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QUELLE DUE - Ep. 1 - La noia

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Messaggio Da Fante Scelto Mar Lug 04, 2023 10:45 pm

Commento rituale:


Saludos.
Io ci provo a postare un po' quel che è stato prodotto finora su "Quelle due".
Poi vediamo come va e a che livello sta l'ispirazione.

Spezzo in 3 puntate questo episodio pilota n.1 per facilità di lettura.

Grazie!


*******


QUELLE DUE - Ep. 1 - La noia La-noia-locandina-story


*******




++ La noia ++




 
Ruggito, fiammata, rinculo del fusto, sommovimento della massa corazzata, inerzia.
Ritorno in quiete.
Lontano, da qualche parte nella coltre di fumo e detriti, lo scoppio: la figura di un palazzo, già in rovina, si spezza e crolla su sé stessa, trascinando un pezzo dell’edificio adiacente.
La polvere.
Lontana.
 
Sorella Superiora Verna Holden abbassò il visore, socchiuse gli occhi nella luce calante del tramonto: un altro paio di consorelle fecero lo stesso identico gesto.
L’aria bassa della sera le accarezzava i folti capelli arancio e la tenuta da combattimento in ceramica balistica, il lieve colore argentato reso caldo dal sole morente.
La belva in acciaio alla sua destra sembrò fremere di soddisfazione inespressa, ma non quanto l’artigliera che emerse dal portello superiore, smanacciando per issarsi oltre il bordo e poggiare le natiche corazzate sullo scafo. “È poderoso, Sorella!” scandì mimando un gesto con le mani che voleva celebrare la lunghezza e lo spessore della canna.
Poderoso.
Verna la guardò in volto per trovarci quel che già sapeva: un’eccitazione da ragazzina smaniosa di dispensare sacro castigo. Scosse la testa solo per non smontarle anzitempo l’entusiasmo.
Poderoso.
“Dove hai sentito questa parola?”
Quella s’accigliò senza rispondere e andò bene così.
“Rimettetelo in quiete, per oggi abbiamo concluso,” batté sulla paratia del carro armato, fece segno alle sue compagne di iniziare a ritirarsi fuori dal perimetro dell’area di tiro.
L’artigliera diede un cenno d’intesa e si calò nuovamente dentro il mezzo, sparendo alla vista.
Entusiasmo da ragazzine.
Il campo di tiro, una cittadina disabitata il cui nome era già stato dimenticato, sembrava guardarle dalle orbite vuote dei palazzi cadenti.
“Se ne può ordinare una batteria intera di questi?” commentò Migdal, algida, ravviandosi la chioma tinta di grigio, vivida nella luce obliqua del sole.
“Batteria? Ce ne mandano solo uno e consideriamoci benedette.”
Guardarono entrambe la massa notevole del Pantocratore fare manovra sui cingoli, lo scafo decorato dalla sola, anonima, verniciatura grigia di fabbrica.
Sulle loro retine aveva già il colore viola sacrale della livrea del convento.
 
***
 
“Non faccio molto qui,” Migdal rispose senza che lei avesse posto la domanda, “spunto liste, sorveglio, guardo le altre mentre si trastullano col nuovo veicolo. Sono stanca di addestramenti.”
Verna divise per un attimo con lei uno sguardo ferito, denso. Essudava un drammatico senso d’attesa.
“Quando ci daranno la nostra occasione, Sorella?”
Smise di guardare i suoi capelli grigi, ben sfumati intorno ma tenuti folti sulla sommità del capo; se li era voluti tingere di un anonimo color cenere in segno di umiltà e penitenza: la conosceva abbastanza da sapere quando c’era mestizia dietro l’apatia del suo sguardo.
“Pazienza. Il nostro momento arriverà.”
Una stretta cameratesca alla spalla: non poteva offrirle di più.
La residenza che il Comando provvisorio aveva destinato loro si presentava come un villino, murato su tre lati, ancora in buone condizioni; assomigliava a certe case mediterranee che aveva visto in foto, senza ricordare dove.
“Torniamo dalle altre,” sentenziò sapendo di non trovare resistenza.
S’incamminarono attraverso il cortile lastricato, fino alla sala che si apriva sul lato di fondo, un grande atrio riadattato. Perse Migdal quasi subito nella modesta calca delle consorelle, tra armature argentate e vesti viola, nel chiacchiericcio, nel viavai dai tavoli, disposti al lato del locale, dove qualcuna s’era presa la briga di allestire una parvenza di mensa e imbellettare i cibi semplici che i locali avevano fatto loro avere, come pegno di ammirazione e gratitudine.
Verna Holden si fermò davanti ai vassoi del pane messapio e dei papas: spese svariati secondi prima di pescare con le dita guantate e contemplare il bottino.
Odiava il fatto di amare il sapore di quella roba.
Poi i bicchieri azzurri, in vetro, cesellati a mano, come li producevano da quelle parti, allineati a ventaglio in una decorazione esotica.
Odiava il fatto di amarne la tinta, l’armonia nella disarmonia della forma.
Si specchiò nei dispenser d’acqua in acciaio, il volto un poco squadrato, giovane, gli occhi scuri, i capelli folti, aranciati, gettati a sinistra come un’onda.
I capelli.
“Guardi te stessa come si guardano le grandi eresie,” Migdal le ricomparve a fianco, inespressiva, allungata a prendere, malvolentieri, dal vassoio dei papas.
Verna scosse il capo, un qualche pungolo dentro le fece contrarre per un attimo il ventre. “Non mi sono abituata. Ai capelli, dico.”
Migdal mosse una mano guantata, gliene lisciò una ciocca con gesto grezzo. “L’arancio non ti dona.”
“No, infatti.”
Le strappò un mezzo sorriso che lei seppellì quasi subito dietro la consueta apatia.
Ci fu un piccolo tramestio, dei richiami, si cominciò a chiedere della musica. La noia aveva già esatto il suo tributo. Una delle consorelle sparì e riapparì con un violino in legno vecchio e lucido, e l’archetto; si mise in posizione defilata, con un piede poggiato su una sedia, e prese a suonare.
Partì come una serie di affondi cadenzati, lenti, poi la melodia trovò la sua forma. Divenne un ritmo più marcato, più vivo, qualcosa a metà tra una marcia e una danza, di gusto datato.
Qualcuna delle altre cominciò a tenere il tempo col battere dello stivale o di una sedia sul pavimento.
“A ognuno il suo,” sibilò Migdal scostandosi dal tavolo, “talento, intendo.”
“Non sai suonare o cantare?”
“Mi negherebbero l’accesso in San Pietro se mai cantassi a voce alta.” Batté una mano sul Vangelo che portava appeso al fianco, come un’arma.
Verna rise, la seguì. “Siamo in due.”
“Brenna!”
Cominciarono a scandire quel nome prima una, poi due, poi svariate delle altre, accompagnandolo col battere delle mani.
Brenna!
Brenna!
Loro rimasero a guardare mentre una delle consorelle veniva fatta alzare dal seggio e spedita in mezzo alla sala.
Brenna!
Il vociare ammirato delle altre incuriosì Verna Holden, l’entusiasmo la coinvolse.
Sorella Brenna aveva una chioma nera che non arrivava alle spalle; si prese una manata vagante che la fece barcollare prima e sorridere poi: un modo di tendere le labbra e scoprire i denti candidi che non aveva nulla di guerriero, le fossette sotto le gote, gli occhi lievemente strizzati nel gesto. Timidezza, forse.
Scambiò due parole con la violinista, che interruppe la performance, poi chiese spazio.
Verna la guardò ravviare i capelli, fini ma folti, ai lati del volto. Era sceso un silenzio improprio.
I colpi di violino ripresero a colmare i vuoti, stavolta con una cadenza diversa, prima lenta poi più veloce. Note di strada, vivaci, intense.
Qualcuna, tra le astanti, accompagnava con le percussioni metalliche d’un sonaglio.
Sorella Brenna iniziò a muoversi in un passo di danza fatto di movimenti eleganti delle gambe, dei piedi spostati, sovrapposti, alternati, in un modo che sfidava il concetto di destrezza.
Quando prese a voltare su sé stessa, ad accoppiare il moto dei fianchi, delle braccia, l’insieme aveva ora le sembianze d’un’opera d’arte in movenza.
Il toccare duro degli stivali sul pavimento era diventato leggero come un passo scalzo, così lo sfregare ruvido delle giunture dell’armatura.
Sorella Brenna danzava una qualche composizione che lei, Verna, non aveva mai visto, fatta di affondi, giravolte, curve e gestualità eleganti, di posture brevi, del tutto intonate al ritmo ora furibondo del violino e del sonaglio.
E il battito di decine di mani, l’abbozzo d’un canto in un qualche dialetto di cui non comprendeva le parole.
Migdal guardava più lei che la performance di Brenna, la sua espressione persa, le mani che scoprì di stare battendo seguendo il ritmo; Verna Holden si fermò, osservò i propri guanti come li vedesse per la prima volta.
Poi la musica, il violino accanito, il grande atrio che ora sembrava qualcosa d’uscito da una vita passata, a metà tra un sogno furioso e una mistificazione.
La danza.
Sorella Brenna danzava con la tenuta da battaglia indosso come non la portasse affatto, l’argento e il viola abbracciati, confusi, trasformati in una vaga sembianza ultraterrena. Aveva una forza, un’energia, che andava oltre il mero concetto di bravura.
Terminò in un brisé cui solo una cascata di petali sul capo avrebbe reso giustizia: si prese i cori d’approvazione della sala e qualche abbraccio invadente. Aveva un sorriso, nel ravviare i capelli, da ragazzina.
“Puoi respirare, ora,” Migdal si scostò e Verna la seguì dopo aver riempito i polmoni, vuoti da un minuto buono.
“Non ho mai…” Puntarono la porta per evitare la calca delle consorelle che andava addossandosi a Brenna.
“Era solo un balletto da strada.”
Uscirono nel buio incipiente, serale, con l’aria fresca a smuovere le vesti.
Verna stirò le membra, guardò altrove. Sentiva una qualche tensione muscolare che non le riuscì di smaltire. “Sei troppo cinica, a volte.”
“Io?” Migdal la fissò ferita. “Siamo state spalla a spalla nei vicoli della Città Bianca, mi hai insegnato bene cos’è il cinismo.”
“Ti ringrazio della stima.”
“A volte non ti capisco, Sorella: ti perdi dietro inezie. Avevi lo sguardo inebetito, poco fa.”
“Mi ha solo impressionato. La danza, dico. Non pensavo si potessero fare movimenti del genere.”
“Da dove provengo ho visto prostitute fare contorsioni più impressionanti.”
Verna rise, aggrottò le sopracciglia. “Non con l’armatura indosso, deduco.”
“Irrilevante. La danza è un talento che rifiuto volentieri.”
“E lo stesso io. Ma mi ha impressionato egualmente.”
Le rispose solo un grugnito di fastidio.
Verna Holden tolse dalla scarsella una stecca di glucosio, ne prese un morso, offrì alla compagna il resto: Migdal accettò con gesto brusco.
“Sei troppo cinica, a volte.”
Gli ultimi colori rosati del crepuscolo, in tinte ad olio, sullo scorcio di cielo oltre di loro.
L’attesa.
Un’occasione.
Un giorno.
 
