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La luce calda e riflessa che illuminava l’appartamento contrastava in modo netto con il mondo esterno, il buio del mattino invernale, la desolazione degli alberi spogli, la solitudine dei viali ghiacciati. Marcus si era svegliato con la febbre alta, aveva avvisato l’ufficio, e si era rimesso a letto, intontito e spossato, con un forte dolore alle orbite oculari e alle ossa. Sua moglie invece era già pronta per uscire, perfetta nel trucco, elegante nel suo tailleur di Chanel, bellissima.
“Più tardi chiama il medico per una visita a domicilio, perché in queste condizioni non ti puoi muovere. La febbre è troppo alta. Ti ho lasciato l’antipiretico sul comodino. Verso le nove dovrebbe arrivare Rita, se sei sveglio, dille di pulire il soggiorno e la camera degli ospiti. Ciao, io vado. Ti chiamo quando arrivo al lavoro.”
Marcus non rispose. Sentì il tacchettio lontano dei passi di sua moglie, l’aprirsi e il chiudersi della porta blindata, poi più nulla. L’appartamento cadde nel silenzio più profondo.
In quel silenzio Marcus si smarrì. Tutti i collegamenti con luoghi e persone conosciute svanirono, ogni ricordo della sua vita reale sbiadì fino a dissolversi. Perse ogni riferimento. Mentre la sua coscienza tentava a fatica di mantenere viva la consapevolezza drammatica di questo passaggio e il suo corpo sudava copiosamente per ristabilire una temperatura interna accettabile, si materializzò nella sua mente la figura di un uomo, un uomo sconosciuto dalla carnagione olivastra. Indossava un camice bianco e aveva un’aria abbastanza rassicurante. Sembrava una specie di medico. L’uomo sorrise e incominciò a parlargli. Disse di chiamarsi Nelson. Ma Marcus non capiva tutte le sue parole: una fastidiosa eco e il forte accento portoghese dell’uomo impedivano una facile comprensione.
“L’operazione di innesto di memoria è andata bene. Ora può finalmente rilassarsi. Non ci saranno più pezzi mancanti, spazi vuoti o periodi oscuri. Con l’aiuto di una terapia mirata lentamente collegherà tutto con la massima precisione. L’obiettivo finale è quello di adattare la sua identità rendendola coerente con il nuovo passato appena acquisito.”
Marcus rimase senza parole. Si trattava probabilmente di un sogno, un sogno molto strano, prossimo a un incubo. Nonostante gli sforzi, non riusciva in alcun modo a ritornare a una realtà plausibile o a collegarsi ad alcun elemento conosciuto. Era intrappolato in una situazione assurda e non sapeva come uscirne. L’unica via sembrava essere quella di esplorare il più possibile quella dimensione nella quale era stato scagliato, indagarla in ogni aspetto, per poi dominarla o quanto meno gestirla. Aveva molte domande ma Nelson era inspiegabilmente scomparso.
Come si poteva pensare di preservare il proprio io dopo l’innesto? Si poteva parlare ancora di identità? Forse, più correttamente, si trattava di una nuova identità. Ma questo era un concetto che trovava piuttosto disturbante e tendeva a rifiutare. Gli elementi di rottura lo destabilizzavano, preferiva considerare quelli di continuità. Marcus si guardò intorno. Si trovava in una stanza completamente bianca, vuota, uniformemente luminosa, senza finestre. Era sdraiato su un letto ovoidale sospeso su un invisibile cuscino di aria compressa.
Entrarono dei cyborg dal corpo cromato e dai movimenti incredibilmente naturali e armoniosi. Lo visitarono con bizzarre apparecchiature, lo lavarono e lo investirono con una doccia elettromagnetica a bassa densità. Era l’inizio. Il recupero dati era stato lanciato.
