Ho bisogno di iniziare a raccontare questa storia partendo da lontano, perché è da lì che nasce il sentimento che ha condizionato, e lo fa ancora, le mie azioni.
Elisa ci aveva invitato a cena nel tentativo di impressionare Alessandro, ma aveva fallito miseramente, riuscendo a carbonizzare le spinacine.
È stata l’ultima volta che l’ho vista viva, e ancora oggi mi chiedo cosa sarebbe successo se fossimo rimasti con lei quella sera. Forse ci saremmo salvati tutti, oppure saremmo morti insieme. Invece, ridendo di lei, alle dieci eravamo già sul nostro divano.
Avevo la voglia di studiare a zero, ma quella di contatto era a mille.
«Cazzo, ti sposti? Non starmi così appiccicato. C’è spazio sul divano. Fatti più in là.»
Alessandro non amava le coccole, almeno fino a notte fonda quando, con il favore delle tenebre, entrava in camera mia, si infilava nel letto e reclamava ciò che voleva.
«Che c’hai oggi? Anche a cena non hai fatto altro che rompere le palle. Perfino Eli se n’è accorta.»
«Mi dovete mollare tu e lei. Cioè raga, cazzo. Datemi tregua…» e partì con una filippica sulle relazioni, lo stress, lo studio, addirittura la politica… Mi scuserete se non ricordo ogni minimo particolare, ma quel tipo di sparate erano all’ordine del giorno e, quando iniziava, era difficile fermarlo.
Forse è il caso che tenti di spiegare cosa fossimo noi tre, anche se ancora oggi non saprei definire la nostra relazione. Di certo era verticale, con Alessandro in cima, che gestiva le cose a suo piacimento, influenzato dall’umore del momento.
Eravamo una troppia?
Non credo, perché in quel caso il sentimento doveva essere condiviso tra tutti; invece, nella nostra troppia, qualcuno finiva sempre per sentirsi di… troppo.
In quel periodo, però, ci andava bene così.
Elisa, che si sentiva la preferita, la tollerava.
Alessandro, apparentemente, sembrava soffrirne.
Io… Non lo so, non ci pensavo poi molto, anche perché io e lui ci conoscevamo fin da bambini, quindi la nostra era anche una relazione orizzontale. Ero sicuro che, comunque fossero andate le cose, la nostra amicizia non sarebbe mai terminata.
Alessandro, il ragazzo dalle idee dritte come linee, studente modello, aveva come uniche ragioni di vita l’ordine e l’architettura.
Quando perdeva la prima, come in quel momento sul divano, bastava introdurre l’altra per cambiare il suo umore.
«Il professor Gregori, quello di tecnica delle costruzioni, oggi ci ha detto che in autunno inizieranno i lavori per il nuovo palazzo di Boeri.»
Bastò così poco. Si gettò su di me, che diligentemente mi ero messo dall’altra parte del divano e, baciandomi, cominciò a parlare.
«Veramente? Pazzesco! Fili, lo sai, quello non è solo un palazzo. Le persone che ci abiteranno, aprendo la finestra, crederanno di stare in una foresta, non al decimo piano in centro a Milano. Riforestazione metropolitana e verticalità abitativa… il futuro ideale.»
Alessandro ammirava gli architetti che, oltre a sfidarsi su chi ce l'aveva più diritto in quel momento storico, avevano iniziato a integrare il verde nei loro progetti.
Voleva salvare il pianeta; appunto... voleva.
Potrei passare ore a raccontare ciò che abbiamo fatto sul divano quella sera, ma se lo facessi sarebbe solo per distogliere il pensiero da ciò che è successo in seguito.
Il ricordo è vivido. Sì, ma nella mia mente, quando provo a descriverlo le cose cambiano. Quindi sarò diretto.
La scossa ci sorprese lì, sul divano.
Quando c’è una scossa e vedi crollare parti di muro, anche se a scuola ti dicono di metterti al riparo, la prima cosa che fai è fuggire.
All’inizio sei lì e speri che tutto finisca in fretta ma poi, quando vedi le pareti collassare, ti precipiti, dove non si sa, non sai più cosa sia fuori e cosa sia dentro. L’orizzonte si spezza, l’alto non è più su ma giù, e così si finisce sepolti, perché si perde l’orientamento.
