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Messaggio Da Achillu Lun Giu 03, 2024 12:06 pm

Ho messo le prime cose trovate in camera: maglione oversize con le spalline e jeans a sigaretta, sperando di non incrociare papy. Invece è già in cucina che fa colazione con il Giornale di Montanelli e mi saluta con freddezza.
«Qualcosa di più femminile non ce l’hai?»
Sbuffo. «Tanto nessuno ci fa caso!» Non ho voglia di sputargli in faccia la solita filippica sugli stereotipi, oggi voglio arrivare a Padova rilassata.
«Invece devi farti notare, perché con la filosofia non si mangia se non si eccelle. Mica sei laureata in legge!»
Insomma ha voglia di litigare. Dovrei rinfacciargli ancora una volta che proprio lui si è rifiutato di comprarmi il tailleur pantalone? Ecco che mi sale il magone! Scusami, papy, se la gonna mi fa stare male. Stringo i pugni e inspiro profondamente, ricaccio indietro le lacrime. Mi passa la fame.
Non mi siedo nemmeno. Verso nella tazza un po’ di latte tiepido e il caffè, butto giù d’un fiato la brodaglia senza zucchero e fuggo dalla cucina.
Indosso le mie mitiche Timberland. Quanto mi piacciono! Mi fanno sentire in pace, sembro anche un po’ più alta, forse arrivo al metro e sessanta. Un “ciao” di cortesia e sono già fuori casa.
Pedalare aiuta a rilassarmi, o magari è il freddo cane che mi congela i pensieri, o forse la mia bici con la canna, comprata con i miei soldi delle mie ripetizioni. E non c’è bisogno di correre, devo solo prendere il treno delle sette e ventisei.

Ho appuntamento con Sara davanti al Liviano. Mi aspetta seduta su uno dei ciodi1 davanti all’ingresso, con un total look jeans, scarpe comprese. Si mette a ridere e mi saluta con il suo accento milanese. «Uè, ciao paninara!»
Senza togliere le mani infreddolite dalle tasche, le mostro il parka. «Guarda che non è un Moncler!»
Ci baciamo sulla guancia. «Sei paninara lo stesso. Come stai?»
Sara è dottoranda in psicologia, è un po’ la mia ancora di salvezza per la disforia di genere. «Come sempre. Oggi meglio di ieri. E tu?»
«Bene. Hai letto le fotocopie? Cosa ne pensi?»
Sospiro. «Sì, interessante. Molto. Però… Da una parte sarebbe fantastico avere i documenti con scritto Adamo Rigon. Ma mi spaventa tanto l’intervento chirurgico… per cosa, poi?»
Sara sorride tra lo sbarazzino e il malizioso. «Beh…»
Le do una spintarella. «Mona! Comunque grazie; mi ha fatto bene.»
Ci abbracciamo.
«Allora ti posso chiamare Adamo?»
Ho un tuffo al cuore. Metto le mani avanti. «No! Ti prego, troppo imbarazzante. Cioè, guardami: sembro proprio una femmina. Non… Non…»
Mi mette una mano sulla spalla. «Ok, tranquilla. Un passo alla volta.»
Annuisco. «Grazie.»
Stiamo in silenzio per qualche secondo, poi inspiro profondamente. «Cioè, non ci sono abituata; ho passato tutta la mia vita a sentirmi dire che sono malata. È tutto bellissimo quando mi dici che invece va tutto bene, però… cioè…»
Mi guardo intorno. La piazza si sta ravvivando, piena soprattutto di ragazzi e ragazze che per la maggior parte si dirigono al Liviano. «Le persone non sono tutte Sara Ghezzi e questa cosa mi fa tanta paura.»
È arrivata anche per noi l’ora di salire ai dipartimenti. Oggi non abbiamo seminari ma escono i risultati dei colloqui per le borse di studio. Sara mi stringe il braccio; la sento tremare e questo alimenta la mia agitazione. Saliamo le scale parlando di Spandau e Duran, se è più bella Gold o New Moon on Monday. In corridoio mi viene spontaneo girare verso filosofia. Sara ride e mi tira dall’altra parte.
Il dipartimento di sociologia non è poi così diverso: grandi porte in legno scuro, finestroni che si affacciano su piazza Capitaniato, quadri e foto alle pareti. Siamo tutte e due fuori dal nostro ambiente. Io non riconosco nessuno; Sara invece saluta alcuni compagni, che ricambiano facendo allusioni enigmatiche. Mi sento elettrizzata: vuoi vedere che a lei è andata bene?
Arriviamo alla bacheca di sughero dove sono esposte le comunicazioni agli studenti. Troviamo il foglio che ci interessa. Il suo nome è il primo: Dottoressa Ghezzi Sara, psicologia, sessanta sessantesimi.
Pensavo che si sarebbe messa a saltare e urlare di gioia, invece si limita a dire: «Sì!» alzando le braccia al cielo.
Segue Dottor Montanari Marco, sociologia, cinquantotto sessantesimi.
Il mio nome ancora non c’è; seguono tutta una serie di dottori e dottoresse in sociologia. Penso che sia giusto così, non ero molto fiduciosa nel mio orale. Mi sale la rabbia solo perché speravo di sbattere il risultato in faccia a papy.
«Guarda!» Sara indica una riga nell’elenco e mi abbraccia prima che io riesca a focalizzare.
Dottoressa Rigon Chiara, filosofia, cinquanta sessantesimi.
Mi rendo conto solo adesso che la riga è evidenziata in giallo, come le prime due.
Mi metto le mani davanti alla bocca e scoppio in una risata liberatoria.
«Sei la prima di filosofia! Ma ti rendi conto?»
Annuisco, ma ancora non credo di aver capito bene.
Sara legge la comunicazione esposta sotto la graduatoria: «I vincitori della borsa di studio per il gruppo interdisciplinare che ha l’obiettivo di analizzare le condizioni sociali, culturali e ambientali della popolazione dell’isola di Komodo sono convocati per le ore undici nello studio del professor Rosario Russo. Dai, andiamo a festeggiare!»
Mi trascina verso l’uscita. Io prima vorrei scoprire dove si trova lo studio, ma non c’è modo di farle mollare la presa e la devo seguire per forza.

