservato in un paesaggio incantevole, che riempie gli occhi di Marco con colori dolci e tranquilli.
Una chiesetta, qualche palazzotto antico: tutto è ben curato, sui campanelli molti nomi stranieri. Un borgo tornato a nuova vita, un piccolo paradiso per chi può permetterselo in questa vita.
Trova facilmente il negozio, che pare uscito da un romanzo del primo novecento, quasi nascosto dall’ombra dei portici di una bellissima piazzetta. Infissi scuri, l’insegna di ottone scurita dal tempo, la vetrina che assomiglia più alla finestra di una casa. Spinge la porta d’ingresso, dai vetri smerigliati: lo accolgono il suono di una campanella e un intenso profumo di caffè.
Il mobilio è vecchio, reso lucido dall’uso, ma si vede che è tenuto con cura. Il pavimento di legno risuona piacevolmente sotto i suoi passi, il soffitto è basso e a far luce alcune lampade decisamente vecchiotte.
Dal soppalco scende lentamente una donna. E’ molto magra, le mani sono segnate dall’artrite, i capelli bianchi: difficile darle un’età con quella poca luce, forse 70,80 anni. Gli abiti semplicissimi denotano classe, uno scialle leggero è fissato sulla spalla da una farfalla d’argento che pare pronte a spiccare il volo. Colpiscono gli occhi: verdi, brillanti di vita.
- Buon giorno, signora.
- Buon giorno a lei giovanotto.
- Vorrei del caffè” – E cos’altro vorresti, qua dentro? Sveglia, Marco!
- Direi che siamo nel posto giusto: si guardi un po’ attorno! Non si senta sciocco: questo posto fa sempre quell’effetto. Disorienta. È il profumo, anzi i profumi. Se uno non è abituato si sente un po’ stordito all’inizio. Ha una vaga idea di quale sia il suo caffè?
- Veramente… ne vorrei di questo. – E porge alla donna il sacchetto con quel poco che ne era rimasto.
- Umm… 1212, vediamo un po’. A proposito, mi chiamo Luciellena. E lei?
- Marco. Luciellena, che strano nome!
- Genitori indecisi, semplicemente. Mi chiami Lene, come fanno tutti.
La donna si mette a scorrere le cartelline di un vecchio schedario, vecchio come ogni cosa lì dentro: impiega qualche minuto a trovare ciò che cerca, dando tempo a Marco di guardarsi attorno.
Sugli scaffali di legno scuro, decine di vasi di porcellana, come ne aveva visti in alcune farmacie, dai colori caldi e finemente lavorati, e una collezione di scatole di latta dai disegni coloratissimi. Un’intera parete era occupata da caffettiere, macinacaffè di legno, tazzine dalle fogge strane.
Si sente trasportato in un mondo lontano, dove ogni cosa aveva il suo posto, ed era il posto giusto.
- Ecco qua! 1212. Una miscela delicata e molto armoniosa, la preparo appositamente per una signorina, anzi una signora di… - Lene stava controllando una cartellina color avorio.
- Simona, per Simona. Era mia moglie. Vorrei quel caffè, per favore. Lo voglio.
Fuori, tutto d’un fiato, per non avere il tempo di rimangiarsi le parole.
- Era?
- E’ morta quattro mesi fa di malattia. – Non è vero, non è morta! Falsi, bugiardi!
- Oh santo cielo, non è possibile! Povera bambina, la mia povera bambina! Oh angeli del cielo! Morta, morta e io non lo sapevo!
Lene è agitatissima, cammina avanti e indietro, spostando barattoli, cincischiando con le frange dello scialle, portandosi le mani ossute sugli occhi, fra i capelli. Sembra disperata.
Poi si avvicina a Marco, gli prende il viso tra le mani, gli accarezza i capelli come farebbe con un bambino, un po’ ruvidamente.
- E tu, tu come stai? Amore di Simona, come stai?
Bastano quel gesto e quelle semplici parole per abbattere le ultime difese di Marco, che finalmente riesce a liberare tutto il tuo dolore in un pianto furioso, che lo scuote per lunghissimi minuti.