Marcus a occhi aperti vide scorrere velocemente una serie di immagini vagamente famigliari: grattacieli illuminati, prati primaverili, greggi di pecore, treni sotterranei, folle di pendolari. Improvvisamente nella stanza si diffuse a basso volume una musica che conosceva. Era Atom Heart Mother. Era il sentiero che lo avrebbe ricondotto a casa. Senza accorgersene, si trovò a scivolare in un tunnel tubolare dalla probabile struttura spiraliforme. Dietro le pareti semitrasparenti del condotto, una luce soffusa di colore verde stemperava, con i suoi riflessi melliflui, la percezione di pericolo che la costante accelerazione del movimento di caduta gli procurava. Marcus ebbe altre visioni. Ma queste avevano perso l’asettica e tranquilla genericità delle precedenti. Erano immagini personali e remote, dai colori confusi e sbagliati, che si susseguivano frenetiche come lampi nel buio della sua coscienza. Una spiaggia deserta, un bambino con il suo pallone, una vecchia utilitaria parcheggiata in un viale alberato, una donna giovane e sorridente con gli occhiali da sole, un plotone di soldatini. Incominciò a sentire un peso enorme che lo schiacciava e lo spingeva sempre più giù per quel dannato scivolo vorticoso. Ora il dolore era acuto, insostenibile quanto la velocità raggiunta. Domande che aveva sempre accuratamente evitato di porsi si presentarono inaspettate e minacciose come punteruoli nel cranio. Strinse i denti fin quasi a spaccarli mentre l’angoscia di trovare in fretta delle risposte a quelle domande lo soffocava.
Dopo un lasso di tempo indeterminabile, tradendo ogni legge fisica, Marcus si fermò. Senza alcuna decelerazione né inerzia, si bloccò nel vuoto. Immobile e sospeso. Una luce bianca e accecante lo travolse e un piacere profondo lo conquistò senza alcun preavviso. Galleggiava nel liquido amniotico di un gigantesco utero e in quell’assurda assenza di gravità vide, senza un’apparente spiegazione logica, le cose nella loro primitiva essenza. Tutta la realtà, sia fisica che astratta, che aveva fino ad allora solo grossolanamente intuito, si svelò. Cadde ogni segreto.
Ora Marcus dominava il mondo perché lo capiva. E più lo capiva, più sentiva di farne parte. Aveva trovato la matrice di una stabile coerenza e stipulato una pace eterna. Era felice, o forse soltanto stupido.
La luce calda e riflessa che illuminava l’appartamento contrastava in modo netto con il mondo esterno, il buio del mattino invernale, la desolazione degli alberi spogli, la solitudine dei viali ghiacciati. Marcus si era svegliato con la febbre alta, aveva avvisato l’ufficio, e si era rimesso a letto, intontito e spossato, con un forte dolore alle orbite oculari e alle ossa. Sua moglie invece era già pronta per uscire, perfetta nel trucco, elegante nel suo tailleur di Chanel, bellissima.
“Più tardi chiama il medico per una visita a domicilio, perché in queste condizioni non ti puoi muovere. La febbre è troppo alta. Ti ho lasciato l’antipiretico sul comodino. Verso le nove dovrebbe arrivare Rita, se sei sveglio, dille di pulire il soggiorno e la camera degli ospiti. Ciao, io vado. Ti chiamo quando arrivo al lavoro.”
Marcus non rispose. Sentì il tacchettio lontano dei passi di sua moglie, l’aprirsi e il chiudersi della porta blindata, poi più nulla. L’appartamento cadde nel silenzio più profondo.
In quel silenzio Marcus si smarrì. Tutti i collegamenti con luoghi e persone conosciute svanirono, ogni ricordo della sua vita reale sbiadì fino a dissolversi. Perse ogni riferimento. Mentre la sua coscienza tentava a fatica di mantenere viva la consapevolezza drammatica di questo passaggio e il suo corpo sudava copiosamente per ristabilire una temperatura interna accettabile, si materializzò nella sua mente la figura di un uomo, un uomo sconosciuto dalla carnagione olivastra. Indossava un camice bianco e aveva un’aria abbastanza rassicurante. Sembrava una specie di medico. L’uomo sorrise e incominciò a parlargli. Disse di chiamarsi Nelson. Ma Marcus non capiva tutte le sue parole: una fastidiosa eco e il forte accento portoghese dell’uomo impedivano una facile comprensione.