***
 
“Ehi.”
L’aveva lasciata pregare a lungo, genuflessa di fronte alla piccola alcova nell’ala est del cortile: l’aveva guardata di lontano, osservata, studiata.
Aveva deciso più volte di andarsene al dormitorio, per la noia dell’attesa, ma non era mai riuscita a farlo davvero.
Era rimasta lì, seduta sul basamento di una delle colonne tortili, ad ascoltare il vuoto della notte e fissare i giochi di luce calda che i ceri, sparsi sulla gradinata dell’alcova, producevano sulla schiena d’argento di Sorella Brenna.
Solo quando l’aveva vista alzarsi e fare un ultimo segno di devozione, s’era alzata a sua volta. Le era andata incontro.
“Ehi.”
Brenna sollevò su di lei due occhi nocciola, sembrò perplessa di trovarsi davanti una figura alta, dai tratti un poco squadrati ma morbidi, i capelli tinti d’arancio, gettati a onda sul lato sinistro del capo. “Ti ascolto, Sorella,” mormorò.
Verna Holden vagò lo sguardo, a disagio. “Ti ho vista danzare, prima.”
“Come tutte.”
“Dove,” diede un’occhiata intorno, che nessuna delle poche nel cortile ascoltasse, “dove hai imparato quelle movenze?”
Brenna roteò le iridi al cielo, un fremito di fastidio che non riuscì a celare. “Tra la mia gente, prima dei voti.”
Una puntura da qualche parte dentro. “Perché alzi gli occhi?”
“Perché non sei la prima a farmi la predica su queste cose.”
Sui tratti di Sorella Brenna c’era uno scorno per nulla intonato alla delicatezza del viso: Verna increspò l’espressione. “Ma io non intendo farti prediche.”
“Col tuo permesso, allora.”
Lei si scostò e le passò oltre, il passo secco degli stivali sul lastricato.
“Aspetta!” Le andò dietro, la obbligò a fermarsi. C’era sempre quel senso di fastidio a pervaderla, insensato, iniquo, sbagliato. Lo sguardo era quello di chi sta sulla più erta delle difensive. “Non voglio rimproverarti nulla.”
“Cosa allora?”
“Non ti avevo mai vista prima.”
“Neanche io, se è per questo.”
“Comando il nostro distaccamento.”
“Ora lo so.”
“Ma sei parte del primo reclutamento o eri nel noviziato?”
“Ha importanza?”
Un silenzio strano, denso. Inadatto.
“Ho apprezzato il tuo ballo.”
Brenna vagò lo sguardo, incerta, dubbiosa. “Ti ringrazio.”
“E non lo trovo licenzioso o inopportuno.”
“Rinnovo.”
“Bene.”
Altro silenzio prolungato. “Posso andare, Sorella Superiora?”
“Verna. Il mio nome è Verna.” Le tese la mano: ci volle qualche secondo perché lei accettasse, senza enfasi, la stretta agli avambracci. “Brenna?”
“Alexis.”
“Il tuo nome è Alexis? Non era quel che sentivo ripetere, prima, dalle tue compagne.”
“Trovano che il mio cognome sia più guerriero, tutto qui.”
“Non concordo. Per quel che vale.”
Pensò di strapparle un sorriso, non accadde; l’espressione di Sorella Brenna era rimasta fredda, distante. “Posso andare, ora?”
“Certo.”
La guardò allontanarsi nel buio, verso le camerate. Non si voltò indietro.
 
***
 
Aveva ordinato una pausa tra le operazioni di controllo della griglia H-7.
Il sole in testa, le macerie lungo la propaggine ovest della cittadina abbandonata: solo un’altra noiosa esercitazione di routine.
Verna stappò la borraccia, bevve, se ne versò parte del contenuto sulla chioma che poi ravviò con ampi gesti della mano. Continuava a gettarle occhiate, di tanto in tanto, ora che s’era seduta poco più in là, nella polvere, all’ombra di un architrave, assieme a un paio delle sue consorelle, gli ARX a tracolla.
Le andò incontro.
Contò i passi, camminò diritta.
Sentì lo sguardo di Alexis Brenna inchiodato addosso, come quello delle sue compagne. Le si fermò accanto.
Le offrì la borraccia rimasta stappata. Lei guardava di rimando con due occhi attenti, impenetrabili. “Ho la mia, grazie,” accennò alla fiasca appesa alla cintura.
Verna scosse il capo. “Questa non è comune acqua. Viene dalla fonte sacra di Liturga.”
Attimo di silenzio, occhiate dubbiose tra le tre.
“E te la sei versata sulla testa?”
Verna assentì con un cenno. “Aiuta la concentrazione. Abbi fede.”
Tenne la borraccia tesa finché lei, dopo un’ennesima esitazione, l’ebbe presa. Rimase a guardarla mentre Alexis mandava un breve sorso in gola, senza poggiare la bocca sull’orlo; ne ammirò l’espressione che da perplessa passò ad accigliata, indecisa, le labbra piene umettate più volte.
“Ha un sapore strano.”
“La santità ha i suoi svantaggi.”
Riprese la borraccia senza smettere di osservare, sottilmente divertita, le increspature sul viso di lei.
“Vi annoiate?”
“Tutto è noioso, qui, Sorella,” rispose una delle altre. “A parte condurre il sacro Nuovo Veicolo.”
Un’occhiata, tutte, al Pantocratore in piena manovra tra i detriti, cento metri più avanti.
“Ho una mansione meno noiosa, ma per una sola di voi.”
“Volesse il cielo.”
“Tu,” indicò Alexis, “la assegnerò a te. Alzati.”
Lo scorno sui volti delle altre due, l’espressione scura, quasi seccata, di lei.
“Alzati, ho detto.”
“Mi trovo bene con la mia mansione, Sorella Superiora.”
“Non è un’offerta, è un ordine.”
Alexis Brenna si alzò in piedi dopo aver espirato seccamente e rimesso il fucile in posizione tra le mani.
“Seguimi. Per voialtre, dieci minuti extra di pausa.”
Si congedò da loro, diretta a passo spedito verso la direzione opposta e gli steccati d’acciaio del perimetro ovest, Alexis poco dietro.
Varcarono il circolo sparso della sua squadra in ozio tra le rovine del manufactoria; Verna accennò alla nuova venuta. “Sorella Brenna mi farà da assistente per il resto della giornata: consideratela una di noi, cortesemente.”
Qualche riso, mezzi commenti. Aleutyna la guardava a capo inclinato da sopra un grosso davanzale. “Ma è la ballerina di ieri sera.”
Alexis era scura in volto, attorniata da occhiate ed espressioni equivoche.
Verna si sentì cingere un braccio, si voltò a guardare Migdal sui tratti forti, severi. “Sei seria?”
Le sorrise duro in risposta. “Prestami il tomo.”
Migdal abbassò lo sguardo sul Vangelo che portava appeso al fianco, ci poggiò una mano sopra come a proteggerlo. “Sei seria?”
“Più che seria.”
“Che stai facendo, Sorella?”
Attese senza rispondere che lei sganciasse il tomo dal fermo e glielo mettesse in mano, poi tornò da Alexis, che era rimasta piantata, rigida, con l’ARX tra le mani e lo sguardo truce al terreno. “Metti a tracolla il fucile, non ti servirà.”
Lei ubbidì malvolentieri, prese il libro che le era offerto.
“In quanto mia assistente, mi accompagnerai a supervisionare le operazioni.”
“E il testo?”
“Per alleviare la noia di entrambe, me lo leggerai in sottofondo.” Lo sguardo di lei dilatò, e ne fu divertita. “Niente obiezioni, Sorella.”
Alexis fissava il vuoto con le labbra dischiuse.
“Vogliamo andare?” Verna s’incamminò verso il cerchio operativo. “Inizia pure dal primo capitolo, senza trascurare pronuncia e tono.”
 