Chi, come noi, vive in questi luoghi, è abituato a questa sensazione. Quelle vibrazioni ci accompagnano fin da piccoli e, quando la terra trema, capiamo subito dove c’è stato il disastro: è come se una bussola ci indicasse la devastazione.
Quella notte la bussola puntava su di noi: eravamo l’epicentro di quella catastrofe.
Non ricordo quello che è successo subito dopo. O meglio, lo ricordo, ma non ho voglia di dirvelo, perché ho sempre detestato l’atteggiamento della gente che, mentre raccontavo, piangeva con la mano alla bocca. Il mio obiettivo non è mai stato farli piangere: volevo farli incazzare.
Perché, quando mi tirarono fuori da lì, oltre allo studentato era venuta giù l’intera città.
Non c’era tempo di piangere. Chi veniva estratto dalle macerie si metteva subito alla ricerca di sopravvissuti.
Volete piangere? Guardatevi un film.
Perché quei 309 + 1 morti chiedevano giustizia.
Di certo farò un favore a chi mi accusa di essere instabile. Vedere un trentaseienne passare dalle lacrime alla rabbia può indurvi a pensare che io non ci stia con la testa per il trauma subito; invece ero, e lo sono ancora, lucidissimo. Quindi non usate questa carta per giustificare quello che feci in seguito.
La casa dello studente di via XX settembre non era conforme né sotto il profilo morfologico né sotto quello strutturale, e neanche nei materiali. Rispettava gli standard del 1965, anno di costruzione, e nel 2009, quando l’ala nord è venuta giù con il terremoto, aveva superato tutti i controlli.
Comprenderete dunque la mia incazzatura. Eravamo studenti di ingegneria civile, edile, di architettura, ambiente…
Se avessimo proseguito con gli studi, saremmo stati noi a dover effettuare quegli stessi controlli in futuro ma, dopo quella notte, né io né Alessandro saremmo stati più in grado di farlo.
Io ero così furioso che volevo solo distruggere il mondo.
Quando mi hanno reclutato avevo paura, non conoscevo nessuno e per lo più erano stranieri, quindi ho dovuto mettere alla prova l’inglese B2 e devo essere sincero: non me la sono cavata male.
Non credevo fosse così semplice costruire una bomba: basta guardare una breve dimostrazione e poi il resto è automatico.
Del primo assalto ricordo solo che baciai la bomba in onore di Alessandro, prima di lanciarla.
Lo spazio d’azione era limitato e bisognava centrare l’obiettivo perfettamente, non dovevano esserci perdite.
Negli anni successivi, sono stato arrestato più volte, in giro per l’Europa.
Per i potenti eravamo criminali, per voi, gente comune, degli invasati; per quanto mi riguarda, mi sono sempre considerato un giardiniere sovversivo.
Gli anni di militanza nei Guerriglia Gardener, stranamente, nonostante i molti arresti, li ricordo con il sorriso. Ero arrabbiato e credevo che fare la guerra in quel modo fosse quello giusto.
Con le nostre bombe di semi trasformavamo aree industriali, private e non, in piccole oasi verdi.
Abbiamo infranto tante leggi e ne abbiamo pagato le conseguenze, ma per il bene di tutti, anche il vostro.
Credo che nessuno di voi ricordi chi fossimo, quindi vi aiuterò con un parallelismo.
Ultima generazione.
Ecco.
Ora sono certo abbiate capito.
Percepisco fin qui i vostri sguardi colmi di sdegno.
Se volete sapere la mia, anche io non amo il loro metodo, ma li apprezzo. Continuano a sollevare quegli argomenti che sono tanto scomodi ai potenti.
Ogni qualvolta fanno qualcosa, il fiume di odio che li trascina via lascia sempre spazio ai semi, piantati nella coscienza di alcune persone, di germogliare.
La mia furia è ormai spenta, non mi considero più sovversivo, adesso pianto solo alberi.
La fondazione di cui faccio parte ha già piantato centonovanta milioni di alberi, che hanno permesso la riforestazione negli hotspot di biodiversità più critici al mondo. Mentre questi alberi si impegnano per catturare tonnellate e tonnellate di anidride carbonica, non li piantiamo per compensare l’emissione di CO2 di qualcun altro: lo facciamo per il pianeta. Trasformiamo la desolazione in vita, ripristinando l’acqua, rigenerando il terreno, facendo crescere habitat e, nondimeno, cambiando vite.
