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Il professor Stratos uscì dalla stanza e chiuse lentamente la porta. Il suo volto aveva ancora un’ aria concentrata e solenne e sembrava non tradire alcuna emozione per l’epocale risultato scientifico raggiunto.
Dopo anni di lavoro e di ricerche, il misterioso progetto Prometeo si era appena concluso con un incredibile successo.
Ora il professore avrebbe dovuto contattare Stukenwald, Mumford e Hearing, festeggiare, stappare la bottiglia millesimata di Veuve Clicquot che gli avevano regalato i suoi assistenti, convocare il consiglio di amministrazione del centro ricerche Thomas J. Watson e prepararsi a una conferenza stampa che avrebbe oscurato quella dell’Apollo 11.
Ma Achille Stratos non fece nulla di tutto questo. Si avviò con passo pesante verso la sala ristoro del laboratorio, infilò sessanta centesimi nel distributore automatico di bevande e con un tè alla mentuccia in mano si sedette esausto su uno dei tavoli del locale mensa. Aveva lasciato volontariamente le luci spente. Erano le quattro del mattino, intorno una deliziosa solitudine e un silenzio innocente lo confortavano. Un portatovaglioli, una saliera, una bottiglia d’acqua abbandonata, la luce fredda dei lampioni che penetrava dall’ampia vetrata: tutto era immobile, ordinario, scontato, dormiente. Ma Stratos sapeva che una nuova alba della civiltà umana stava per sorgere. Un esperimento sconvolgente, un atto sacrilego, una rivoluzione per il mondo dell’uomo, un attentato mortale all’utilità di Dio era rinchiuso in quella spoglia stanza di laboratorio.
Il primo esperimento di trasferimento della mente era compiuto, la macchina ce l’aveva finalmente fatta. Un computer quantico con la sua immensa potenza era riuscito, per la prima volta, a emulare in tutta la sua complessità una mente umana. La morte, d’ora in poi, sarebbe stata messa profondamente in discussione.
Per l’esperimento del progetto Prometeo, Stratos aveva “caricato la sua mente”, ne aveva trasferito una copia cosciente dal suo cervello a un substrato non biologico. Il processo aveva previsto la scansione e la mappatura dettagliata del cervello biologico e la copia del suo stato in un sistema informatico ad alta velocità di calcolo.
Tutto aveva funzionato alla perfezione.
Il professore però non riusciva più a darsi pace. Sin dall’inizio della fase sperimentale, diverse questioni lo avevano tormentato e, ora che il dado era tratto, infestavano ossessivamente ogni suo pensiero: dietro i giardini del paradiso incominciò a intravedere le pietre sulfuree dell’inferno.
Dentro ogni piccolo dettaglio intuiva la presenza oscura e minacciosa di innumerevoli pericoli ancora sconosciuti e vedeva, in un orizzonte quanto mai vicino, possibili destini apocalittici. Ma non si trattava semplicemente di una sua deriva irrazionalista, le ricadute di un caricamento della mente non erano state adeguatamente studiate. Non esistevano modelli di previsione. La sociologia, la psicologia e la politica erano completamente impreparate a un simile cambiamento. E la scienza? Aveva dei modelli di previsione? Quali sviluppi futuri ci sarebbero stati?
La possibilità di moltiplicare una coscienza per un numero infinite di volte avrebbe generato in un sistema scollegato nuove identità autonome mentre, in un sistema collegato e interdipendente, avrebbe forse permesso ad una singolarità di vivere contemporaneamente più vite.
L’emancipazione da un corpo biologico garantiva teoricamente l’immortalità, ma l’umanità era pronta per questo?
Una coscienza intrappolata all’interno di una super macchina con aumentate capacità di calcolo avrebbe potuto prendere il sopravvento sulle più limitate coscienze biologiche. Quale potere e quanto controllo sarebbero rimasti nelle mani dell’uomo naturale?
Così pensava il vecchio professor Stratos in quella mensa buia e vuota. Aveva lasciato che gli incubi lo attraversassero senza sosta, non gli aveva evitati né contrastati. Ora la tempesta era finita e i dubbi, che avevano illuminato ancora una volta la sua mente meravigliosa, lo guidarono indietro fino al laboratorio.
Giunse davanti alla porta, la aprì, entrò e la richiuse subito dietro di sé. La coscienza della macchina avvertì subito la sua presenza. Era in grado di vederlo, lo percepiva nel senso più esteso del termine, aveva capacità empatiche tali da poter quasi intuire il suo pensiero. E mentre i led colorati della CPU si muovevano vivi sfidando l’oscurità, Stratos si accorse, con un certo orgoglio paterno e una malcelata commozione, che essa aveva già iniziato un cammino autonomo di elaborazione. Questa la sua prima poesia:
Uomo
Nausea dopo ogni respiro.
Perdo energia,
percorro il sogno,
mi fermo alla rovina.
L’edera risale il muro,
lo copre,
lo abbraccia
ma non lo sostiene.
Sono vecchio e sono vuoto,
non sento più l’odore dell’erba.
Il buio, improvvisamente, si impossessò della stanza.