***
 
“Ehi.”
Il sole ormai calato, il fresco della sera, il grande cortile del villino: vago senso d’introspezione. I ceri sulla gradinata dell’alcova.
Alexis Brenna sembrò una volta di più seccata di vederla; Verna ne sorrise nel suo modo sottile, irrisorio. “È tutta la sera che mi eviti.”
“È una tua impressione, Sorella Superiora.”
“Certo. Siediti, intanto.”
“Non sono stanca.”
“Siediti, ho detto.”
Lei espirò, obbedì, sedette sui pochi gradini di uno degli accessi chiusi alle corti laterali. La notte, intorno, profumava di fiori dall’aroma pungente.
“Hai danzato bene, anche stasera.”
“È la mia arte, la conosco.”
“Te la sei presa per oggi?”
“Non me la sono presa.”
Verna poggiò uno stivale sul basso basamento a fianco, la guardò dall’alto in basso. “Non sei brava a nascondere le cose.”
“Puoi credere come preferisci.”
“Allora domani riavrai la stessa mansione.”
“Se così devo.”
Non parlarono più per un minuto buono; Verna guardava intorno, l’attenzione attratta da dettagli futili, le piante nella penombra, gli archi a volta, le piccole statue votive.
Quando Alexis parlò lo fece con una punta d’esasperazione. “Cosa ho fatto di sbagliato, Sorella Superiora?”
“Tu? Nulla.”
“Se ti ho offesa in qualche modo me ne dispiaccio.”
“Non mi hai offesa.”
“Se ho mancato a qualche regola…”
“Non hai mancato a nulla, smettila di agitarti.”
Silenzio carico. Il suo respiro nervoso.
“Allora perché mi tratti in questo modo?”
“Quale modo?”
Alexis aprì le mani in un gesto autoevidente.
“In che modo ti tratto, Sorella?”
“Le altre parlano alle mie spalle per quello che stai facendo.”
“Che dicono?” Il sorriso di Verna si fece più deciso, più sicuro. “Temi il giudizio delle altre?”
“No.”
“Allora non dovrebbe importarti cosa dicono.”
“Non voglio che parlino di me. Sono solo una tra tutte, non voglio che parlino di me.”
“Cosa dicono? Raccontamelo.”
Lei espirò seccata, guardò al pavimento. “Che vuoi umiliarmi perché pratico un’arte pagana.”
Verna rise, scosse il capo. “Sei ingenua, Alexis.”
“A pensare male spesso si coglie nel segno.”
“Sei capace di cattivi pensieri?”
Brenna tacque, vagò le iridi. “Non so cosa intendi.”
“Sei sempre nervosa, tesa. C’è qualcosa che mi nascondi o che vorresti dirmi?”
“Nulla, ma resto della mia idea.”
“Ho detto che ho apprezzato la tua danza, ieri. Se volessi punirti lo farei apertamente, senza sotterfugi.”
“Se lo facessi, ti inimicheresti le mie compagne.”
“Non voglio punirti, non hai fatto nulla di male. Ascolta quello che ti dico.”
“Ti sto ascoltando.”
“Non sembra. E poi, hai sempre quello sguardo.”
“Quale sguardo?”
“Seccato, infastidito. Impaurito.”
“Non ho paura. Ma mi rende nervosa essere punita per una cosa che so fare, e che amo fare.”
“Nessuno ti sta punendo.”
“Mi metti da sola di fronte a tutte le altre: questo è punire, Sorella Superiora.”
Verna sorrise, un sorriso forzato. “Questo non è metterti da sola di fronte a tutte. Non lo farei, non con te.”
Alexis si alzò, brusca. “Sono stanca, vorrei ritirarmi.”
“Accordato.”
La guardò sgusciare via con solo una punta di risentimento. La notte, intorno, continuava a profumare di fiori e d’aroma di candele.

***

[...]


Ultima modifica di Fante Scelto il Mar Lug 11, 2023 11:24 pm - modificato 3 volte.
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QUELLE DUE - Ep. 1 - La noia Empty Re: QUELLE DUE - Ep. 1 - La noia

Messaggio Da tommybe Mer Lug 05, 2023 11:16 am

Sempre più bravo, oserei dire un fuoriclasse.
Pure la copertina, forse provvisoria, è bella.
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Messaggio Da Fante Scelto Sab Lug 08, 2023 2:17 pm

***


“Attenzione, tutte!”
Verna Holden interruppe il pattugliamento della griglia F-13 con una serie di gesti e sbracciamenti intorno; attese che le consorelle convergessero sulla sua posizione. Il Pantocratore ridusse i motori al minimo e l’equipaggio si affacciò dai portelli.
“Voglio testare gli strumenti di screening del nuovo carro, simuleremo una situazione di ricerca di fuggitivi in ambiente urbano diroccato. Svoltiamo questa noiosa giornata.”
Ci fu un moto di soddisfazione trasversale.
“Una di voi avrà trenta minuti per celarsi ovunque in griglia e non farsi raggiungere: tutte le altre le daranno la caccia con l’ausilio del mezzo corazzato.”
Altro verso di soddisfazione corale.
Verna aveva già adocchiato Alexis Brenna, confusa tra le compagne, e la sua espressione cupa: ne sorrise con una punta di malevolenza. “Tu!” Accennò nella sua direzione con tutta la noncuranza dell’universo. “Tu sarai la fuggitiva, Sorella. Avviati pure, hai trenta minuti per renderti introvabile.”
Sentì una certa soddisfazione nel vedere il suo viso dai tratti delicati passare da cupo a inviperito, e dover dissimulare, male, con un laconico Sì, Sorella Superiora.
Percepì anche il disagio tra le sue compagne più strette, ma scelse di soprassedere.
“Caricate le vostre armi con munizioni a salve e traccianti luminosi: darò una nota di merito alla squadra che mi porterà la fuggitiva.”
Guardò Alexis scomparire livida tra i primi edifici in rovina: la giornata poteva veramente ricevere una buona svolta.
 