“L’operazione di innesto di memoria è andata bene. Ora può finalmente rilassarsi. Non ci saranno più pezzi mancanti, spazi vuoti o periodi oscuri. Con l’aiuto di una terapia mirata lentamente collegherà tutto con la massima precisione. L’obiettivo finale è quello di adattare la sua identità rendendola coerente con il nuovo passato appena acquisito.”
Marcus rimase senza parole. Si trattava probabilmente di un sogno, un sogno molto strano, prossimo a un incubo. Nonostante gli sforzi, non riusciva in alcun modo a ritornare a una realtà plausibile o a collegarsi ad alcun elemento conosciuto. Era intrappolato in una situazione assurda e non sapeva come uscirne. L’unica via sembrava essere quella di esplorare il più possibile quella dimensione nella quale era stato scagliato, indagarla in ogni aspetto, per poi dominarla o quanto meno gestirla. Aveva molte domande ma Nelson era inspiegabilmente scomparso.
Come si poteva pensare di preservare il proprio io dopo l’innesto? Si poteva parlare ancora di identità? Forse, più correttamente, si trattava di una nuova identità. Ma questo era un concetto che trovava piuttosto disturbante e tendeva a rifiutare. Gli elementi di rottura lo destabilizzavano, preferiva considerare quelli di continuità. Marcus si guardò intorno. Si trovava in una stanza completamente bianca, vuota, uniformemente luminosa, senza finestre. Era sdraiato su un letto ovoidale sospeso su un invisibile cuscino di aria compressa.
Entrarono dei cyborg dal corpo cromato e dai movimenti incredibilmente naturali e armoniosi. Lo visitarono con bizzarre apparecchiature, lo lavarono e lo investirono con una doccia elettromagnetica a bassa densità. Era l’inizio. Il recupero dati era stato lanciato.
Marcus a occhi aperti vide scorrere velocemente una serie di immagini vagamente famigliari: grattacieli illuminati, prati primaverili, greggi di pecore, treni sotterranei, folle di pendolari. Improvvisamente nella stanza si diffuse a basso volume una musica che conosceva. Era Atom Heart Mother. Era il sentiero che lo avrebbe ricondotto a casa. Senza accorgersene, si trovò a scivolare in un tunnel tubolare dalla probabile struttura spiraliforme. Dietro le pareti semitrasparenti del condotto, una luce soffusa di colore verde stemperava, con i suoi riflessi melliflui, la percezione di pericolo che la costante accelerazione del movimento di caduta gli procurava. Marcus ebbe altre visioni. Ma queste avevano perso l’asettica e tranquilla genericità delle precedenti. Erano immagini personali e remote, dai colori confusi e sbagliati, che si susseguivano frenetiche come lampi nel buio della sua coscienza. Una spiaggia deserta, un bambino con il suo pallone, una vecchia utilitaria parcheggiata in un viale alberato, una donna giovane e sorridente con gli occhiali da sole, un plotone di soldatini. Incominciò a sentire un peso enorme che lo schiacciava e lo spingeva sempre più giù per quel dannato scivolo vorticoso. Ora il dolore era acuto, insostenibile quanto la velocità raggiunta. Domande che aveva sempre accuratamente evitato di porsi si presentarono inaspettate e minacciose come punteruoli nel cranio. Strinse i denti fin quasi a spaccarli mentre l’angoscia di trovare in fretta delle risposte a quelle domande lo soffocava.
Dopo un lasso di tempo indeterminabile, tradendo ogni legge fisica, Marcus si fermò. Senza alcuna decelerazione né inerzia, si bloccò nel vuoto. Immobile e sospeso. Una luce bianca e accecante lo travolse e un piacere profondo lo conquistò senza alcun preavviso. Galleggiava nel liquido amniotico di un gigantesco utero e in quell’assurda assenza di gravità vide, senza un’apparente spiegazione logica, le cose nella loro primitiva essenza. Tutta la realtà, sia fisica che astratta, che aveva fino ad allora solo grossolanamente intuito, si svelò. Cadde ogni segreto.
Ora Marcus dominava il mondo perché lo capiva. E più lo capiva, più sentiva di farne parte. Aveva trovato la matrice di una stabile coerenza e stipulato una pace eterna. Era felice, o forse soltanto stupido.