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Sento i loro colpi giù al piano di sotto.
Sono nascosto in soffitta, non mi troveranno facilmente.
La puzza di muffa mi soffoca, ma dopo un po’ il naso si abitua e quel tanfo non pare neanche troppo nauseabondo.
Bum, bum, bum.
Certo che colpiscono proprio forte.
Ogni colpo sferzato fa tremare le pareti e i vetri dei lucernai di questa mansarda che ormai è diventata la mia prigione.
L’affitto da pagare a fine mese e il lavoro che manca.
Da ormai sette – quasi otto – mesi sono a casa.
Ho sempre fatto le cose per bene: un prestigioso liceo scientifico di città, un gran bel centodiecielode in ingegneria informatica.
Avevo dei sogni: mi vedevo in una grande azienda, col camice bianco, a sbocchinare su macchine e circuiti super-tecnologici. Avevo appena compiuto venticinque anni, ero un neo-laureato e ogni santo giorno andavo in giro per ogni provincia della mia regione a consegnare curriculum vitae e fare colloqui di lavoro.
Tutte le volte la solfa era il solito le faremo sapere.
Svaniva intanto la passione, scompariva l’entusiasmo e subentrava quel senso di frustrazione che da quel momento mi avrebbe accompagnato per almeno una ventina d’anni.
Era passato più di un anno, nessun impiego soddisfacente era arrivato.
I miei genitori erano diventati insofferenti e non condividevano più i miei rifiuti agli impieghi che mi venivano proposti.
Tristemente accettai l’ennesima offerta e quell’ingegnere che ero si era ritrovato allo sportello di una filiale dell’Enel a risolvere i problemi di utenti arrabbiati e morosi.
Era pur sempre un posto fisso, stavo seduto a una scrivania, ero pagato anche bene (un milione e due al mese) e l’ambiente non era poi male, dato che il caffè e persino i cornetti alla mattina venivano offerti dall’azienda.
Il mio posto era sempre lo stesso: sportello numero due.
Al numero uno sedeva Gianni e al tre Annalisa. Era sempre carina, mi portava il caffè, mi sorrideva e mi riempiva di attenzioni.
Infatti le chiesi di uscire.
Il primo appuntamento fu imbarazzante: io ero impacciato, sembravo un quattordicenne emozionato.
Lei aveva un abito rosso di percalle che la rendeva una diva del cinema americano degli anni di Hitchcock, una Grace Kelly dai capelli castani.
Io, fasciato nel mio maglione smanicato e camicia, non potevo far altro che contemplarla. Mangiammo in quel ristorantino giapponese, non senza le difficoltà e le prese in giro dovute all’uso delle bacchette. Quella sera la baciai.
Un anno dopo avevamo fatto il grande passo: non il matrimonio – quello sarebbe arrivato dopo altri sei mesi – ma l’accensione di quel mutuo trentennale per l’acquisto di una villetta su più piani con mansarda e cantinetta.
Io e Annalisa ci godevamo giorno dopo giorno la nostra alcova; il mutuo era gravoso, ma con due stipendi si viveva abbastanza tranquillamente.
L’amore c’era, da parte di entrambi, e si faceva pure; e fu così che in un sol colpo arrivarono Giulia e Grazia, due bellissime gemelline. Insomma, eravamo una famigliola felice.
Non sbocchinavo coi circuiti super-tecnologici ma ero felice. Nonostante mi fossi accontentato di quel lavoro, io ero un uomo felice.
La situazione economica ormai non mi preoccupava più: quindici anni di mutuo erano già pagati e l’Enel era un’azienda seria e solida.
Ogni estate si andava in campeggio.
La settimana di ferragosto era quella che preferivamo. Si andava sempre nello stesso villaggio turistico, la routine era sempre la stessa: risveglio muscolare alle nove, poi giochi con le bambine in spiaggia, riposino dopo pranzo, balli di gruppo al pomeriggio e a ballare la sera dopo cena.
Anche le bimbe si divertivano.
Come la nostra, anche altre famiglie venivano ogni anno nello stesso campeggio: c’eravamo fatti degli amici.
Poi la grande crisi di inizio millennio. Tre sportelli, nella nostra piccola cittadina, erano diventati troppi.
L’incubo dei tagli aleggiava sulle nostre teste. Assistemmo alla diminuzione delle scrivanie degli uffici del primo e del secondo piano (il terzo piano, quello più alto, non era stato naturalmente toccato). E anche gli sportelli dedicati al pubblico furono tagliati: da tre diventarono due.