***
 
“Ehi.”
Lo sguardo di lei era duro, truce, anche nella scarsa luce dell’alcova, coi suoni della notte intorno e i passi distanti delle sentinelle lungo le murate. Si era appena alzata dalla genuflessione.
Verna cercò un mezzo sorriso, falso, col quale stemperare la tensione.
“Pensavo che non saresti venuta, stasera, a pregare.”
Alexis increspò le labbra e gli occhi. “Non rinuncio alla preghiera solo per non incontrarti qui.”
“La cosa ti infastidisce?”
Lei sembrò voler replicare di getto, si trattenne, guardò altrove. “Qualunque cosa io risponda è ininfluente."
“Puoi parlare senza costrizioni, con me.”
“No che non posso. O continuerai a umiliarmi come hai fatto oggi.”
“Non ti ho umiliata.”
“Lo hai fatto. E con soddisfazione, anche.”
“Non ti ho umiliata, smettila. Ti ho solo voluto mostrare cosa significa essere davvero da sola davanti a tutte.”
“Anche quel che è successo dopo?”
Verna scosse il capo, ilare. “Non ne posso nulla se le tue compagne non hanno saputo trovarti prima delle mie. E Migdal, la mia seconda, è brusca nei modi.”
“Stare in ginocchio è una cosa che si fa solo davanti a Dio o per espiare una colpa: non davanti a tutte, e con le mani legate.”
“Ti sei fatta trovare, e questa è una colpa.”
“Tu vuoi umiliarmi, Sorella Superiora.”
“Ti sbagli.”
“Allora dimmi cos’è che vuoi da me. Dimmi perché continui a mettermi in imbarazzo davanti a tutte per poi attendermi qui, la notte, dopo la preghiera.”
“Non voglio nulla da te.”
Alexis espirò, torva. “Allora lasciami in pace.”
Disagio, fastidio, un formicolare di cose al ventre. Verna incupì a sua volta, compose le braccia e le sciolse quasi subito per non apparire futilmente severa. “D’accordo. Rimani nel tuo falso senso di sicurezza.”
“Falso senso di cosa?!”
“Hai sentito quel che ho detto.”
Rimasero a guardarsi per qualche secondo, Verna tesa, lei incredula; Alexis scosse il capo, “Questo discorso non ha significato." Le passò oltre, decisa, stizzita.
“Ne ha eccome.”
Si voltò brusca a guardarla, gli occhi dal bel taglio dilatati, frementi. “Parla chiaro, Superiora. Se hai qualcosa contro di me dillo, e io farò ammenda, se posso.”
“Non ho nulla contro di te.”
“Allora lasciami stare.”
Si voltò, avviandosi ai dormitori, il passo egualmente stizzito dei suoi stivali sul selciato.
Verna attese un momento lunghissimo, di lotta, di conflitto, poi le andò dietro con un verso di scorno, unì i suoi passi furiosi a quelli di lei. “Proprio non capisci, tu!”
La obbligò a fermarsi, la scostò in un corridoio aperto, sul lato della tenuta, per stare fuori vista dalla guardiana del muro nord.
“Cosa non capisco?”
“Che ti sto proteggendo, testa dura!”
“Proteggendo?” Un sorriso alieno, Alexis, a metà tra incredulo e provocatorio. “Da cosa?”
Verna non rispose, occhi negli occhi.
Lei scosse la testa dopo qualche secondo d’attesa, si mosse, fece per andarsene, livida, la Superiora la trattenne e riportò nel corridoio con un gesto deciso. “Non puoi andare senza il mio assenso, Sorella.”
“Allora dammelo e terminiamo questa conversazione assurda.”
“Non ancora.”
Altri secondi di silenzio gravido, pesante. Alexis chiuse gli occhi per un momento, giunse le mani in un gesto che non aveva nulla di devozionale e tutto di presa sulla razionalità. “Parla chiaro, Superiora, te lo chiedo in nome dell’Altissimo.”
Verna si morse il labbro inferiore, vagò lo sguardo, ravviò l’onda dei capelli con malcelato fastidio.
Occhi negli occhi.
“Non è per te, non ce l’ho con te.”
“Cosa, allora?”
Nuovo esitare furioso. “È per le altre.”
“Cosa fanno le altre?”
“Il modo in cui ti trattano.”
“Non ho problemi con nessuna delle altre, mi trattano bene, stai dicendo assurdità.”
“Detesto il modo in cui si esaltano per te e ti ammirano.”
Alexis dilatò gli occhi in un misto di rabbia e sorpresa. “Sarebbe questo?! Sei invidiosa che mi ammirino?”
La mano di lei sbattuta sul pettorale dell’armatura. “Non è invidia, testa dura. È preoccupazione. Non hai imparato nulla da quanto è accaduto durante la guerra per la Città Bianca? L’esaltazione, l’individualismo, ci dividono e rendono deboli.”
“Tutto questo perché le altre vogliono vedermi ballare durante i momenti di ricreazione? Non puoi dire sul serio.”
“Hai detto di voler essere una tra tante, che non ami essere messa sola davanti a tutte: beh, fai esattamente l’opposto danzando in quel modo per l’allegria delle altre.”
“Un’incoerenza che riguarda me e non te, Sorella.”
“Riguarda me perché io ho la responsabilità del comando fino a quando non saremo rientrate al convento. E perché è mio dovere dirti dove commetti un errore. Se credi di essere migliore delle altre è peccato di superbia.”
“Non ho mai creduto di essere migliore di nessuna, sei del tutto fuori dalla ragione.”
Verna si scostò da lei con un gesto iroso, ravviò i capelli. Agitazione, tensione, tutto senza una reale logica. “Proprio non vuoi capire.”
“Una cosa la capisco sicuramente: le altre mi avevano messo in guardia da te, e avevano ragione.”
Tornò a fissarla spaesata, con occhi induriti. “Cosa ti hanno detto di me?”
“Che sei sadica. Col nemico tanto quanto con noi.”
“Io sadica?” Verna vagò le iridi, febbrile, ferita. “Pensano questo di me?”
“Ora lo penso anche io.”
Lei ebbe un gesto inconsulto. “Vattene. Va’ a riposare.”
“Così domani mi umilierai ancora?”
“È possibile. Ora vattene.”
Alexis si scostò brusca, le rivolse un’ultima occhiata d’astio, poi si avviò verso le camerate.
Verna Holden mise le mani ai fianchi, il respiro una nota più veloce del consueto. Qualcosa non andava, in lei, in loro, in tutto.
Qualcosa.
Prese a sua volta la via dei dormitori dopo aver dato tempo ai passi di Alexis Brenna di svanire nella notte.
 
***
 
“Ci daranno un’assegnazione. Forse.”
Il volto marcato di Migdal fu rischiarato da una specie di sollievo che ne alleggerì i tratti. “Lo voglia il Cielo.”
Verna alzò di spalle, le braccia conserte, mentre osservavano con distacco l’imbarco del Pantocratore e del munizionamento sull’aereo cargo, tra le sabbie del campo di scarico e il viavai del personale dell’Aeronautica civile.  “Ho letto dei rapporti, c’è fermento oltremare. Se ci richiamano al convento con cinque giorni d’anticipo, magari è il nostro momento.”
“Lo volesse il Cielo,” Migdal aggiustò la presa sul fucile, “lo volesse davvero.”
Verna guardò con ancor più distrazione la breve fila delle consorelle che caricava i propri effetti personali sul cargo: distolse quasi subito lo sguardo quando scorse Alexis Brenna tra loro. Maledisse di averlo fatto quando il lungo respiro di Migdal, attenta come un corvo, fu preludio di una smorfia di fastidio. “Sei strana. Sono due giorni che parli appena.”
Verna scosse il capo, espirò. “Sono solo stanca e annoiata da questa decade di nulla. E contenta di rientrare.”
“Successo qualcosa che non so con,” una punta di disprezzo, “la ballerina?”
Fastidio alle viscere. “Nulla. Ha imparato la lezione.”
Assenso dubbioso. “Farai rapporto alla Precettrice?”
“Non ce n’è motivo. Ha imparato la lezione, ho detto.”
Guardò senza volerlo verso le consorelle, la riconobbe, di schiena, conversava con un’altra. Distolse lo sguardo quasi subito.
 
