Commento a Il dolce sapore della vendetta
[Il paragrafo iniziale è l'incipit del romanzo Factotum di Charles Bukowski]
New Orleans
[Il paragrafo iniziale è l'incipit del romanzo Factotum di Charles Bukowski]
New Orleans
Arrivai a New Orleans sotto la pioggia alle cinque del mattino. Mi fermai alla stazione degli autobus per un po’ ma la gente mi deprimeva tanto che presi la valigia, uscii nella pioggia e cominciai a camminare. Non sapevo dove fossero le pensioni, dove fosse il quartiere povero.
Ma non importava. Mille volte meglio la pioggia del rassegnato torpore che ristagnava nel salone mischiato a umidità e segatura e che si specchiava nel grigiore torvo dei miei nudi pensieri.
Attraversai il parcheggio nel chiarore lattiginoso precedente l’alba, cercando di ripararmi alla meglio dalle gocce che cadevano fitte con la valigia alta sopra la testa. I lampioni accesi si riflettevano sull’asfalto bagnato e sull’erba fradicia del piccolo parco di fronte al piazzale dei Greyhound.
Non faceva freddo, ma dopo appena pochi passi l’umido mi si stava già infilando fin nelle ossa. Mi pareva di assorbirlo, di risucchiarlo dalle scarpe ormai zuppe e su fino alle spalle, dove si incontrava con quello che filtrava attraverso la stoffa leggera della giacca e con l’acqua che, le braccia alzate, mi si infilava direttamente nelle maniche. La maglia e i pantaloni ormai erano da strizzare. Stagione buona per prendermi un malanno, non certo per lavar via almeno uno strato leggero del catrame che, dentro di me, al riparo dalla pioggia, continuava a opprimermi nonostante tutti i chilometri fatti.
Arrivato alla fine del vialetto, diverse strade mi si aprivano davanti. Scelsi di andare a destra perché, poco distante, avevo scorto i piloni di una sopraelevata: non sapevo dove andare, ma almeno ci sarei arrivato stando un po’ più all’asciutto. Una volta al riparo, cercai di scrollarmi di dosso parte di tutta quell’acqua e ripresi a camminare sul marciapiede deserto.
I miei passi risuonavano sotto la volta dell’autostrada accompagnati dal rimbombo di qualche rara auto. Qualcuno, nonostante l’ora, era già in viaggio per chissà dove. Oppure, come me, vagava senza meta già dalla sera precedente. Mi pareva di vederlo. Come in un film, me lo raffiguravo con la faccia trasognata di Jeff Goldblum che guida nel buio verso l’aeroporto, ancora ignaro di tutto ciò che la notte avrà in serbo per lui.
La stanchezza però cominciava a farsi sentire davvero e cancellò in un attimo l’eco positiva di Tutto in una notte. Nonostante il breve riposo alla stazione degli autobus, i miei passi si facevano sempre più strascicati, le mie braccia sempre più legnose nello sforzo di reggere la valigia e mi sembrava che il mio corpo stesso si stesse rattrappendo sotto il peso dei miei vestiti bagnati. Avevo cercato di dormire in po’ in autobus, ma il sedile non era dei più comodi e il mio vicino di posto, una specie di armadio barbuto vestito da mormone, aveva russato per tutto il tempo.
La mia speranza di un posto caldo dove sedermi, riposare e rifocillarmi stava per soccombere sotto i colpi di saracinesche ancora chiuse e vetrine buie, uniche risposte al mio scrutare attraverso la pioggia che continuava a cadere. Ero ormai deciso a sedermi sulla valigia posata a terra, appoggiare la schiena a una colonna e chiudere gli occhi quando finalmente intravidi lo sfarfallio di un’insegna rossa che occhieggiava da una stradina laterale.
Così attraversai la strada e mi affrettai verso il vicolo, uno stretto passaggio fra le pareti di due palazzi così vicini che neppure la pioggia sembrava riuscire a passarci in mezzo. Segmenti di tubi al neon di un bel rosso vivace disegnavano la scritta MARDI GRAS la cui S finale, nella forma, richiamava una specie di saetta (tanto da farmi dubitare che l’intermittenza casuale dalla quale era stato catturato il mio sguardo non fosse dovuta al neon esaurito ma dall’idea di imitare il lampeggiare di un fulmine).
