Sai? In principio non ci avevo nemmeno fatto caso. Ho continuato a fare la mia vita di sempre: che poi era studio all’università, qualche serata con gli amici, impegno politico e cameriera nel fine settimana.
È stato così, per caso, che mi sono accorta del ritardo. Io che andavo alla farmacia della Coop solo per acquistare il ketoprofene, rigorosamente generico; io che parlavo alle assemblee degli studenti, per incitare all’occupazione e autogestione dell’università; mi sono ritrovata a dover affrontare il panico di parlare davanti a una sola persona per acquistare il test di gravidanza! E sai cos’ho fatto? Ho preso il bus numero 5 e sono andata alla farmacia fuori porta, quella nel Bronx delle case popolari; perché le statistiche, quelle che amo tanto leggere, dicono che là c’è la più alta frequenza di gravidanze precoci, quindi nella mia fantasia malata ho pensato che fosse rifornita dei migliori test sul mercato, tra quelli a buon prezzo. Solo in seguito mi è venuto in mente che forse le ragazze del Bronx, colte dal mio stesso senso di panico, prendessero anche loro il bus numero 5 per venire nelle farmacie del centro; comunque sia, sono stata obbligata a scegliere tra i test delle multinazionali più odiose e ci ho pure speso una serata in birreria!
Un mix tra la paura di tornare a casa e il desiderio di soddisfare al più presto la mia curiosità; così sono andata nei bagni del Carrefour, quelli con l’odore pungente che speri sia appena passata la signora della cooperativa a pulire con l’ammoniaca, e ho fatto pipì su un attrezzo di plastica rosa. Me lo sono rigirato tra le mani alcuni minuti, per vedere se riuscivo a mettere ordine nei miei pensieri, perché in quel momento ero in cortocircuito tra le parole “test positivo” e la situazione che per me era invece l’esatto contrario! Poi, dopo averci dormito su una notte – una notte? Diciamo qualche ora scarsa – oltre la nebbia ho visto un’unica soluzione: abortire.
Mi sarei dovuta affezionare a quel bus numero 5. Ho scelto il consultorio del Bronx, sempre per lo stesso motivo malato, perché pensavo di trovarci le persone giuste per affrontare e risolvere al più presto il mio enorme problema. Invece sono stata accolta da una signora di mezza età, le ho detto che ero incinta e come prima cosa mi ha chiesto chi fosse l’assistente sociale che segue la mia famiglia. Uno schiaffo! Papà è un ingegnere, mamma un avvocato, mio fratello sta facendo la specializzazione in medicina e io studio a lettere e filosofia. Che ci facevo lì? Che diritto aveva quella vecchia di predicare, di farmi capire che una ragazza del Bronx incinta aveva problemi molto più grossi dei miei? L’ho amata all’istante. Con i soldi di mamma e papà potevo permettermi una clinica specializzata, ma in quel momento ho deciso che avrei abortito all’ospedale della mutua!
Così l’ostetrica, Mirella, mi ha prenotato la prima visita ginecologica. Ancora una volta il bus numero 5, con la sua varia umanità fatta di tante donne e pochi uomini che inconsapevolmente mi hanno accompagnato al distaccamento ospedaliero. Al terzo piano il medico mi ha infilato una fastidiosissima appendice di plastica dentro la pancia e mi ha confermato che ero incinta. Mi ha pure indicato una macchia bianca sullo schermo a forma di fagiolo, verso la quale nutrivo l’unico istinto di liberarmene il prima possibile. Desideravo che anche quella sonda uscisse presto dal mio corpo, ma il medico – mi ha spiegato di non essere un obiettore – si dilungava a rigirarmela dentro e a illustrarmi in che modo avrebbe operato per interrompere la mia gravidanza. Io non capivo niente e dicevo di sì a tutto, sperando che la tortura terminasse al più presto.
Subito dopo sono andata al consultorio da Mirella, a piedi, con la fastidiosa necessità irrisolta di farmi un bidè. In sala d’attesa insieme a me c’era una ragazzina con le occhiaie nere da zombie e una croce di ferro nell’incavo del seno. Mi ha salutato chiamandomi sorella; mi ha raccontato che la sua vita era scuola, casa, chiesa ed era rimasta incinta lo stesso. Il suo ex era finito in carcere e così aveva deciso di partorire ugualmente ma senza riconoscere il bambino, per darlo in adozione. La prospettiva ha attraversato in un lampo la mia mente: niente pannolini, niente pappe, niente notti insonni, insomma una meraviglia! Però subito mi sono immaginata col pancione, poi il solo pensiero del parto mi ha causato delle fitte alla pancia. No, assolutamente! Ho cancellato l’idea nuova dalla testa e sono tornata a quella iniziale.