***
 
La tensione al ventre era diventata forte, al punto da cominciare a far bruciare i muscoli addominali.
Poggiata sulla stuoia coi soli avambracci e le punte dei piedi, Verna Holden perse il filo dei brevi salmi che scandivano il tempo quando la porta del gymnasium s’aprì per breve e si chiuse.
Non poté drizzare lo sguardo per via della postura tirata e la necessità di resistere a oltranza: ipotizzò fosse Migdal per un allenamento tardivo, ma il passo di stivali corazzati, nel vuoto del gymnasium deserto, echeggiava più fine.
Li vide fermarsi, quegli stivali, a un metro neppure dalla propria stuoia, e lì rimanere, nel silenzio, a lungo.
L’idea di non riconoscere la consorella che le stava innanzi, senza vederla oltre le ginocchia, cominciò a provocarle fastidio. Quando questo superò il dolore agli addominali tesi, si decise a sollevare il capo: stranì al vedere i bei tratti, delicati, di Alexis Brenna. I suoi occhi nocciola e i capelli neri e fini, tagliati a caschetto quasi alle spalle.
Tornò a fissare il pavimento e la stuoia sotto di sé, col dolore agli avambracci che si assommava a quello al ventre. Un certo senso d’inquietudine, arrivato dal nulla con lei, cominciava a farle desiderare d’interrompere l’esercizio e assieme prolungarlo all’infinito.
Resse finché riuscì, poi si adagiò a terra e si mise sulle ginocchia a riprendere fiato. Alexis la guardava lì, prostrata dalla fatica fisica, con espressione sorniona, attenta, in silenzio. “Non volevo interromperti,” si giustificò dopo un tempo interminabile, “ma non sono riuscita a incontrarti prima o altrove.”
“Mi hai trovata.”
“Perché ti alleni sola e a quest’ora tarda?”
“Esiste un’ora per temprare il fisico?”
“Farlo la sera ti guasta il sonno, se posso consigliarti.”
Verna annuì appena. “Mi annoiavo alla preghiera serale.” Ravviò i capelli che le erano spiovuti sulla fronte, poggiò le mani sulle cosce. Per qualche motivo si sentì esposta, scoperta, con la tuta da fatica aderente nera, il top nero, le calzature da allenamento, mentre lei era in armatura completa.
“Cosa fai qui?”
Alexis vagò le iridi per qualche secondo, forse a disagio. “C’è una cosa che volevo dirti. Ma non ho avuto occasione: da quella sera non ti ho più vista, se non di lontano. E neppure da quando siamo tornate al convento.”
“Non era quello che volevi?”
“Sì.” Pausa. “Ma non credevo che mi avresti davvero lasciata stare.”
“Buon per te.”
“E te ne ringrazio.”
Scese un altro silenzio teso.
“Cosa dovevi dirmi?”
Alexis esitò, ravviò i capelli, “Ti ho mentito,” la guardò ma distolse gli occhi quasi subito. “E mi dispiace di averlo fatto. Non riuscivo a stare senza dirtelo.”
“Mentito su cosa?”
“Quando ho detto che sei sadica. Nessuna mi ha riferito questo, ho mentito, l’ho detto solo per offenderti.”
Verna abbozzò un sorriso freddo, scosse il capo. “Non mi conosci. Potevi risparmiarti la fatica.”
“So che hai fatto delle cose, durante la guerra per la Città Bianca, me lo hanno detto. Ma il sadismo è altro.”
Ricordi fugaci, violenti. La Città Bianca.
“Ho fatto cose, sì.”
“Erano certamente necessarie.”
“Lo erano.”
Alexis accennò col capo, una sorta di commiato. “Avevo bisogno di dirtelo. Solo questo.” Si voltò e fece per avviarsi all’uscita.
“Aspetta.” Verna si alzò in piedi, il fisico muscolare, tonico, esaltato dagli abiti aderenti, il ventre nudo con gli addominali resi prominenti dalla fatica. “Ti ho mentito anche io.”
“In che modo?”
Lei si diresse alla sacca lasciata sul pavimento, ne tirò fuori la borraccia: diede un sorso degno di certe bestie del deserto e poi la esibì con una specie di sorriso tetro. “Quest’acqua non viene dalla fonte sacra di Liturga.”
“Da dove, allora?”
“Oh, è soltanto acqua tonica.”
“Non me ne piaceva il sapore, infatti.”
Verna osservava, divertita, le strane luci sul volto da ragazzina di Alexis: doveva essere più giovane di lei di qualche anno. “Sei proprio ingenua.”
“Migliorerò.”
Si voltò con un cenno di commiato. Verna la guardò arrivare fino alla porta con dentro un conflitto peggiore di quello tra le vie della Città Bianca. “Aspetta!” Il suo voltarsi tradì una certa inquietudine. “Vieni al devozionale nell’ala IV, alle undici.”
“Per quale ragione?”
“Voglio solo meditare. Insieme.”
Alexis si adombrò per un lungo attimo. “È un ordine?”
Lei fece segno di no.
La guardò svanire oltre la pesante porta del gymnasium.
 
***
 
Non credevo che saresti venuta, ma non lo disse, guardandola incunearsi nel passaggio tra le colonne. Aveva un’espressione strana, sospettosa forse.
Dopo le abluzioni, le vesti pulite, l’armatura di nuovo indosso, Verna Holden era tornata a sentirsi completa.
Alexis, di suo, sembrava a disagio. “Non hai neppure acceso i ceri,” commentò incerta.
“Mi piace la penombra.”
Contemplarono per un attimo la statua, a dimensione naturale, della Devota eretta, il corpo nudo scolpito nel marmo bianco, la veste rituale abbandonata sotto i piedi, lo sguardo alla volta, le mani giunte in estatica passione.
“Ti sei mai chiesta,” mormorò Verna, “a chi assomiglia?”
“Perchè?”
“Dicono che la Madre abbia voluto appositamente queste statue sparse nel convento, e che ognuna è stata ispirata da una di noi.”
“E questa è ispirata a te?”
Verna rise, stralunata. “Cosa? No!” La figura atletica, candida, il biancore del marmo nella luce lontana, artificiale e leggera, dei neon celati tra le volte. “Non mi assomiglia per nulla.”
“Infatti.”
Le fece segno di genuflettersi e si chinò con lei, fianco a fianco, innanzi al simulacro.
Giunse le mani, inspirò. Immagini della Città Bianca e dei vicoli insanguinati, bruciati, le urla, la obbligarono a sbattere più volte le palpebre per ritrovare equilibrio. “Non credo,” scandì, “che la Madre mi avrebbe mai dedicato una statua votiva.”
Rimasero in silenzio per un tempo che parve interminabile.
I loro occhi, invece di chiusi, sondavano equivoci al proprio lato.
“Sei tesa,” Verna cambiò postura delle mani, “non hai motivo di esserlo.”
“Non ne sono certa.”
“Stiamo solo meditando.”
Alexis si sforzò di concentrarsi sulla statua, su pensieri distanti. “Sorella,” scandì dopo una lunga attesa, “c’è qualcosa che vuoi dirmi?”
Verna fece segno di no, ci ripensò, fece per dirlo, si trattenne.
“Perché siamo qui, allora?” insisté lei.
Un respiro più lungo degli altri. “Non lo so.”
“Non voglio offenderti, ma ora tornerò alla mia camerata.”
“Resta ancora qualche minuto.”
“È meglio di no.”
Verna la guardò alzarsi, con la coda dell’occhio, senza distogliere le iridi dal simulacro. S’impose di restare genuflessa ma al terzo passo di lei verso il colonnato sentì l’impulso d’alzarsi, brusca, voltarsi a cercarla. “Hai paura di me?”
Negli occhi di lei, da cerva, c’era un’apprensione profonda.
“No, Superiora.”
“Non mentirmi.”
Un respiro più breve. “M’inquieti, sì.”
“Per quale motivo?” Verna avanzò di un passo, il suo viso marcato, l’onda dei capelli aranciati. “Per quello che dicono le altre? Per quello che ho fatto nella Città Bianca?”
“Per molte cose che non voglio dire ora.”
Le si accostò ancora, un altro paio di passi nervosi. Guardava Alexis Brenna in volto con la più cupa delle espressioni. “Dimmele, invece. Siamo solo noi, non ti porterò rancore.”
“Non voglio parlarne.”
“Dimmele.”
Alexis si voltò brusca, stizzita, s’avviò fuori dal piccolo colonnato: la mano che le afferrò il braccio, la obbligò a voltarsi e la mise di schiena contro una delle colonne aveva un vigore bruciante. Si trovò a guardare, occhi negli occhi, Verna Holden e il suo viso solcato da una latente forma di collera.
“Dimmi perché.”
Alexis abbassò lo sguardo a quella mano guantata ancora stretta al proprio braccio e tornò a fissarla, inquietudine profonda. “Lasciami.”
“Rispondimi e ti lascio.”
“Non parlerò con te, lasciami.”
Verna le sollevò il braccio in un gesto di sfida, lei si sottrasse con un movimento brusco, duro, lo sguardo ora freddo. Fece per togliersi dal confronto, Verna sbatté una mano contro la colonna bloccandole il passo.
Tornarono a fissarsi, iridi dilatate, a un nulla l’una dall’altra.
“Cos’è che vuoi da me?!”
Verna aveva gli occhi vitrei e l’espressione di colpo assente. “Non lo so…”
Una vibrazione interiore, qualcosa che pervadeva, in direzioni confliggenti, entrambe.
“Causarmi dolore? Paura?”
La mano della Superiora sbatté contro il marmo lucido della colonna, echeggiando nel silenzio. “Sei l’unica cui non vorrei mai causare dolore o paura.”
Silenzio grave.
La penombra, la luce bianca e distante dei neon.
“È,” la voce di Alexis si ridusse a un sussurro rabbioso, “il mio corpo che vuoi?”
Respiro accelerato.
La mano di lei lasciò la colonna, si mosse, le si poggiò con forza sul petto, sulla rotondità del seno corazzato. I loro volti a un nulla l’uno dall’altro, quello di Alexis inclinato a fissare le cinque dita guantate sul suo pettorale.
Respiri densi.
“No,” Verna scosse il capo, la voce ora mesta, amara, “no, non è questo.”
“Cos’è allora?”
Verna Holden si scostò, lasciò il suo petto; alzò la testa con gli occhi chiusi, serrati, e il candore della luce a disegnarle arabeschi sui bei tratti.
Quando li riaprì, quando tornò da lei, Alexis si trovò a guardare in viso una donna, una ragazza, non molto più matura di sé stessa, un poco più alta, più forte nel fisico, sebbene le armature celassero le differenze.  Non c’era più in lei alcun segno di collera, conflitto o incertezza.
“Non lo so,” la sua voce era tornata calma, “non lo so cos’è. Affetto, credo.”
“Affetto?”
“Non lo so.” Si scostò da lei, lasciandole il passo. “Sento di volerti stare vicina. Proteggerti. Forse l’affetto è così. Non ne ho idea.”
Alexis Brenna alternava gli sguardi tra lei e il pavimento, a disagio.
“Ma perché io?”
“Non lo so!” Verna sembrò sul punto di dire qualcos’altro, non lo fece. “Vai,” il gesto del braccio a indicarle l’uscita, “non ti cercherò più. Dimentica tutto, se puoi.”
“E tu?”
“Farò lo stesso.”
Alexis si avviò, incerta, sui suoi passi, raggiunse l’uscita senza più voltarsi indietro. Aprì la porta della sala, fece per uscire, si fermò. Voltò il capo e le concesse un’ultima occhiata, stagliata nella poca luce del colonnato, l’armatura argento e le vesti viola, prima di allontanarsi e far perdere i passi nel lungo corridoio istoriato.