Senza vergogna, senza lottare, senza ricacciare indietro le lacrime.
Lene non prova a consolarlo ma neanche lo lascia solo: certo, le lacrime degli altri mettono sempre a disagio, ma tra di loro pare esserci qualcosa che supera ogni barriera.
- Non mi aveva detto di essere malata. –
Lene sembra quasi severa, come se le avessero nascosto qualcosa che la riguardasse.
Marco si è calmato, si è dato una rinfrescata al viso: si sono accomodati in un piccolo salotto, in penombra. Ormai è sera e nessuno verrà più a disturbarli.
- Non capisco, perché Simona avrebbe dovuto dirle… della malattia?
- Simona mi scriveva spesso, anche se non doveva ordinare il caffè. Mi parlava degli studi, del lavoro, degli amici, di tantissime cose.
Marco sembra desideroso di una conferma.
- Ma certo, mi parlava anche di te! Così appiccicoso, sdolcinato. Un bambinone! Sì, sì, anche un gran buffone!
- Oh, andiamo bene!
- Scherzavo! Ti adorava, non riusciva a immaginare la vita senza di te. Eri davvero l’uomo della sua vita.
- Ma come mai…
- Come mai mi scriveva? Non lo so, non l’ho mai capito veramente, ma in tanti lo fanno. Tantissimi clienti vengono qua, chiacchieriamo, studiamo il caffè che si addice al loro carattere, ai loro gusti.
- Vuol dire che non tutti i caffè sono uguali o simili?
- Ma nel modo più assoluto! Ognuno potrebbe avere il suo, dal gusto unico! Invece si adattano alle miscele del supermercato. Ma per carità, non mi ci far pensare!
- Diceva delle lettere?
- Ah, sì! Moltissime, ma questo succedeva già al tempo di mio nonno, che aveva aperto questo negozio e a quei tempi era un negozio di lusso, sai? Oggi è solo vecchio, ma nel 1850 era una meraviglia. Dicevo…
Già ai tempi di Romualdo Hubery i clienti dapprima scrivevano solo per ordinare il caffè, poi Romualdo inviava loro gli auguri di Natale, di buon onomastico, era cortese rispondere e anche facile raccontare qualcosa della vita quotidiana: i bambini discoli, la nonna tiranna, le aspirazioni per una brillante carriera, i dispiaceri.
- Sapessi Marco, qualcuno scambiava la nostra bottega per una sorte di… beh oggi sono sedute dallo psicologo, in realtà la gente ha solo bisogno di sfogarsi: piccoli grandi dolori, la gioia di un’avventura o di un amore segreto! Persino durante la guerra, anzi le due guerre, era arrivata qualche letteria. Tremende, ti assicuro, tremende.
La nonna di Lene, Miriam, cominciò a raccogliere le lettere in piccole cartelline colorate, rispondendo con semplici bigliettini, con parole di conforto se occorreva.
- E quanti segreti! Non lo immagineresti mai, ti assicuro, di quanti piccoli e grandi segreti la gente ha affidato a una lettera per ordinare del semplice caffè!
- Non l’avrei mai detto! E ancora oggi le scrivono, con carta voglio dire, carta e penna?
- Sì sì, qualcuno usa il computer ma poi finisce per tornare alla penna. E’ più spontaneo, meno studiato.
- Potrei… potrei vedere quelle di Simona?
Lene lo guarda dritto negli occhi. – Non sei ancora pronto, Marco. Stai soffrendo ancora troppo profondamente. Credimi, ti farebbero solo del male. Più avanti.
- Quando più avanti? Quando? E se non ne avessi il tempo, la forza?
- Avrai tutto il tempo e la forza la troverai, non dubitare.
Marco si lascia convincere, Lene sembra così sicura di quello che ha detto: anche la sua sembra una promessa, di quelle che saranno mantenute.
Il ragazzo si ferma qualche giorno, gironzola nei dintorni, si concede qualche breve passeggiata, ma finisce sempre per tornare da Lene, con la segreta speranza che la donna capitoli e gli faccia leggere le lettere.