A casa non avevo ancora detto niente a nessuno, perché il corpo è mio, sono maggiorenne e ormai avevo già deciso cosa fare. Mirella mi ha però consigliato di andare dalla psicologa, perché comunque con qualcuno dovevo parlare e così altro appuntamento, altro bus numero 5, altro giro nella periferia da riqualificare, ma che lo era solo come promessa in campagna elettorale. Anch’io promettevo cose in nome del mio partito, però lì nel Bronx non c’ero mai stata prima e chissà se c’erano mai stati i miei compagni, fighetti come me; provavo a identificarmi con le donne che si davano da fare per tirare avanti la famiglia tra quei palazzi alveare senza nemmeno un albero, dove perfino i cortili sono di cemento, ma non ci riuscivo. Esattamente come non riuscivo a vivere la mia gravidanza come qualcosa di positivo. Credo di aver fatto una testa enorme alla psicologa, parlandole soprattutto di queste stupidaggini che mi avevano attraversato la mente durante il tragitto.
Quando sono tornata a casa, mia mamma stava guardando un programma assurdo dal titolo “Non sapevo di essere incinta”. Sul momento mi ha ricordato la gravidanza e volevo scapparmene in camera, poi mi sono incantata a seguire la storia di questa ragazza che, per sua costituzione, aveva mantenuto delle dimensioni più o meno normali fino al parto. Sentivo come qualcosa che mi pizzicasse da dentro la pancia e, mentre pensavo che no, non poteva essere possibile, nello stesso momento mi ha solleticato l’idea che anch’io potessi avere la stessa costituzione!
Tutt’a un tratto ero sicura che avrei partorito la mia creatura, senza che nessuno se ne accorgesse, per darla immediatamente in adozione. Sarebbe rimasto solo da affrontare il dolore del parto, ma per quello la soluzione c’è, me l’aveva spiegata Mirella dopo uno dei tanti spostamenti sul bus numero 5: si chiama analgesia epidurale, che paroloni! L’ostetrica sosteneva pure che fossi mezza matta a sperare che nessuno notasse la mia gravidanza.
Quando l’ho detto alla ragazzina con le occhiaie e la croce di ferro si è messa a ridere anche lei. Poi ha insistito perché andassi a trovarla a casa sua e così l’ho seguita per tre isolati, fino a un casermone col cemento scrostato su tutta la facciata e la scritta IACP in rilievo sopra il portone d’ingresso. La porta di casa sua, al piano terra, era protetta da un cancello in acciaio e quattro giri di chiave; ma oltre la soglia c’era solo un bilocale affollato di mobili scombinati, nel quale vivevano lei, la madre e due sorelle più piccole. Il padre era finito in prigione, con il suo ex; si è scusata perché, ora che erano rimaste in quattro, avevano perso il diritto di abitare nella casa più grande a cui erano state assegnate e mi dovevo accontentare. Sapevo già che, per mangiare, lei e la madre si arrangiavano con dei lavori saltuari. Eppure mi hanno offerto lo stesso qualcosa: un po’ di succo di frutta del discount e una fetta di pane con la marmellata.
Sai, Jonathan? Non ti ho detto il nome della ragazzina con le occhiaie e la croce di ferro, perché si tratta di tua madre e adesso è una mia cara amica. Sono sicura che la tua famiglia naturale ti avrebbe amato, se solo ne avesse avuto le possibilità economiche. Non so nemmeno perché ti ho raccontato tutte queste cose, ora che sei stato separato dalla mamma e siamo rimasti soli io e te, anche se per poco. Magari queste parole ti rimarranno impresse per sempre nel cuore e ti aiuteranno a superare le difficoltà, quando scoprirai di essere stato adottato. Sappi che è merito dell’amore di tua mamma se ho deciso di partorire anch’io. Come vedi, non sono riuscita a nascondere la mia gravidanza, evidentemente non ho la costituzione giusta. Chissà se tu e la mia Jennifer vi incontrerete e vi innamorerete? Come sai, sono mezza matta e un po’ ci conto. Forse un giorno i vostri sguardi si incroceranno, magari proprio sul bus numero 5; lei ti riconoscerà istintivamente per la croce di ferro sul petto mentre tu – boh? – la riconoscerai quando, dalla borsa, tirerà fuori una bustina di ketoprofene generico della Coop.
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