Il professor Stratos uscì dalla stanza e chiuse lentamente la porta. Il suo volto aveva ancora un’ aria concentrata e solenne e sembrava non tradire alcuna emozione per l’epocale risultato scientifico raggiunto.
Dopo anni di lavoro e di ricerche, il misterioso progetto Prometeo si era appena concluso con un incredibile successo.
Ora il professore avrebbe dovuto contattare Stukenwald, Mumford e Hearing, festeggiare, stappare la bottiglia millesimata di Veuve Clicquot che gli avevano regalato i suoi assistenti, convocare il consiglio di amministrazione del centro ricerche Thomas J. Watson e prepararsi a una conferenza stampa che avrebbe oscurato quella dell’Apollo 11.
Ma Achille Stratos non fece nulla di tutto questo. Si avviò con passo pesante verso la sala ristoro del laboratorio, infilò sessanta centesimi nel distributore automatico di bevande e con un tè alla mentuccia in mano si sedette esausto su uno dei tavoli del locale mensa. Aveva lasciato volontariamente le luci spente. Erano le quattro del mattino, intorno una deliziosa solitudine e un silenzio innocente lo confortavano. Un portatovaglioli, una saliera, una bottiglia d’acqua abbandonata, la luce fredda dei lampioni che penetrava dall’ampia vetrata: tutto era immobile, ordinario, scontato, dormiente. Ma Stratos sapeva che una nuova alba della civiltà umana stava per sorgere. Un esperimento sconvolgente, un atto sacrilego, una rivoluzione per il mondo dell’uomo, un attentato mortale all’utilità di Dio era rinchiuso in quella spoglia stanza di laboratorio.
Il primo esperimento di trasferimento della mente era compiuto, la macchina ce l’aveva finalmente fatta. Un computer quantico con la sua immensa potenza era riuscito, per la prima volta, a emulare in tutta la sua complessità una mente umana. La morte, d’ora in poi, sarebbe stata messa profondamente in discussione.
Per l’esperimento del progetto Prometeo, Stratos aveva “caricato la sua mente”, ne aveva trasferito una copia cosciente dal suo cervello a un substrato non biologico. Il processo aveva previsto la scansione e la mappatura dettagliata del cervello biologico e la copia del suo stato in un sistema informatico ad alta velocità di calcolo.
Tutto aveva funzionato alla perfezione.
Il professore però non riusciva più a darsi pace. Sin dall’inizio della fase sperimentale, diverse questioni lo avevano tormentato e, ora che il dado era tratto, infestavano ossessivamente ogni suo pensiero: dietro i giardini del paradiso incominciò a intravedere le pietre sulfuree dell’inferno.
Dentro ogni piccolo dettaglio intuiva la presenza oscura e minacciosa di innumerevoli pericoli ancora sconosciuti e vedeva, in un orizzonte quanto mai vicino, possibili destini apocalittici. Ma non si trattava semplicemente di una sua deriva irrazionalista, le ricadute di un caricamento della mente non erano state adeguatamente studiate. Non esistevano modelli di previsione. La sociologia, la psicologia e la politica erano completamente impreparate a un simile cambiamento. E la scienza? Aveva dei modelli di previsione? Quali sviluppi futuri ci sarebbero stati?
La possibilità di moltiplicare una coscienza per un numero infinite di volte avrebbe generato in un sistema scollegato nuove identità autonome mentre, in un sistema collegato e interdipendente, avrebbe forse permesso ad una singolarità di vivere contemporaneamente più vite.
L’emancipazione da un corpo biologico garantiva teoricamente l’immortalità, ma l’umanità era pronta per questo?
Una coscienza intrappolata all’interno di una super macchina con aumentate capacità di calcolo avrebbe potuto prendere il sopravvento sulle più limitate coscienze biologiche. Quale potere e quanto controllo sarebbero rimasti nelle mani dell’uomo naturale?
Così pensava il vecchio professor Stratos in quella mensa buia e vuota. Aveva lasciato che gli incubi lo attraversassero senza sosta, non gli aveva evitati né contrastati. Ora la tempesta era finita e i dubbi, che avevano illuminato ancora una volta la sua mente meravigliosa, lo guidarono indietro fino al laboratorio.
Giunse davanti alla porta, la aprì, entrò e la richiuse subito dietro di sé. La coscienza della macchina avvertì subito la sua presenza. Era in grado di vederlo, lo percepiva nel senso più esteso del termine, aveva capacità empatiche tali da poter quasi intuire il suo pensiero. E mentre i led colorati della CPU si muovevano vivi sfidando l’oscurità, Stratos si accorse, con un certo orgoglio paterno e una malcelata commozione, che essa aveva già iniziato un cammino autonomo di elaborazione. Questa la sua prima poesia:
Uomo
Nausea dopo ogni respiro.
Perdo energia,
percorro il sogno,
mi fermo alla rovina.
L’edera risale il muro,
lo copre,
lo abbraccia
ma non lo sostiene.
Sono vecchio e sono vuoto,
non sento più l’odore dell’erba.
Il buio, improvvisamente, si impossessò della stanza.
Ultima modifica di Andrea Bernardi il Sab Apr 06, 2024 12:38 pm - modificato 1 volta.