Gianni aveva famiglia, quindi venne licenziata Annalisa che, con non poca disapprovazione e preoccupazione per il mutuo, diventò casalinga a tempo pieno.
Stringemmo la cinghia; il mutuo portava via più di metà del mio unico stipendio, le bambine avevano bisogno di libri, penne, quaderni e diari e la spesa costava.
Ma riuscimmo a tirare avanti.
Annalisa provò a lavorare part time in un call center, ma lo stress era troppo e la paga troppo misera.
Un anno e poi licenziarono anche me. Il capo mi chiamò nel suo ufficio al terzo piano e mi comunicò che anche gli sportelli numero uno e due avrebbero chiuso. Gli utenti che avessero avuto bisogno avrebbero utilizzato il numero verde, che ancora oggi risponde solo per tre ore ogni mattina.
Anche io mi ritrovai a casa, senza lavoro, a quarantatre anni.
Mi sentivo come diciotto anni prima, ero di nuovo un ingegnere alla ricerca di un lavoro. Ma stavolta era ancora peggio. Nessuno voleva uno della mia età.
Così mi lasciai andare, cominciai a bere e a passare le mie giornate davanti alla televisione, sul divano in salotto.
Praticamente non uscivo più di casa, guardavo gli annunci di lavoro dal computer e mandavo sempre meno curriculum. La vodka liscia era diventata la mia compagna preferita da quando ero da solo in casa. Annalisa prestava servizio come badante a ore da una vecchia rincoglionita e scorbutica e io mi ubriacavo sul sofà.
Litigavamo davvero tanto, io e Annalisa. Non facevamo più neanche l’amore.
La vodka mi faceva dormire un sacco e lei era stanca di ripetermi che non aveva più intenzione di stare con uno scansafatiche che non lavorava e che non faceva altro che bere dalla mattina alla sera.
La sentivo piangere in bagno tante volte; un po’ mi dispiacevo, ma ormai i miei sentimenti e le mie emozioni erano annebbiate, proprio come la mia mente ubriaca.
Il momento tanto temuto è arrivato.
Annalisa ha deciso di lasciarmi e di tornare da sua madre.
Il litigio è davvero furibondo stavolta: mi urla di non volere che le sue figlie crescano con un esempio di padre del genere.
Stavolta sono io a piangere, la imploro di non fare cose avventate, che posso cambiare e che voglio riprendere in mano la mia vita, ché lei sa quanto valgo.
Ma le sue intenzioni sono ferme e le mie preghiere vane.
La mia disperazione non riesce a scalfirla stavolta: è decisa e vuole andare via, portandosi tutta la mia vita.
Non posso permetterlo, non posso permetterle di rovinare tutto.
Le ragazze danno ragione alla mamma, dicono che hanno paura di me.
La rabbia monta, riempie gli occhi e li infiamma.
Le urla sono laceranti.
In questa mattina d’inverno ho ammazzato mia moglie e le mie due figlie con un coltello da cucina.
Le sto guardando. Eccole, sono lì, riverse sul pavimento del salotto.
Non provo nulla, non provo dolore nel guardarle, solo ribrezzo.
Non riesco a guardare quei cadaveri senza vomitare.
Dopo aver rimesso sul tappeto, corro e mi nascondo in soffitta.
Sicuramente saranno stati i vicini a chiamare i carabinieri. Il frastuono deve averli allarmati.
E adesso sono alla porta. È una porta blindata, spessa.
Bum, bum. Bum.
Stanno cercando di sfondarla con un ariete, ma deve proprio essere un uscio resistente: sarà almeno un minuto che quel rumore cadenzato e regolare mi martella le tempie, che mi stanno esplodendo.
“Potranno sfondare tutte le porte del mondo coi loro arieti, ma non sapranno mai cosa è successo in questa casa stasera, non potranno penetrare anche nella mia testa, non sapranno mai niente di quello che è successo” penso.
A un tratto i colpi cessano. Sento il loro sgomento alla scena che si son trovati davanti appena entrati. Mi cercano, in ogni stanza. Sono in tanti, sento confusione al piano inferiore.
Alla fine capiscono, arrivano in soffitta.
Non è facile sfondarla, mi sono barricato dentro. Ecco che ritornano i colpi dell’ariete: bum bum bum.
La sfonderanno senza troppi problemi, stavolta.
E lì mi troveranno.
La lama che ha ucciso mia moglie e le mie due figlie sarà conficcata nel mio petto.