***

[...]
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Messaggio Da Fante Scelto Mar Lug 11, 2023 11:24 pm

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Spoiler:



***


“Vieni avanti, Sorella.”
Verna occhieggiò brevemente al grande atrio del Sanctum, le raffigurazioni sulle pareti, la volta buia sopra di sé; chiuse e riaprì le dita della destra in un gesto di tensione.
La Precettrice attendeva lì, avvolta nelle vesti sacre viola che coprivano buona parte della sua armatura: rinnovò l’invito a entrare, lei ubbidì.
La grande porta si chiuse da sé alle sue spalle.
Verna osservava, in silenzio. Sentì inquietudine, non soggezione. Reiko Agger era una donna dai tratti austeri, marcati, dalla capigliatura folta e scura, acconciata quasi a ventaglio appena sopra le spalle. La benda nera con la croce, sull’occhio, copriva una vecchia ferita.
Dal suo arrivo al convento, dopo la morte della Madre, quasi nessuna aveva cessato di considerarla un corpo estraneo.
“C’è qualcosa di cui vorresti parlare con me, Sorella?”
Verna la squadrò per un lungo attimo, indecisa; cercò un’espressione indifferente per dissimulare, senza riuscirci. “Se hai indicazioni…”
Reiko le si mosse incontro, lenta, solenne a suo modo, le si fermò innanzi. Sembrò scrutarla e assieme guardare altrove, nello stesso momento, con l’unico occhio sano.
“Mi è stato riferito che da giorni ormai eviti di relazionarti con le tue consorelle: consumi i pasti da sola, ti alleni sola, non frequenti i punti di aggregazione. Questa non è una buona condotta, tantomeno per una Superiora: dovresti conoscere l’importanza dell’unione e della solidarietà tra tutte noi.”
Lei ravviò i capelli alla ricerca di una gestualità posata. “Chi ti ha riferito queste cose?”
“Non è importante. È rilevante, al contrario, che tu stia tenendo dei comportamenti insoliti.”
“Con rispetto, Sorella Precettrice, sei con noi da poco: non puoi conoscere il carattere di ognuna. Non amo la socialità, puoi domandarlo a chiunque tra le mie compagne: a volte preferisco la solitudine.”
“Non conoscerò il carattere di ognuna, ma conosco il tuo, Sorella Holden.”
Brivido di fastidio.
Reiko Agger si mosse, prese a camminare lentamente davanti a lei, composta. “Sei tra quelle che si è più distinta durante la guerra per la Città Bianca. Hai zelo e ferocia. Una spiccata indipendenza. Attitudine al comando dando l’esempio più che l’incoraggiamento. Una Fede che a volte può sembrare più un mezzo che un fine.”
Sopracciglia increspate. “Cosa intendi?”
“Non di mettere in discussione la tua Fede, Sorella Superiora: su questo puoi rasserenarti.”
“Difficile sentirsi serene quando si è sotto disamina.”
“Non ci sarebbe disamina se i tuoi comportamenti non rivelassero un qualche malessere, da cui rinnovo l’invito iniziale: c’è qualcosa di cui vorresti parlarmi?”
“È solo un breve periodo di affaticamento, aggravato da questa attesa che tutte soffriamo per una missione, un’assegnazione, qualsiasi cosa che ci dia l’occasione di mostrare quanto valiamo. Credevamo di essere state richiamate in anticipo dall’addestramento perché si profilava un’operazione militare, invece scopriamo che non c’è ancora nulla per noi.”
Reiko osservava, uno sguardo intraducibile. Si prese svariati secondi prima di profondersi in un gesto distensivo della mano. “Le occasioni arriveranno. Non guardare alla mia figura solo come uno strumento di penitenza o castigo, Sorella. Conoscevo la Madre, la rispettavo: ha voluto me, qui, non per prendere il suo posto ma per vegliare su di voi. Non pretendo di avere da subito la vostra fiducia, ma è mio compito cercare di ottenerla.”
“È comprensibile, Sorella Precettrice.”
“L’esortazione è che tu ti confidi con me, Verna Holden. Conosco i sintomi dei malesseri interiori. Avrei potuto convocarti in un confessionale, invece ho scelto di farlo qui, nel luogo più sacro del convento: per farti intendere che puoi esprimerti liberamente, nell’interesse di tutte.”
Lei scosse il capo, una specie di sorriso accennato, cupo. “Non ho nulla da confidare perché nulla turba la mia anima.”
“Non hai nulla da confessare ma potresti avere delle domande, sulla liceità di pensieri, parole e azioni. Risponderò a tutto questo, se lo desideri.”
Verna la fissò negli occhi, ricerca febbrile di quanto e cosa sapesse, in che modo. Se stesse esercitando la sua oratoria solo per farla cadere in contraddizione.
“Non ho nulla da domandare.”
“Molto bene. Sai dove trovarmi se deciderai di approfondire la questione, prima, naturalmente, che sia io a cercarti per redimere un’eventuale condotta impropria.”
Lunghi attimi di silenzio, poi Verna chinò il capo in un gesto rispettoso. “Non ci saranno condotte improprie.”
Si congedò con un saluto composto, forzato. Si fermò quasi subito per rivolgersi alla donna con l’occhio bendato. “Una cosa da confessare in verità ce l’ho, Sorella.”
“Ti ascolto.”
“Ho provato molta noia, negli ultimi tempi. Ma ora,” labbra increspate, “ora non la sento più.”
 