La porta era chiusa e i pochi pannelli di vetro, completamente appannati, non mi permettevano di vedere l’interno. Ma stanco e bagnato e affamato com’ero non potevo certo stare a fare il difficile. Spinsi la maniglia ed entrai.
Luci basse e soffuse e un’atmosfera calda, profumata di caffè e di vaniglia e cannella mi dettero il benvenuto. La sala si perdeva nell’oscurità, in una prospettiva attenta di tavoli e sedie ancora vuoti disposti a intervalli regolari, mentre alla mia sinistra una vetrina ben illuminata metteva in mostra invitanti porzioni di torte alla crema e coloratissimi King Cake.
Dietro al bancone di legno scuro, illuminato a tratti da una serie di lampade basse con il paralume verde, il barman alzò appena gli occhi, ma con un attimo di ritardo rispetto al mio ingresso, forse per lo scatto della porta che si richiudeva alle mie spalle più che dall’arrivo di un cliente. Continuando a lucidare un bicchiere già immacolato accompagnò i miei spostamenti verso un tavolo con una specie di borbottio. Solo quando mi sedetti rivolto verso il banco ne compresi il motivo: a ogni passo avevo lasciato sul pavimento delle grosse pozze bagnate che l’uomo si premurò subito di asciugare trascinando con un piede un grande straccio grigio proprio mentre veniva verso di me per prendere l’ordinazione.
Poi mi si parò davanti in tutta la sua altezza: un metro e novanta abbondante in jeans e camicia a scacchi con le maniche arrotolate e, lassù in alto, una testa completamente calva e quasi appuntita alla sommità. Le mani sui fianchi e un grembiule bianco che certamente aveva visto tempi migliori appeso al collo, mi squadrava con occhi di brace incorniciati da una ragnatela di rughe. A completare il quadro un naso importante solcato da venuzze rosse e un barbone scuro, striato a tratti da qualche pelo grigio. La barba, che sembrava agganciata alle grosse orecchie, gli arrivava fin quasi sul petto, nascondendo del tutto la bocca – muta fino a quel momento, salvo il gorgoglio che avevo inteso poco dopo il mio ingresso.
Sfoderai il mio inglese migliore e ordinai una doppia porzione di King Cake e caffè abbondante. Manco a dirlo, l’omone mi rispose in francese ma mi parve comunque di capire che approvava la mia scelta e che mi avrebbe servito subito. E ritornò verso il banco ma solo dopo essersi soffermato ad asciugare anche le vistose tracce d’acqua che avevo lasciato davanti alla porta. Cosa che mi fece tornare in mente che anche a me non avrebbe fatto male una buona asciugatura.
Presi la valigia e infilai la porta del bagno che si trovava poco dietro il mio tavolo. Alla luce di una lampadina nuda che pendeva dal soffitto mi si presentò una stanzetta quadrata con lavandino, specchio e gabinetto, ma per mia fortuna dotata anche di un grosso apparecchio asciugamani ad aria calda.
Mi tolsi di dosso gli abiti bagnati e mi ficcai sotto il bocchettone dal getto tonificante contorcendomi per farlo arrivare più o meno dappertutto e pigiando e ripigiando il pulsante di accensione, finché non ebbi almeno parzialmente sconfitto il senso di bagnato che sembrava essersi insinuato ben più sotto che qualche strato di stoffa. Poi fu la volta delle scarpe, che tenni sotto l’apparecchio stando in ginocchio sul coperchio del WC.
Una rientranza della parete accanto all’ingresso era stata utilizzata come piccolo deposito di scope e articoli per la pulizia. Lì, fra stracci e flaconi di plastica, trovai un rotolo di sacchetti neri per l’immondizia. Ne strappai uno, vi appallottolai dentro i vestiti bagnati e infilai tutto in valigia. Dal mio scarno bagaglio tirai fuori dei calzini asciutti, un paio di jeans e una vecchia felpa rossa, li indossai e feci ritorno nella sala.