Poi, due settimane fa, ho visto quel post su Facebook. Un video che mi ha mostrato la nuova faccia dei palazzinari: della stessa pasta di coloro che sono stati condannati a L’Aquila per il crollo della casa dello studente durante il terremoto. Quelli che una volta erano magnati del cemento, dei condoni, ed erano soliti costruire ovunque, ora hanno abbracciato la svolta green e si sono convertiti, apparentemente, all’ecosostenibilità.
Farò un esempio per farvi capire chi sono. Prometto, sarò breve.
The Line. Avete presente di cosa sto parlando?
Una città lineare lunga 170 km, alta 500 metri, distesa nel deserto dell’Arabia Saudita. Controllata dall’intelligenza artificiale, con giardini e parchi sospesi in aria, la facciata rivestita di vetrate che rispecchiano la natura circostante, alimentata unicamente da energia rinnovabile. Una città per offrire un nuovo futuro all’umanità. Con i suoi 9 milioni di abitanti.
Il video del progetto è stupendo. Cercatelo su internet.
L’idea sarebbe rivoluzionaria: un’eccellenza assoluta di architettura, urbanistica, ingegneria e tecnologia; in una parola, il futuro.
Ma… come può definirsi a emissioni zero una città così grande che nasce nel bel mezzo del deserto?
Quanto materiale - vetro, acciaio, cemento, ferro - servirebbe per realizzarla?
Uno studio rivela che, per la sua costruzione, verranno immesse nell’atmosfera tonnellate di anidride carbonica pari a quattro anni di emissioni del Regno Unito. Le vetrate specchiate, a quelle temperature, brucerebbero qualunque cosa si trovi all’esterno, e sarebbe un problema per i flussi migratori delle specie. Dove noi costruiamo corridoi ecologici sulle nostre autostrade, lì si passa sopra a tutto.
Potrei dilungarmi, ma poi voi tornereste a parlare della mia sanità mentale; la risposta è semplice: a voi, del pianeta, non frega un cazzo.
Oppure la pensate come me: che il progetto è utopistico e praticamente impossibile da realizzare, perché tra le altre cose non si conosce lo studio di architettura che si occuperà della realizzazione.
Ecco, il video di cui parlavo poco fa non è quello dei render del progetto. Le nuove immagini, riprese da un drone, mostrano degli scavi in mezzo al deserto. Scavi che illustrano cosa accade quando un progetto, finanziato dai nuovi palazzinari green, che non dovrebbe essere realizzato, inizia a concretizzarsi.
Volete sapere chi ha condiviso il video, fiero?
Esatto! Lo avete intuito, Alessandro.
Il suo sogno verticale 2.0 si sta realizzando.
Mentre Elisa non ce l’ha fatta, e io scavavo per recuperare i superstiti, lui non ha retto la pressione e se né andato.
Ha continuato i suoi studi altrove e poi si è schierato dalla parte dei palazzinari green.
È iniziata la guerra.
Sì. Questa è una guerra tra chi, come lui, crede che la sopravvivenza della razza umana sia più importante del pianeta e si arricchisce creando una verticalità anche economica, e chi, come me, crede fermamente che per salvare le persone per primo bisogna preservare il pianeta di cui siamo una piccola parte.
È bastato vedere l’esultanza di Alessandro per risvegliare il mio furore sopito, così ho scelto di calmarmi attraverso l’arte topiaria.
Mi sono intrufolato nella sua mega villa e ho iniziato a lavorare sul bosso.
Il dito medio era abbastanza dritto e svettava sull’orizzonte in verticale. Se solo avesse apprezzato l’ironia di quel cespuglio potato… L’Alessandro che avevo amato avrebbe capito, e forse ci saremmo ritrovati. E invece siamo finiti a prenderci a cazzotti.
Ci tengo a sottolineare che il primo lo ha inferto lui, ma io, visti i miei precedenti ben evidenziati dal suo avvocato, sarò dichiarato colpevole con l’accusa di essere recidivo. Non è difficile capire quale sarà la severa pena che mi verrà inflitta. La sua fazione ha vinto una battaglia, lo accetto. Ma quelli che dovrebbero non accettarlo siete voi. Il tempo è agli sgoccioli e la guerra per la sopravvivenza è tutt’altro che vinta.