***
 
Entrò in camerata con addosso qualcosa di simile all’adrenalina, la vista offuscata.
Migdal era lì, accanto al proprio letto, in ginocchio davanti al piccolo altarino di legno che si era intagliata da sé, assorta in preghiera ma vigile abbastanza da voltare la coda dell’occhio al suo ingresso. Le andò incontro a passo severo.
“Grazie,” Verna allungò le mani, la afferrò per una spalla e la tirò all’impiedi con tutta la forza, “per il tuo generoso interessamento!”
Migdal reagì con la prontezza d’una guerriera, liberandosi dalla presa, barcollando per un attimo e voltandosi a fronteggiarla. “Tieni le tue futili questioni fuori dalla mia preghiera.”
“La preghiera può attendere, io no.”
“Anche blasfema, ora!”
Verna serrò i denti in una maschera di collera, lo stridere dei guanti stretti con forza. “Non ti permettere mai più di parlare con nessuno delle cose mie, men che meno la Precettrice.”
“Le cose tue sono cose di tutte se danneggiano la squadra e il convento.”
“Stai vaneggiando. Io ti ho sempre rispettata, sempre, tu mi devi lo stesso!”
“Anche io ti rispettavo, prima che t’infatuassi di quella patetica ballerina!”
Occhi sgranati, Verna, un manto freddo calato addosso. “Io non mi sono infatuata di nessuna, tu sei pazza!”
“Ti ha fatto qualcosa nella testa,” Migdal si sbatté con forza l’indice sulla tempia, fuori di sé, “tu non sei più te stessa, Sorella, non sei più tu!”
“Non mi ha fatto nulla, stai delirando.”
“Io rivoglio la Verna Holden che conoscevo, quella che mi ha fatto vedere cosa significa essere il Suo braccio armato nelle vie della Città Bianca!”
“Sono qui!” Verna si sbatté le mani sul pettorale dell’armatura, con foga. “Sono qui! Sono sempre la stessa, non mi vedi?!”
Scuotere attonito del capo. “Vedo solo un guscio di te che si deprime dietro una fottuta ragazzina.”
Lei scattò. La afferrò di peso, la sbatté schiena al muro nello spazio tra due letti; Migdal reagì di ginocchio, le spedì un colpo al ventre che la piegò in due.
Si rovesciarono sulla branda di lei che cigolò paurosamente, poi a terra, sbattendo sul pavimento. Un incastro di gambe e braccia nel tentativo di sopraffarsi, versi sconnessi, abbatterono il modesto altarino intagliato.
Migdal le afferrò il volto, invasata, occhi feroci, lei la scalciò indietro. Si rialzarono barcollando nel poco spazio, Migdal fu più veloce: le fu addosso e la travolse, franarono di nuovo sul pavimento, la sovrastò. Verna non riuscì a fermare il pugno che passò oltre la sua guardia e la prese in volto, bloccò il secondo, dovette usare tutta la forza per togliersela di dosso con un colpo di reni e un gemito di rabbia.
Fece per rialzarsi, si sentì abbrancare da dietro, una morsa tra collo e petto, seguì l’istinto e vibrò una sferzata col gomito, netta: il verso di dolore di Migdal le colmò i sensi, la morsa recedette. Lottò per rialzarsi, si voltò a fronteggiarla: lei aveva una mano premuta sul naso sanguinante e lo sguardo pazzo di collera.
Nel tumulto dei sensi realizzò in ritardo che la porta della camerata era stata aperta, sentì tardi i passi frenetici sul pavimento; Aleutyna e altre tre della squadra irruppero allarmate, si misero in mezzo, spostarono lei al muro e Migdal contro la parete delle brande.
“Che state facendo?!” A malapena sentì la sua accorata domanda.
Verna ansimava, il respiro incendiato da rabbia e adrenalina, occhi inchiodati sulla rivale.
“Che state facendo, per i Santi?!”
Lo sguardo allucinato di Aleutyna a un niente dal suo: Verna le concesse solo un’occhiata muta prima di appoggiarsi schiena alla parete, riprendere il controllo. C’erano schizzi di sangue sul pavimento e sul seno della sua corazza.
“Stai bene?” le chiese la compagna scuotendola.
“Sto bene.”
“Stai sanguinando.”
Realizzò la sensazione d’umido alla bocca e al mento, sfregò il dorso del guanto, lo scoprì madido di rosso.
“Mi spieghi per favore?!” Aleutyna era fuori di sé.
“Mi ha aggredita,” Migdal ringhiava dalla parete opposta, la mano sempre premuta al naso, “stavo pregando, non ha neanche avuto rispetto di questo!”
“A fare la vittima sei patetica,” scandì lei a denti serrati.
Migdal ebbe un moto come ad andarle incontro, due delle altre la trattennero, “Sei debole, e io ti disprezzo,” scandì con voce rotta, “ti disprezzo, hai sentito?!”
Altre due consorelle rientrarono in camerata, attonite, il sangue sul pavimento.
“Verna, ehi!” Aleutyna la trattenne in quell’impulso che ebbe di andare di nuovo addosso all’avversaria, la rimise schiena al muro. “Parlami, Sorella, che stai facendo?!”
“Chiedilo alla delatrice!”
“Lo sto chiedendo a te!”
“Molle e sentimentale!” Migdal le inveì contro, trattenuta. Verna si protese a sputarle un filo di sangue dal labbro spaccato, Aleutyna la rimise al muro.
“Basta, per il Vangelo! Accompagnatela all’infermeria,” si rivolse alle compagne che trattenevano Migdal, “tu invece resti qui con me, Sorella Superiora, finché la Guaritrice non avrà terminato con lei.”
Aveva uno sguardo severo e ferito che Verna non si sentì di contraddire.
Si abbandonò, sfatta e sanguinante, col capo contro la parete.
Guardò Migdal sfilare via assieme a due delle altre, la loro ultima occhiata reciproca fu di puro astio.
Di amarezza.
 
***
 
“Certo che dovrò fare rapporto alla Badessa,” sorrise nel suo modo vitale, quasi inappropriato, Sorella Lavinia, la nuova Guaritrice del convento. “Con il trambusto che avete creato, in ogni caso, è fin inutile: penso che tutte sappiano ormai della vostra lite.”
Verna espirò scornata.
Seduta su una delle sedie in buon acciaio dell’infermeria, priva della parte superiore dell’armatura, fissava il vuoto luminoso della stanza con un panno foderato di gel termico tenuto pressato al lato della bocca.
“Attenta alla sutura,” le ricordò Lavinia con lo stesso sorriso, mentre terminava di pulire gli strumenti.
“Ti spiace,” mormorò Verna, assente, “se resto seduta qui per un po’?”
“Puoi stare finché credi.” Ruscellare dell’acqua corrente nel lavabo insanguinato.
“Grazie.”
“Speranze che tu mi dica il motivo della lite?”
“Nessuna. Migdal ti avrà già detto tutto.”
“Solo frasi incoerenti. Era fuori di sé.”
“Bene.”
Gli occhi chiari e ampi di Sorella Lavinia ebbero un guizzo cupo. “Dice che l’hai aggredita durante la preghiera.”
Silenzio vacuo.
“Questo è molto grave, Sorella.”
“Si è messa apposta a pregare. Sapeva che l’avrei cercata.”
“Non è una giustificazione.”
“Non è a te che devo renderne conto.”
Sospiro plateale. “Non mi sto sostituendo alla Badessa o alla Precettrice, Sorella Holden. È che mi sanguina il cuore a dover ricucire ferite che le mie Sorelle si causano tra loro.”
“E tu suturalo, il cuore. Ti renderà più forte.”
Lavinia scosse il capo, amareggiata. Si avviò fuori dalla stanza a passo lento, pulendosi i guanti dal sangue.
Passò un minuto buono di nulla, di occhi fissi al vuoto, da sola, seduta, poi Verna sentì la consorella Guaritrice rientrare. Non la guardò neppure quando la intuì ferma sulla soglia, in attesa di qualsiasi cosa volesse sentirsi dire e che lei non avrebbe detto.
Solo quando i secondi di silenzio opprimente divennero troppi, si scomodò ad alzare lo sguardo.
Verna stranì nel trovarsi davanti la figura di Alexis Brenna, piantata sulla porta come certe statue sui viali ornamentali. Aveva in viso un’espressione lieve, quasi compassionevole, mentre la osservava seduta lì, scomposta, con l’armatura solo dalla cintola in giù, indosso una maglietta nera aderente, un panno medico premuto al labbro suturato, i capelli arancio in disordine e l’espressione assente.
“Cosa fai qui?” mormorò Verna senza riuscire a celare la perplessità.
Alexis scosse il capo, poi le sfuggì un breve riso: ravviò i capelli. “Non ti trovo bene.”
“Divertente.”
Lei passeggiò brevemente nella stanza, le si avvicinò e accosciò vicino, guardandola quasi dalla stessa altezza. Incupì. “Volevo essere sicura che fosse tutto a posto.”
“Non è tutto a posto.”
“Lo vedo.”
Verna smise di guardarla, lasciandosi distrarre dal nulla, dal dolore al labbro spaccato. Il pensiero di conseguenze disciplinari le anestetizzava i sensi e la mente. Ebbe un lieve moto di fastidio quando le dita guantate di lei dilatarono il collo della maglietta, il suo sguardo le indagò la pelle nuda della spalla e del petto.
“Aspetta.”
Osservò Alexis alzarsi, raccogliere un panno, inumidirlo, tornare da lei. Le si chinò accanto, incontrò la dura barriera dei suoi occhi. Ne sorrise sottilmente divertita. “Voglio solo pulirti, non vedere come sei fatta.”
Attese un assenso che fu solo un battito di palpebre, poi prese a tergerle lo scolo di sangue asciutto che, lungo il collo, le si perdeva dentro la maglietta.
“Me lo avevano detto, comunque.”
Verna continuò a fissare il vuoto. “Cosa?”
“Che sei irascibile e aggressiva.”
Le sfuggì un verso di stizza.
Alexis le allargò di nuovo il collo della maglietta per pulirla sulla spalla e la clavicola. Lei continuava a guardare il nulla con espressione torva.
Quando ebbe finito, gettò il panno e le tornò davanti. “Posso lasciarti senza che succeda altro, per stanotte?”
“Puoi lasciarmi, sì.”
Alexis annuì, si avviò, poi esitò un lungo attimo sulla porta, ciondolò un piede, la osservò a lungo. “Non dovrei farlo, ma…”
Attese che lei alzasse lo sguardo, cupo, nel suo. Si era fatta più seria nell’espressione.
“...raggiungimi tra un’ora nella mia camerata, la O-14.”
Verna vagò lo sguardo, perplessa. “Per cosa?”
“Per una cosa. Se non verrai, capirò.”
Si congedò con un cenno e svanì oltre la porta.
 