Al tavolo, oltre il sipario zuppo d’acqua della mia giacca appesa alla spalliera della sedia, già c’erano ad aspettarmi una tazza di caffè fumante e un piatto con due invitanti porzioni di torta. Non dovevo fare altro che sedermi e divorare il tutto.
Che bello, fosse tutto così semplice, mi domandavo fra una forchettata di dolce e un sorso di caffè: forse nostalgia di un istinto atavico, quasi animale, per cui se piove semplicemente ti trovi un riparo; se sei bagnato non fai altro che rintanarti al caldo; se hai fame cerchi il modo migliore per sfamarti; se sei stanco o hai sonno…
Perso in queste banali considerazioni e nelle modulazioni di gusto del King Cake non mi ero accorto che qualcosa nel bar era cambiato e solo un rapido movimento colto di sfuggita alla mia destra mi fece ritornare in fretta nel qui e ora; ripiombare nella mia situazione di straniero in terra straniera, di cercatore solitario o, forse, di fuggiasco da qualcosa che non sapevo bene neppure io cosa fosse se non un profondo e costante senso di disagio e spaesamento, di mancanza di radici nonché della minima voglia di averne.
Radici invece ne aveva da vendere la figura seduta quasi in fondo alla sala e confusa nella semi-oscurità. Mi voltai lentamente, cercando di non farmi notare. Una figura massiccia illuminata debolmente dal luccichio verde dell’insegna dell’uscita di sicurezza, un nero, abbigliato in modo a dir poco eccentrico. Ma la stranezza era solo nei miei occhi, nel mio punto di vista forestiero, perché – mi resi conto – non stonava affatto con il luogo né con la città dove mi trovavo.
Un cappello a cilindro nero posato sul tavolo, una giacca scura a redingote aperta sul davanti e sotto la quale si indovinava un gilet rosso e nessuna camicia, un paio di pantaloni a strisce bianche e nere, stivaletti ai piedi e, appoggiato alla sedia, un vistoso bastone da passeggio con il pomello a forma di teschio: una raffigurazione così perfetta di Baron Samedi da sembrare prelevata di peso da qualcuno dei miei vecchi fumetti. E della sua presenza in una città come New Orleans e in un bar chiamato mardi gras non c’era certo da stupirsi più di tanto.
Con un mezzo sorriso sulle labbra mi convinsi che di certo era un figurante, una maschera che in quel momento era assorta in un qualche tipo di solitario: estraeva una carta dal mazzo e l’appoggiava su uno dei mucchietti già esistenti con movimenti veloci e precisi, tanto che pareva non guardare neppure il loro valore o colore. Poi, sentendosi forse osservato, si voltò di scatto verso di me lasciando a mezz’aria la carta che teneva nella mano destra. E l’atmosfera da carnevale che avevo cercato di evocare tra fumetti e maschere si schiantò in un attimo contro quegli occhi.
Rimase a fissarmi per qualche secondo appena, con uno sguardo sinistro e minaccioso. Immaginai che con quella singola occhiata sarebbe stato capace di risucchiarmi ogni minima essenza per lasciare dentro di me spessi strati di gelo, quel gelo che credevo di aver sciolto, almeno in parte, con la mia breve incursione sotto il getto caldo dell’asciugamani. Poi, flettendo appena le dita e il polso, scagliò la carta verso di me. Io, quasi ipnotizzato, con il respiro sospeso e gocce di sudore che cominciavano a stillarmi sulla fronte, non riuscivo a distogliere gli occhi dal suo volo rotante che la fece passare a pochi centimetri dal mio naso, fino all’atterraggio morbido sulla tovaglia del tavolo accanto. Era il due di picche.
