Qualche sera prima avevo scritto una lettera.
Una pagina soltanto.
Breve, come può essere il riassunto doloroso di una vita o solo per gli errori di una vita.
Non riuscivo a capire se fossero veri errori o visti così con gli occhi di altri.
Solo parole.
Copiate dentro una mail, senza una busta che le riparasse da occhi indiscreti.
Senza una busta che potesse perdersi.
Un clic per inviare.
Definitivamente.
Dopo ho visto qualche errore, ma non mi importava.
Se prima l’avessi riletta avrei avuto, dopo, il coraggio di premere invio?
La risposta: un indirizzo, una data, un’ora.
Il campanello, in quella data e a quell’ora, dovevo suonarlo.
Non potevo tornare indietro.
Oppure sì: appuntamenti mancati ce ne sono sempre.
Campanello.
Attesa.
Il portone si apre con un ronzio.
Tre piani, ma non prendo l’ascensore: salirebbe troppo in fretta.
Un corridoio che curva e poi curva ancora.
Una porta che spero assurdamente non si apra: è già socchiusa.
“Entri Susanna, si accomodi.”
Una mascherina e un paio di occhiali per una voce bassa, pacata.
Una camicia a quadretti, un gilè e un quaderno dalla copertina grigia.
Una stanza nuova.
Silenzio che accoglie piccoli rumori indistinti.
Una poltrona, un tavolino, una lampada.
Calma, tranquillità.
Un’altra poltrona.
Un tappeto.
“Oggi vediamo di conoscerci. In questa stanza lei è al sicuro: nessun altro ci ascolterà.”
Ansia.
Le prime parole, faticose.
Tante sono le altre che premono.
Appeso al muro, un orologio.
Lo scorrere dei minuti è implacabile.
Vorrei fermare le lancette.
Non è come in quel racconto che mi fa compagnia ogni notte, orfano di un finale che non si lascia scrivere.
Nessuna panchina al sole.
Nessuna villa antica disabitata in cui rifugiarmi.
Nessun elegante personaggio cui affidare solo quello che sono disposta a dire.
Nessun compiacente personaggio che farà quello che io vorrò, per me.
Nessuna “poltrona disabitata”.
Nessuna lei così diversa e così uguale a me.
Solo incognite.
Una strada in salita sì, ripida e insidiosa, con tanti ciottoli appuntiti.
Ho odiato quell’orologio sulla parete di fronte a me, per i minuti che scorrevano troppo veloci.
L’ho amato per avermi regalato il giusto tempo alle mie riflessioni.
Ho resistito all’impulso di togliere un paio di foglie secche alla pianta sulla scrivania.
Ho pianto: davanti a uno sconosciuto che pareva conoscermi così bene.
O forse sono sempre stata un libro aperto per tutti e non per me.
Ho lasciato su quel tappeto abiti stretti, scomodi, che da anni indossavo, l’uno sopra l’altro.
Ho indossato bluse leggere e collane colorate che abitavano da tempo cassetti bui.
Ultima modifica di Susanna il Ven Gen 13, 2023 9:49 am - modificato 2 volte.