Niente da fare! Lo guarda sorniona, gli arruffa un po’ i capelli, poi trova qualcosa da fare o da raccontargli per distrarlo. È orgogliosa del suo negozio, dei suoi impianti antichi, del lavoro portato avanti assieme ad alcuni operai che aveva conosciuto da ragazzina e Marco si lascia incantare dai mille racconti curiosi.
Quando il ragazzo riparte, con i suoi sacchetti di caffè nel baule della macchina e un po’ di nostalgia nel cuore, sono diventati amici, di quella strana amicizia che nasce spesso tra un giovane e un vecchio.
Si salutano con un abbraccio ed un arrivederci.
Lettere dai fondi del caffè
E’ quasi Natale: Marco non ha voglia di feste, di regali, di buonismo ipocrita e di stucchevoli frasi di auguri. Vorrebbe andarsene da qualche parte da solo, ma allo stesso tempo non se la sente di deludere con quest’assenza i suoi genitori e i genitori di Simona, che hanno bisogno della sua presenza.
Tra la posta trova un biglietto. Non ha bisogno di aprirlo per sapere di chi è: profuma di caffè.
Poche righe per un saluto affettuoso e per dirgli che purtroppo di lì a qualche mese la torrefazione sarà chiusa. Gli operai devono andare in pensione e Lene non ha trovato nessuno con cui sostituirli. Qualcuno ha pure riso apertamente di quelle macchine ormai vetuste, accanto alle quali il lavoro era ancora “fatica”: senza neanche un computer a decidere non se ne parla.
Marco non riesce a prendere sonno, continua a leggere e rileggere il bigliettino, una strana idea ha cominciato a frullargli in testa.
Il mattino dopo la decisione è presa: senza neanche farsi la barba si infila una camicia ed un maglione qualsiasi e parte alla volta della sua nuova vita.
Una nuova vita! Strano, non si sente in colpa pronunciando a mezza voce quelle parole: UNA NUOVA VITA.
“Simona, amore infinito, una nuova vita. Dimmi che non sto sbagliando, dimmelo!”
Quando Lene se lo vede davanti, con un sorriso finalmente anche negli occhi, non ne è sorpresa, neanche un po’. Lo stava aspettando.
Ma è Natale, c’è un sacco di lavoro, pacchetti di caffè che devono partire per tutto il mondo, non c’è tempo per “perdere tempo” e Marco si scopre apprendista pasticcione, apprendista col mal di schiena, apprendista senza computer ultima generazione.
Apprendista addormentato sui sacchi di caffè.
Che giornate! Mai un attimo di tregua per un pensiero tutto suo: il tempo è di Lene, le braccia di Marco sono per Lene.
Il negozio è sempre pieno di gente: Marco riscopre il piacere di una gentilezza, di un sorriso donato senza una ragione precisa, ritrova finalmente quella serenità che non sperava più di ritrovare.
Il tempo di Marco
Le feste sono passate da parecchi giorni, nel negozio e nel magazzino c’è finalmente un po’ di pace. I vecchi operai sono andati in pensione ma tornano volentieri a insegnare il mestiere a Marco: e il ragazzo li ascolta, serio, fa un sacco di domande, li fa sentire utili, vivi e si sente lui stesso ogni giorno più vivo.
E’ sera, Lene e Marco si stanno godendo una buona tazza della “loro” miscela segreta, quando la donna, improvvisamente, si alza, prende da un cassetto una piccola chiave e la porge al ragazzo, senza una parola.
E’ la chiave dello schedario delle lettere.
Come può finire una storia come questa?
Storie come questa non finiscono, non cominciano: succedono e basta.
Lene e il suo nuovo amico passeranno le serate a rileggere quelle lettere, ricostruiranno sprazzi di vita, scherzando fino alle lacrime, stringendosi le mani quando le storie sono troppo commoventi per essere raccontate anche solo a mezza voce.
Marco sta pensando di raccoglierle in un libro, tanto sono belle, e sera dopo sera, alla luce di vecchie lambade, le scelgono con cura e Marco le trascrive al computer.