***
 
La camerata O-14 era quasi al fondo del corridoio della zona notturna. Verna non incontrò quasi nessuna sul percorso, solo alcune consorelle di guardia che le rivolsero occhiate mute e nulla più.
Si sentiva stanca, spossata, molto più del dovuto per una breve colluttazione; non aveva reindossato la corazza dell’armatura, sporca di sangue: i segni, dentro, erano molto più evidenti di quelli esteriori.
Bussò all’ampia porta, del tutto uguale a quelle successive, dove la targa ottonata recava O-14; si guardò intorno, vagamente tesa, che non ci fosse nessuna. L’ora tarda.
La porta si dischiuse e aprì con un ronzio silenzioso. Entrò sapendo di essere attesa; varcò l’anticamera vuota e passò alla camerata vera e propria, lo stanzone lungo e ampio coi dieci letti, cinque per parete, e gli altrettanti guardaroba, la luce fioca delle candele: lei era lì.
Alexis Brenna si alzò dal letto sul quale era seduta, le venne incontro, senza fretta.
“Dov’è la tua unità?” Verna accennò agli altri nove giacigli vuoti.
“Di turno all’atrio, stanotte. Ho chiesto loro di coprirmi per un paio d’ore.” C’era qualcosa di insolito nella sua espressione, a tratti equivoca. “Sembri tesa, Sorella Superiora.”
Verna divideva le occhiate tra lei e la camerata vuota. “Perché sono qui?”
“Ho riflettuto a lungo sulle tue parole in questi giorni.”
“Avresti dovuto dimenticarle, invece.”
Alexis scosse la testa. “Quel che hai detto, il modo in cui l’hai detto… Sembra che tu non conosca il significato della parola affetto.”
Brivido.
Verna Holden irrigidì, a disagio.
“Io ho avuto la fortuna di far parte di una famiglia,” proseguì lei, “prima che la Madre mi scegliesse per prendere i voti. Conosco questa parola, l’ho vissuta. La Madre stessa ci ha insegnato che l’affetto è la base dei legami che uniscono il convento: siamo state le sue bambine, ma ora dobbiamo crescere.”
“Non avrei dovuto dirti quel che ho detto. Ci saranno conseguenze per quello che ho fatto stasera a Migdal, non voglio che ce ne siano anche per te.”
“Hai detto quello che sentivi di dover dire. E ho deciso, io, di contraccambiare in un modo che è in uso tra la mia gente.”
Verna la guardò stranita, confusa, mentre lei portava le mani alle cinghie della corazza, le slacciava con gesti calmi, posati. “Che stai facendo?”
Alexis tolse l’armatura pettorale e quella dorsale; lasciò a terra gli avambracciali, i guanti rinforzati.
“Cosa stai facendo?” Glielo chiese in un soffio, lei non rispose. Il viso di Alexis Brenna, affilato, delicato, baluginava dei riflessi delle candele.
Aprì la cerniera della tuta protettiva, nera, al di sotto, la slargò oltre le spalle: aveva la pelle di un bel colore ambrato e il seno, tornito, incastonato nel reggipetto grigio istituzionale.
Il suo sguardo era diventato più forte, più adulto, una sfida in quello traslucido di lei.
“Toglila,” accennò alla sua maglietta, “o alzala, se ti vergogni.”
Tensione, inquietudine, un senso di caldo e freddo mischiati assieme. “Vergognarmi?”
“Sembri una ragazzina.”
Verna guardava, fissava l’espressione di sottile sfida negli occhi nocciola di lei. “Che cos’è tutto questo?”
“Una mia libera scelta.”
Verna prese un respiro più lungo, esitò un istante; occorsero pochi altri secondi per mandare via le incertezze: abbrancò la maglietta e se la tolse, sprezzante.
Alexis le si mosse accanto, sembrò guardare solo per un attimo il suo corpo fibroso, dagli addominali scolpiti, il seno tondo, non ampio, custodito in un identico reggipetto istituzionale. Le prese il polso sinistro, la condusse con sé, verso uno dei letti, il proprio. La fece sedere e sedette al suo fianco.
Verna la fissava con le labbra dischiuse, in attesa.
Il viso di Alexis Brenna, accanto al proprio, assomigliava sempre più a certe raffigurazioni che aveva visto nella cattedrale di Omalia, sante di epoche passate: gli occhi stretti, il naso a punta, le fossette sotto le gote, i chiaroscuri della luce fioca sui bei tratti. I capelli che le cadevano sulla fronte e ai lati.
Bella, nel senso più profondo del termine.
“Sei mancina?” le chiese lei.
“Sono destra.”
Alexis le prese la mano sinistra, un gesto delicato, se la depose, di dorso, sulla coscia. Occhi negli occhi. “Ti offro di essere mia sorella, nella carne e nel sangue, oltre che nello spirito. È un rito in uso tra la mia gente.”
“Accetto.”
Lei le strinse di più la mano, dita a dita, uno sguardo accorato. “Devi volerlo davvero, perché è un legame indissolubile.”
Verna annuì appena, il battito del cuore ora più forte. “Sì.”
Mezzo sorriso. Alexis le tenne la mano col dorso poggiato sul proprio gambale d’armatura, tolse dalla cintola il coltello corto. “È solo un taglio.”
“Fa’ ciò che devi.”
Poggiò con delicatezza la lama sul palmo di lei. “Come una sorella, con la sinistra mi sorreggerai, quando cadrò, mentre la destra solleva l’arma.” Le incise la pelle, un breve taglio, il rosso vivo del sangue.
“E lo stesso farò io, con te.”
Portò la lama al palmo della propria sinistra, lo incise per breve; poi allungò la mano, la impose sul petto di Verna, lasciò che un paio di gocce scivolassero sulla sua pelle.
“Anche tu.”
Verna Holden esitò un lungo istante prima di sollevare la mano, poggiarla sul petto di lei, davanti al suo sguardo attento: lasciò che un rivolo rosso, sottile, le scorresse sulla carne dal bel colore, si perdesse, dopo un paio di lente curve, nel mezzo dei suoi seni.
Alexis le guidò la stessa mano a sollevarsi a mezz’aria, vi poggiò la propria, palmo a palmo. Prese a sfregarla con lenta cura, lasciando che il loro sangue si mischiasse; intrecciò le dita curate con le sue, una stretta energica.
“Adesso,” il suo tono si era fatto più leggero, quasi un sussurro, “sei mia sorella di sangue.”
Tensione, attesa: tutto sbiadì e svanì nel silenzio della camerata vuota, tra i letti rifatti, le candele, i pezzi della sua corazza sul pavimento.
“Mi proteggerai, perché questo era il tuo desiderio, e così io proteggerò te. Non è mai molto il tempo in vita concesso a chi sceglie la via della Martire, e ancor meno i legami permessi, ma fino a che non sarà esaurito, per noi avrà un significato diverso.” Iridi lucide, profonde. “Questo è affetto, Sorella.”
Verna trattenne un singulto, qualcosa che arrivava dal profondo, qualcosa di nuovo, bizzarro, spaventoso. Qualcosa di caldo attraverso le fibre del corpo e altre fibre ancora, sconosciute, che scopriva per la prima volta.
Strinse di più la mano di Alexis, un impeto di foga. “E quando arriverà il Martirio…”
“...lo riceveremo insieme.”
“Insieme.”
Il silenzio, la luce tiepida, il vuoto.
Tutto il resto aveva perduto di senso: Migdal, conseguenze, astio, collera, violenza. Errori.
Istinto.
Alexis sorrise e i suoi tratti si sciolsero in un’espressione delicata, la stessa che aveva visto quella sera, prima che iniziasse a danzare per tutte: la rotondità delle gote, gli zigomi pronunciati, gli occhi più stretti, lo scavarsi delle fossette. “Non ho mai avuto una sorella maggiore.”
“Adesso ce l’hai.”
Lei annuì, poi volse il capo, offrì la guancia: Verna esitò, ma fu solo un istante; vi depose sopra un bacio, che lei contraccambiò.
“Adesso ce l’hai.”
Con la mano libera le cinse i capelli dietro la nuca, la mosse a sé, fronte a fronte, prima di baciarla con forza sulla guancia, di nuovo, guardarla sorridere, ancora, il candore dei denti.
Era tutto nuovo.
La noia e l’apatia di quei giorni scomparse, annegate.
Un’oscurità di possibili futuri, sofferenze, privazioni, avvolse Verna Holden e il suo restare aggrappata a ciò di cui aveva avuto bisogno, senza saperlo, fino a quel momento.
Una ragione.
Un motivo.
Qualcosa che andasse oltre la devozione al Credo, al convento, alla Madre.
Un legame.
Qualcosa.
L’attesa dei giorni a venire.
 
La noia.


++++++++


[END]
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