Quando torniamo in dipartimento, il dottorando di sociologia, di cui non ricordo il nome, è già seduto nell’ufficio del professor Russo e ci accomodiamo anche noi. La stanza è arredata con mobili in legno che sembrano vecchi come il Liviano. La scrivania, riverniciata più di una volta, ha solchi profondi che la attraversano in lunghezza. Dall’altra parte, insieme al professore, c’è l’associato che ha fatto parte della commissione esaminatrice.
Subito dopo i saluti, Russo inizia con le presentazioni. «Lui è il professor Luca De Santis, sarà il coordinatore del gruppo interdisciplinare.»
«Lo conosciamo,» interviene il dottorando di sociologia.
Russo gli lancia un’occhiataccia, poi continua. «Bene. Per qualunque problema, dubbio o perplessità chiedete pure a lui, sarà il vostro punto di riferimento. Dopo vi lascerà il suo interno.»
«Lo conosciamo.» Tutti fissiamo il sociologo, che non si scompone e chiude: «275.»
Russo non so come mantiene la calma. «Lei è?»
Il ragazzo esibisce un forte accento emiliano. «Professore, non si ricorda? Sono Marco Montanari. Ho fatto l’esame di ammissione al dottorato con lei.»
«Ho esaminato tante persone, mi dispiace che proprio lei mi sia sfuggito.» Poi si volta verso di me. «Lei invece?»
Tiro fuori la poca voce che ho. «Chiara Rigon, dipartimento di filosofia.»
Russo annuisce. «Ha fatto la tesi su Habermas, mi diceva De Santis.»
Sorrido. «Sì, mi ha affascinato subito con le sue idee, mi piace quando la filosofia è applicata allo studio critico della società.»
«Bene. Lei?»
La mia amica ha una voce squillante. «Sara Ghezzi, dipartimento di psicologia. Ho fatto la tesi su Schütz.»
«Centodieci e lode, e un piano di studi improntato sulla sociologia fenomenologica. È sicura che non vuol passare da questa parte?»
De Santis si schiarisce la voce. «Rosario, abbiamo bisogno di una dottoranda in psicologia…»
Russo sorride. «Come non detto. Come dite voi giovani? Facciamo rewind? Resti pure dall’altra parte del corridoio, io non ho parlato. Comunque, semmai, tra un anno, se dovesse cambiare idea, le porte qui sono aperte.»
De Santis si schiarisce di nuovo la voce. Russo alza le mani. Io e Sara ridacchiamo.
Marco si intromette di nuovo, serio. «Io ho fatto la tesi su Mannheim.»
Russo si gira. «Lo conosciamo.»
Sara mi tira un calcetto senza farsi vedere. Io alzo le spalle. Per adesso sorridiamo e ci scambiamo delle occhiate complici, ma purtroppo ci toccherà sopportare quel dottorando per ben sei mesi.