Quando finalmente riportai l’attenzione verso di lui vidi che si era in parte voltato e sporto in avanti. Teneva l’indice puntato contro il mio petto e, nonostante la distanza che ci separava, mi sembrava di sentirne l’unghia dura e affilata graffiarmi la carne attraverso la stoffa della felpa. Poi, fermo in quella posizione intimidatoria, le sue labbra cominciarono a biascicare parole: una sorta di cantilena, prima quasi impercettibile e via via più forte, fino a un grido soffocato ma capace di lacerarmi le orecchie. Ripeteva “Arrête ta chasse! Arrête ta chasse! Arrête ta chasse!”.
Lasciai cadere il cucchiaino e mi alzai di scatto, pronto alla fuga, pronto a correre verso il bancone del bar al minimo segno di minaccia che quel tipo avesse provato a mettere in atto.
Il barman.
Quell’omone calvo mi sembrava rappresentare l’unica difesa possibile contro un attacco. Ma quando mi voltai verso di lui, vidi che mi stava osservando con aria interrogativa. Si era distratto dalla lettura del giornale che aveva disteso di fronte a sé solo a causa del rumore dei miei gesti scomposti. E un barlume di logica, di pensiero razionale, cominciò lentamente a rifarsi strada nel caos esagitato della mia mente in preda alla paura.
Tante domande, alle quali una sola risposta sembrava possibile. Perché il gestore mi guardava in quel modo? Perché non vedevo impronte bagnate sul pavimento? E com’era possibile che abiti e cappello di quel mezzo gigante nero, appena entrato, fossero perfettamente asciutti? Fuori pioveva ancora. Anzi, dal rumore che riuscivo a sentire sembrava che stesse cadendo ancora più fitta. E infatti, quando finalmente riuscii a guardare di nuovo di lato, i miei occhi incontrarono soltanto i soliti tavoli vuoti che si perdevano verso il fondo scuro della sala.
Ricaddi esausto sulla sedia, con un tonfo sordo accompagnato dall’inequivocabile movimento laterale della testa del barman, che certificava così la mia scarsa sanità mentale. Afferrai la tazza e bevvi un paio di sorsi di caffè, nel tentativo di stabilizzare il ritmo impazzito di cuore e respiro e di togliermi dagli occhi quella figura minacciosa che ancora stentavo a considerare come un’allucinazione.
Causata da che cosa, poi? Va bene la stanchezza del viaggio; va bene la mancanza di sonno; va bene l’atmosfera evocativa che potevo aver respirato in questa città… Avrei potuto metterne in fila un centinaio di possibili motivi, ma nessuno abbastanza valido da giustificare un’esperienza così intensa e precisa, così dettagliata fin nei minimi particolari come la visione che avevo appena provato. E per quanto rovistassi nei miei ricordi, a parte qualche raro sogno a occhi aperti, qualche pur fervida fantasticheria, non riuscivo proprio a rammentare che mi fosse già successo qualcosa di simile.
Intanto avevo vuotato la tazza e nel piatto restavano poche briciole di dolce. I miei battiti si erano normalizzati e riuscivo a respirare senza sembrare un maratoneta dilettante troppo lontano dal traguardo.
Era tempo di andare.
Mi alzai, questa volta ben attento a non fare rumore più del necessario; infilai la giacca, presi la valigia e mi diressi al banco per pagare. Lasciai un paio di banconote sul giornale, scegliendo con cura la pagina che il barman mi sembrava non stesse leggendo e lui, inarcato appena un sopracciglio, le prese e se le cacciò in tasca, facendole sparire sotto il grembiule con un movimento da prestigiatore della mano e dando loro solo un’occhiata distratta.
Sbrigata la formalità presi la direzione dell’uscita. Passando accanto all’ultimo tavolo mi fermai, sorpreso dalla forte sensazione di essere osservato: sulla tovaglia immacolata i semi neri di un due di picche parevano pupille sgranate intente a squadrarmi, a spiare ogni mio movimento. Distogliere lo sguardo e muovere i tre passi che mi separavano dalla porta fu faticoso, quasi doloroso.
Ma finalmente ero fuori. Uscii di corsa da quel vicolo stretto e scuro, ricacciandomi sotto le perfide gocce di pioggia battente come fossero un abbraccio, il benvenuto caldo e accogliente del getto morbido della doccia di casa.