Dovrebbe essere un piccolo libro, poche paginette da leggere magari sorseggiando un buon caffè, per cominciare meglio una giornata, per portarsi appresso un pensiero nuovo.
Qualche volta brontolano pure, si tengono persino il broncio come i bambini, poi si guardano negli occhi, complici, e tutto passa.
Che strane amicizie nascono attorno ad una tazza di caffè!
La cartellina di Simona però rimane ancora chiusa, non è ancora tempo, ma adesso il tempo è stato trovato.
E’ il tempo di Marco, che scorrerà solo per lui.
E per Lei.
Ultima modifica di Susanna il Gio Mag 13, 2021 10:01 am - modificato 2 volte.
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Re: Lettera dai fondi del caffè
Ciao Susanna. Sto piangendo. Ho cominciato questo tuo racconto notando due o tre refusi...e poi... chissenefrega...ho tirato avanti d'un fiato e commosso, mi è sorto un pianto sacro e quieto che prosegue mentre scrivo. Non hai lo stile poetico di David Grossman ma mi hai ricordato i suoi splendidi libri. E ti ringrazio di avermi e averci scritto. Quieto, continuo a piangere.
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Re: Lettera dai fondi del caffè
Senza retorica, mi hai commosso. Il racconto nasce da un'esperienza vera: un collega aveva perso la moglie ancora giovane e per mesi lui ne parlava al presente. Quando arrivavano i momenti dei ricordi (ed essendo lei una collega di occasioni impreviste ce n'erano tante) chiudevamo la porta, filtravamo le telefonate e accoglievamo i pensieri, sempre al presente. Una volta, mentre rientavamo da una trasferta, mentre eravamo in coda in autostrada, improvvisamente mi raccontò del cestino da lavoro della moglie ancora sul divano, dei cosmetici ancora in bagno assieme al suo accappatoio. Erano passati tre anni. Gli dedicai il racconto, lo iscrissi ad un concorso perchè mi sembrava così di potergli dedicare un ringraziamento per la dolcezza di quelle confidenze. E per tante sere ringraziai le code serali che mi permettevano di smaltire il nodo in gola: quando avessi aperto la porta, qualcuno che mi aspettava c'era, e chissenefrega di un incimapo a scuola o di un po' di disordine. Loro c'erano.digitoergosum ha scritto:Ciao Susanna. Sto piangendo. Ho cominciato questo tuo racconto notando due o tre refusi...e poi... chissenefrega...ho tirato avanti d'un fiato e commosso, mi è sorto un pianto sacro e quieto che prosegue mentre scrivo. Non hai lo stile poetico di David Grossman ma mi hai ricordato i suoi splendidi libri. E ti ringrazio di avermi e averci scritto. Quieto, continuo a piangere.
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Re: Lettera dai fondi del caffè
Davvero impressionante questo racconto! Ti prende e ti porta via anche se tu non vorresti, anche se tu sei un vecchio cinico che si dice, leggendo "Non è credibile". E alla fine ti domandi perché poi dovrebbe essere credibile.
Le favole non devono essere credibili, solo così possono dirti cose che altrimenti non vorresti sentire. Ed è chiaro che Lene è una fata e i suoi operai i suoi elfi!
Quello che questa favola ha detto a me, ma sono certo che altri potrà dire cose diverse, anzi che forse potrà dire una cosa diversa a ciascuno, è che non è il dolore che fa crescere: è estrarsi dal dolore che fa crescere. Estrarsi dal dolore è faticoso e spesso doloroso.
Una sola cosa ha alterato l'atmosfera della fiaba, mi ha portato fuori per un attimo: la facilità con la quale accetta l'idea di UNA NUOVA VITA.
E che diavolo! In una favola che si rispetti l'eroe, e qui Marco è l'eroe, deve combattere per sconfiggere il drago! Se no è troppo facile!
Ma allora forse non è una favola, l'ho scritto solo per non piangere.