***

È il 2 giugno 1984 e siamo al secondo mese di missione. Domani in Italia sarà festa nazionale, mentre oggi qui è un sabato; che poi è come dire lunedì perché a Komodo la popolazione è musulmana e riposa al venerdì.
L’unica radio trasmette in lingua bajo e questo è solo uno dei tanti inquinanti culturali: la maggioranza degli abitanti è infatti di origine bugis, ma nemmeno loro sono autoctoni. Insomma è un puzzle difficile da districare e non è facile capire qual è il substrato sociologico che rende unico questo villaggio.
È pure il terzo giorno di ramadan e sto provando a digiunare anch’io. Così, mentre Sara, Marco e il professor De Santis vanno nel bungalow a pranzare, mi intrattengo all’ombra delle palme con una delle nostre guide: è una giovane donna di nome Hasnah. Con lei parliamo in francese, più o meno; ogni tanto ci inventiamo delle parole, ma alla fine l’importante è capirsi.
«Tu non vai a mangiare?» mi chiede.
«No, faccio digiuno.»
Mi sorride. «Davvero? Mi fa molto piacere. E perché lo fai?»
«Voglio capire meglio la vostra cultura.»
Hasnah ridacchia. «Voi italiani siete buffi. Questo è un villaggio di pescatori, cosa c’è da capire? Butta le reti, prendi i pesci, cucinali per la famiglia… fine. Sei mesi mi sembrano tanti per studiare la nostra filosofia. No?»
Rido di gusto. «Hai ragione. Ma c’è anche raccogli le banane, sbucciale, mangiale…»
Lei annuisce ironica. «Ah! È vero, questo complica molto la nostra vita.»
«A parte gli scherzi, sto cercando… stiamo cercando qualcosa di molto particolare; magari unico e antico, mi spiego?»
Hasnah sembra riflettere e poi annuisce tra sé. «C’è Putu, è l’ultimo bissu.»
Nella mia mente si forma l’immagine di Indiana Jones nella prima scena del film. «L’ultimo bijou?»
Ride. «No, non è un gioiello. Bissu. È un vecchio che… fa magie.»
Mi sento attraversare il corpo da una scossa. «Ma è fantastico! Devo assolutamente incontrarlo. Sai dove posso trovarlo?»
Si alza in piedi e mi offre la mano. «È molto anziano, vive nel sottotetto della casa di un suo parente. Vieni, sentiamo se ti può ricevere.»
Qualche ora più tardi, riferisco agli altri che la famiglia di Putu, l’ultimo bissu, ci riceverà una sera per l’iftar.2

Oggi è il gran giorno e ho convinto i miei compagni di missione a saltare per lo meno il pranzo, perché ci sarà molto da mangiare e sarebbe maleducato rifiutare qualche porzione.
Hasnah sta aiutando me e Sara a preparare del kolak, una zuppa a base di banane e patate dolci, per non presentarci a mani vuote.
Non c’è verso che i maschi ci diano una mano e questo proprio mi dà sui nervi. È vero che mi sento a disagio come femmina, ma questa cosa che loro non cucinino con noi la trovo proprio ingiusta. Se fossi nata maschio, io… ecco, sarei lo stesso qui a bollire le patate, ne sono sicura. E gli direi di venire ad aiutare, piuttosto che stare lì a ragionare del nulla.
Invece Marco scribacchia qualcosa sul suo quaderno degli appunti. «È evidente che Putu è l’ultimo superstite di una casta di sciamani chiamata bissu. Dobbiamo scoprire se sono stati sterminati dagli olandesi, dai bajo, dai bugis o dai fondamentalisti islamici.»
Per fortuna ha parlato in italiano. Hasnah ci fissa con lo sguardo interrogativo, ma Sara alza le spalle e in francese aggiunge: «Parole senza senso.»
Nel frattempo De Santis prova ad aggiustare il tiro. «Potrebbe anche darsi che non sia successo nulla di così catastrofico. Forse il sistema di caste originario potrebbe essere stato assimilato durante l’islamizzazione. Bisogna capire quali fossero i compiti dei bissu e chi li svolge oggi.»
E così, mentre Marco tira fuori le ultime teorie sulla sociologia della conoscenza, Hasnah rimprovera Sara. «Ah, ah! Non si assaggia.»
«Uffa! E come faccio a sapere se è pronto?»
«Usa il mestolo o uno spiedino. Così.»
De Santis non è d’accordo e rilancia con alcune congetture di sociologia fenomenologica.
Sara piagnucola. «Però io non sto facendo ramadan, potrei anche…»
Io le faccio gli occhi dolci da gatto smarrito; Hasnah mi imita. Sara non può fare altro che posare il mestolo.
Marco pretende di aver ragione.
La zuppa è pronta appena in tempo per salire a casa dei nostri ospiti. Ci accolgono con tantissimo riguardo e ci ringraziano pure, quando in realtà siamo noi in debito con loro. Assistiamo in silenzio alla preghiera del tramonto, infine i bambini ci portano un dattero per rompere il digiuno.
Durante l’iftar il capofamiglia e la moglie ci raccontano a grandi linee la storia di Putu. Lui non ha avuto figli, per cui a prendersene cura fu la sorella, che poi lasciò l’incombenza al figlio e così via; a sentire loro, sarebbe lì nel sottotetto da generazioni e dovrebbe avere più di cento anni.
Marco come al solito fa le sue considerazioni fuori luogo ma nessuno ha il coraggio di tradurle in francese.
Nel frattempo, il figlio maggiore scende dopo aver portato da mangiare al pro-prozio. Fa un annuncio che ci viene subito tradotto da Hasnah: «Putu è disponibile a celebrare un rito, ma alla presenza di uno solo di voi.»
Marco non fa in tempo a dire: «Io,» che De Santis e Sara mi hanno già chiesto, quasi in coro: «Vai tu?»
De Santis aggiunge: «Hai trovato Putu e in più stai facendo ramadan, secondo me sei la persona più adatta.»
Io sono perplessa. Sara annuisce per incoraggiarmi. Non ho idea di che cosa mi aspetti. Sento anche il peso della responsabilità di essere l’unica testimone di ciò che accadrà, ma accetto.
Tolgo i sandali e salgo nel sottotetto insieme a Hasnah. Ho paura di trovare una stanza che puzza di vecchio e disinfettante, come la casa di mia nonna. Invece c’è odore di erbe, che bruciano come incensi in alcuni piatti di terracotta appoggiati su dei bracieri, e nient’altro.
Putu sembra avere davvero cent’anni a giudicare dalle rughe sul viso. Il portamento è fiero, la schiena è dritta ed è seduto con le gambe incrociate su un materasso disteso per terra.
L’anziano bissu mormora delle parole, subito tradotte da Hasnah: «Ti saluto e ti ringrazio per la visita. È da tanto tempo che non ricevo forestieri. Accomodati e dimmi cosa ti porta da me, c’è qualche nodo che stringe il tuo cuore?»
Mi siedo a gambe incrociate sul materasso di fianco al suo. Ho davvero qualcosa di grosso che mi opprime ma non ho sufficiente confidenza con Hasnah per tirarlo fuori. E poi ricordo il motivo per cui sono salita qui e non riguarda di sicuro me. «Sono io che ti ringrazio per avermi ricevuta e per concedermi l’onore di partecipare al rito.»
Putu rivolge la mano verso di me. «Questo è un rito antico quanto il primo bissu che giunse a Komodo. Incontrò il drago, guardiano dell’isola, e strinse un patto con lui. Erano arrivati uomini, donne, calalai e calabai, e il guardiano li aveva divorati. Ma quando arrivò il primo bissu il guardiano non lo divorò.»