Le favole non devono essere credibili, solo così possono dirti cose che altrimenti non vorresti sentire. Ed è chiaro che Lene è una fata e i suoi operai i suoi elfi!
Quello che questa favola ha detto a me, ma sono certo che altri potrà dire cose diverse, anzi che forse potrà dire una cosa diversa a ciascuno, è che non è il dolore che fa crescere: è estrarsi dal dolore che fa crescere. Estrarsi dal dolore è faticoso e spesso doloroso.
Una sola cosa ha alterato l'atmosfera della fiaba, mi ha portato fuori per un attimo: la facilità con la quale accetta l'idea di UNA NUOVA VITA.
E che diavolo! In una favola che si rispetti l'eroe, e qui Marco è l'eroe, deve combattere per sconfiggere il drago! Se no è troppo facile!
Ma allora forse non è una favola, l'ho scritto solo per non piangere.
Re: Lettera dai fondi del caffè
@susanna per ora dico solo che mi hai commossa, e tanto.
Poi torno, adesso vado a soffiarmi il naso...
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Re: Lettera dai fondi del caffè
Grazie per la lettura e per 'interpretazione. In realtà non è una favola, purtroppo nasce da un'esperienza che mi ha toccato molto e che a distanza di più di un decennio mi commuove ancora come allora. Il dolore di una perdita non si supera mai, puoi trovare il modo - e qui entrano in gioco dinamiche molto personali e non ripetibili - per conviverci, ma non si va oltre. Una nuova vita, come quella che ho immaginato io, non è una vita nuova, in cui il passato venga scalzato, accantonato o altro, ma una vita diversa, dove cercare una sorta di tranquillità d'animo che ti aiuti a elaborare il lutto, dove i meccanismi che ci impediscono di farci male quando viviamo una perdita importante - e sono meccanismi anche chimici del nostro cervello - ci rimettano un po' in sesto. Può essere la Lele del momento, un amicizia nuova, un lavoro diverso, un impegno sociale... E forse i draghi che Marco deve combattere non sono ancora arrivati: le lettere di Simona non le ha ancora lette. Il collega di cui parlavo prima è tornato al lavoro due giorni dopo le esequie, non ha mancato una sola riunione che ci fosse stata nel periodo immediatamente successivo, era sempre presente e disponibile. Ma tre anni dopo aveva ancora l'accappatoio di sua moglie in bagno.gdiluna ha scritto:Davvero impressionante questo racconto! Ti prende e ti porta via anche se tu non vorresti, anche se tu sei un vecchio cinico che si dice, leggendo "Non è credibile". E alla fine ti domandi perché poi dovrebbe essere credibile.
Le favole non devono essere credibili, solo così possono dirti cose che altrimenti non vorresti sentire. Ed è chiaro che Lene è una fata e i suoi operai i suoi elfi!
Quello che questa favola ha detto a me, ma sono certo che altri potrà dire cose diverse, anzi che forse potrà dire una cosa diversa a ciascuno, è che non è il dolore che fa crescere: è estrarsi dal dolore che fa crescere. Estrarsi dal dolore è faticoso e spesso doloroso.
Una sola cosa ha alterato l'atmosfera della fiaba, mi ha portato fuori per un attimo: la facilità con la quale accetta l'idea di UNA NUOVA VITA.
E che diavolo! In una favola che si rispetti l'eroe, e qui Marco è l'eroe, deve combattere per sconfiggere il drago! Se no è troppo facile!
Ma allora forse non è una favola, l'ho scritto solo per non piangere.
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Re: Lettera dai fondi del caffè
io tengo sempre i fazzoletti a portata di mano, non so mai in cosa mi imbatto leggendo.Hellionor ha scritto:@susanna per ora dico solo che mi hai commossa, e tanto.
Poi torno, adesso vado a soffiarmi il naso...
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O scrivendo.
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"Quindi sappiatelo, e consideratemi pure presuntuoso, ma io non scrivo per voi. Scrivo per me e, al limite, per un'altra persona che può capire. Spero di conoscerla un giorno… G. Laquaniti"
Susanna- Maestro Jedi
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