Mi gira la testa; troppe informazioni tutte insieme. «Hasnah, scusami. Mi ripeti chi arrivò con gli uomini e le donne?»
«Calalai e calabai, non so come si dice in francese. I calalai sono persone nate femmine ma che hanno l’anima del maschio. Si vestono da uomo, fanno lavori maschili e si sposano con le donne.»
Il cuore mi batte all’impazzata. E mentre Hasnah mi spiega le calabai, io mi sento persa per la naturalezza con cui mi ha spiegato i calalai, perché è proprio il maledetto concetto che mi rappresenta alla perfezione.
La fiamma delle candele balla e uno scricchiolio rompe il silenzio, sovrapponendosi alle voci ovattate dell’iftar che continua al piano di sotto. A un cenno di Putu, Hasnah alimenta gli incensi aggiungendo altra miscela di fiori e piante secche nei piatti di terracotta.
Il bissu annuncia, tradotto dalla guida: «È arrivato. Desideri incontrare lo spirito del drago guardiano?»
Non ho idea di cosa voglia dire, ma sono qui anche per questo. «Sì, sono pronta.»
Hasnah mi porge una ciotola che contiene una polvere dall’odore pungente.
«Cos’è?»
Mi risponde senza chiedere a Putu. «È polvere magica. Contiene erbe, radici, fiori e ossa di animali. Ogni ingrediente ha un significato ma non so altro.»
«E tu l’hai provata?»
Annuisce. Mi fa cenno di inspirare profondamente.
Sono titubante. Di sicuro c’è qualche sostanza psicotropa, però sembra pestata e non raffinata, quindi dovrebbe avere un effetto blando. Mi faccio coraggio: nella speranza che sia sufficiente per non sembrare maleducata, avvicino la ciotola al naso e inspiro appena un po’.
Starnutisco rumorosamente, riuscendo a evitare di farlo sulla polvere.
Hasnah prende la ciotola e mi invita a stendermi sul materasso.
Putu inizia a cantare delle litanie.
Quel poco che ho inalato sembra essere stato sufficiente, perché le luci e le ombre nella stanza prendono la forma di un drago di Komodo.
Rimango distesa, ma ho la sensazione di sedermi, anzi no: di alzarmi in piedi. Mi allontano dal mio corpo e cammino verso l’immagine del lucertolone.
Mi sembra perfino di comprendere il significato delle preghiere intonate da Putu: «Guarda la tua anima, guarda la tua essenza.»
Mi osservo e sono un uomo.
Mi tocco il viso e ho la barba.
Alzo gli occhi. Lo spirito del drago guardiano mi parla in italiano. «Chi sei?»
Parlo senza aprire bocca. «Chiara Rigon.»
Il lucertolone di luce e ombra tira fuori la lingua e mi ripete: «Chi sei?»
Questa volta non rispondo subito. Mi osservo di nuovo. Mi tocco il petto, il pacco e finalmente mi riconosco. «Sono io, un calalai! Il mio nome è Adamo Rigon.»
La lingua dello spirito sonda alcune volte lo spazio intorno a me. «Il tuo è odore di verità. Sei benvenuto sull’isola di Komodo, Adamo Rigon.»
Con una specie di balletto, lo spirito si gira e torna a confondersi con le luci e le ombre alle pareti.
Un brivido mi percorre il corpo e mi risveglio dal breve sogno. Sono ancora distesa sul materasso e il cuore mi batte forte.
Vorrei alzarmi ma Hasnah mi fa cenno di rallentare. Putu sta ancora cantando le litanie con gli occhi chiusi. Le erbe continuano a bruciare nei piatti di terracotta. Le luci e le ombre della stanza non hanno più alcuna forma.
Il cuore e il respiro tornano normali e mi siedo. Hasnah sussurra qualcosa e Putu termina le litanie. Il rito si chiude con una sequenza che somiglia molto a una preghiera musulmana, a cui assisto in silenzio ripensando alla visione e a quello che mi ha rimescolato dentro.
«Putu ti ringrazia per la tua partecipazione però adesso è molto stanco e ha bisogno di riposare. Possiamo tornare di sotto.»
Il bissu ha gli occhi chiusi e il respiro pesante.
«Non l’ho nemmeno ringraziato. Io… fammi sapere come mi posso sdebitare.»
Hasnah annuisce. Mi offre la mano e l’afferro per rialzarmi. Scendiamo.
Il primo sguardo che cerco è quello di Sara che subito ricambia. «Allora, com’è stato?»
Mi tremano le gambe. «Preparati, perché stanotte dobbiamo parlare tanto
Marco si intromette. «Ma almeno hai scoperto cos’è un bissu
Zio Billy! Stavolta ha ragione. «N-no.»
Mi guarda con aria di sufficienza. «Eh, però, che scarsa.»
Prima che io possa sputargli in faccia un “fatti i cazzi tuoi,” interviene De Santis. «Di sicuro avrà tante altre cose da raccontare.»
Salutiamo gli ospiti e le guide, poi torniamo ai nostri bungalow. Io mi tengo stretta più che posso alla mia amica.

Non ho idea di quante ore abbiamo parlato quella sera, ricordo però il silenzio e il buio che avvolgevano tutta Komodo, e il casino nella mia mente quando Sara mi ha consigliato di parlare di me al maschile.
Beh, ho cominciato a farlo ed è pazzesco quanto mi fa stare bene! Quando sono da solo mi viene pure naturale. A parte quando sono arrabbiato o immagino di litigare con qualcuno; lì salta fuori ancora la Chiara che è in me. Mi incazzo al femminile e mi viene su il magone, poi mi metto a singhiozzare e mi sento ancora più male, perché quella volta che mi ha beccato Marco ha dovuto sottolineare che piangere è proprio una cosa da femmine.
Invece arriva Sara e la lascio avvicinare. Lei dice che anche i ragazzi piangono ma non lo fanno in pubblico perché si vergognano; proprio come me, quindi sono un maschio per davvero. È una cosa stupida ma mi fa ridere ogni volta, è più forte di me; una risata amara però spontanea.
Oggi poi ho un motivo in più per non abbattermi: io e Sara, con l’aiuto di Hasnah, abbiamo intervistato alcuni calalai ed è venuto fuori un aspetto sorprendente: pur vivendo una condizione di disforia di genere, ritengono che non ci sia nulla di sbagliato nel loro corpo e questa sembra davvero una contraddizione. Devo convincere Sara a condividere le nostre impressioni con De Santis, chissà che ci supporti per una tesina interdisciplinare parallela a quella della missione.
Ma non è l’unica cosa che mi elettrizza: in questa contraddizione mi ci riconosco, sono proprio io: sono nato in un corpo diverso dalla mia percezione, ma sento che va bene così.
Sara è perplessa, dice che forse ho solo paura dell’operazione per la riassegnazione del sesso.
Per carità, potrebbe anche essere; ma sono abbastanza convinto che non importa ciò che ho nelle mutande: è una cosa mia personale e non dovrebbe interessare a nessuno.3

Note:
1ciodi: paracarri in pietra
2iftar: il pasto che si consuma dopo il tramonto durante il ramadan.
Nota 3:


Commento a "Le bugie hanno le gambe corte"

Versione precedente:

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Messaggio Da Claudio Bezzi Lun Giu 03, 2024 1:17 pm

Bene, bene, bene!
Io sono un sociologo, laureato con una tesi in sociologia della conoscenza, con un destino (poi mutato) da antropologo, dopo avere quadriennalizzato antropologia culturale (una volta si poteva) con Amalia Signorelli, allieva di De Martino. Per farti capire. A parte Habermas, posso definirmi un fenomenologo e Schütz è stata una delle mie letture fondamentali, grande ispiratore (assieme a diversi altri, ovvio) del mio approccio metodologico (perché poi, alla fine, questo sono diventato: un metodologo della ricerca sociale). Quindi, sotto questo profilo, il tuo testo riceve un mio dieci e lode, anche se non capisco perché parli di sociologia, psicologia e perfino filosofia a mai di antropologia (per inciso: la psicologia, in Italia almeno, è parecchio arretrata, e non credo potrebbe partecipare a un progetto del genere. Poi semmai tu mi dirai di essere propio uno psicologo...).
Ciò detto, sotto il profilo narrativo ho diverse perplessità. In un racconto tutto sommato abbastanza breve tu metti la disforia di genere, la ricerca a Komodo, l'Università... Tanta roba trattata abbastanza velocemente. Non posso dire che non mi sia piaciuto (anche se non amo molto i racconti con una tesi troppo esplicita, come nel tuo caso) ma, probabilmente, uno sviluppo più meditato, con la giusta sottolineatura dei diversi problemi, pensieri, fatiche della protagonista, conflitto col padre, etc. - per dire: 40.000 battute anziché 20.000 - sarebbe stato più appropriato.
Per chiarezza: una cosa è la "tesi" che ha in mente l'autore/trice; una cosa differente è la sua descrizione (nel tuo caso: la parte antropologica a Komodo); ma una cosa ancora diversa è la NARRAZIONE letteraria di quei temi, che deve essere, prima di tutto, letteratura. IMHO. Comunque bene, sono contento di trovare, qui su DT, una persona sensibile ai temi socio-antropologici.

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Messaggio Da Achillu Lun Giu 03, 2024 7:10 pm

@Claudio Bezzi mi prendo volentieri il 10 e lode perché sono felice di non aver preso cantonate durante le ricerche per il racconto. Grazie.
Il racconto è nato durante altre mie ricerche, in particolare su aroace e non-binary. Quando ho visto il paletto "Komodo" ho subito pensato ai Bugis e le persone bissu. Il paletto filosofo mi ha fatto pensare a un dottorando di ricerca e così ho cercato tra tutte le università italiane quali avessero attivato i dottorati di ricerca in filosofia ed è venuta fuori Padova (nel 1984 è stata una delle prime).
Ora forse non lo sai ma il dipartimento a Padova è chiamato Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia applicata, per gli amici Liviano perché è il nome del palazzo. E quando ho realizzato che c'era anche sociologia, ho pensato subito che il cerchio si stava chiudendo. Dovevo solo mettere insieme il filosofo e mi sono inventato il team interdisciplinare. Ho aggiunto la psicologa e purtroppo la pedagoga non c'è stata ma avrei messo anche lei.
Poi è partita la ricerca: dovevo trovare argomenti sociologici che andassero bene per tesi di laurea in filosofia e psicologia ed è lì che mi sono imbattuto in Habermas e Schütz.
Infine dovevo trovare la storia. Ero partito con l'idea di raccontare "l'ultimo bissu" per rappresentare una persona non binaria, invece la storia è virata quasi subito sulla transizione femminile-maschile. La ricerca del substrato sociologico è solo una scusa per raccontare di questa transizione, non avrei nemmeno le competenze per rappresentare anche la ricerca socio-antropologica. E infatti non parlo di antropologia proprio per assenza di competenze.
Per farci stare la storia ho compresso il povero Marco riducendolo a una macchietta, ho rinunciato al pedagogo, ho riempito pagine di interviste a miei più o meno coetanei per capire come si viveva a Vicenza nel 1984, pagine che poi non ho nemmeno usato. Ho perfino cercato l'orario ferroviario del 1984 per trovare la partenza del treno Vicenza - Padova. Insomma è vero che ho materiale per 40 mila battute o forse più.
Per questa seconda versione non ho voluto ampliare più di tanto, però ci tenevo a riprendere in mano un racconto che ne aveva bisogno.
Scusami se ti ho intrattenuto con tutte queste storie. Ti ringrazio per la lettura e sappi che ci tenevo che lo leggessi, fin da quando ti sei presentato come laureato in sociologia.

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