Il tragitto che la portava al centro era sempre lo stesso. Le porte della metro sbuffavano, aprendosi, e si restava avvolti dall’odore dei sedili, impregnati di un’umanità frettolosa, nevrotica, che ogni mattina si recava al lavoro. A volte qualche vaga traccia di profumo dolce o selvaggio rimaneva nell’abitacolo. Margherita chiudeva gli occhi e cercava di immaginare a chi potesse appartenere.
Le donne amavano i profumi dolci e le giovani preferivano quelle fragranze agrumate che lasciavano una scia fresca e voluttuosa. Gli uomini aggredivano con odori forti: muschio, tabacco, sandalo.
Proprio il sandalo era il suo profumo preferito, ma era difficile che gli uomini o i ragazzi che affollavano la metro alle sette del mattino ne facessero uso.
Un giorno però l’aveva annusato e aveva fatto appena in tempo a scorgere che proveniva da un ragazzo in jeans e giubbotto di pelle che si era affrettato a scendere alla fermata prima della sua.
Che cosa stupida concentrarsi sugli odori, ma del resto non aveva niente di meglio da fare durante il viaggio in metro per recarsi presso lo studio medico dove lavorava.
Stava mettendo da parte dei risparmi per acquistare un auto, magari di seconda mano, così si sarebbe evitata lo strazio di quel tragitto tra gente sconosciuta e indifferente.
Le strade erano lucide di pioggia, i lampioni occhieggiavano sui viali gremiti di foglie cadute, vittime di un vento capriccioso che le aveva divelte.
«Anche oggi vai al lavoro? Ma lo sai che giorno è?» le aveva detto la sua coinquilina, mentre sorbivano il caffè del dopo pranzo.
«Certo che lo so! E cosa credi che la gente non vada dal medico solo perché è il trentuno ottobre? Il dottore mi ha chiesto di essere lì, come tutti i giorni, per ricevere i pazienti. Anzi, oggi la sua agenda d’appuntamenti è piena zeppa.»
Seduta su un vecchio sedile della metro, Margherita si guardava intorno. C’erano solo uomini attorno a lei e donne anziane dai sessanta in su.
“Possibile che tutte le persone di sesso femminile dessero credito a quella leggenda metropolitana?”
Il pomeriggio lavorativo allo studio medio si svolse come al solito. Unica eccezione era che c’erano solo pazienti maschi e due o tre vecchiette che avevano chiesto di entrare per prime, per poter far ritorno a casa prima che facesse buio. Anche in quell’ambiente asettico aleggiava l’ombra di quella incredibile storia, secondo la quale quel giorno, a partire dalle prime ombre della sera, le donne sarebbero state caccia libera e quelle che transitavano per strada ne erano consapevoli, quindi si rendevano disponibili.
L’odore di disinfettante si diffondeva nell’anticamera. Margherita rispondeva al telefono compita e cordiale. I pazienti entravano dal dottore accompagnati dal loro bastone e da un odore che sembrava naftalina, come se loro stessi si fossero conservati per non sgretolarsi, prima che il medico trovasse un rimedio per rimetterli a nuovo.
Sorrideva Margherita, per la storia degli odori che associava alle persone, avrebbe riconosciuto ognuno di loro ad occhi chiusi. Oltre alla naftalina,i frequentatori abituali dello studio avevano profumi particolari, le donne quelli delicati come la rosa e la violetta, gli uomini quelli forti come il dopobarba alla menta, o la lavanda; tutti si confondevano con la canfora delle pomate e di altri medicinali.
Dal dottore si sa, si parla dei propri malesseri, si chiedono spiegazioni, ma si finisce per chiacchierare anche di cose personali e inevitabilmente si finisce per andare oltre l'orario di visita.
“Dovrò chiedere lo straordinario” pensava Margherita, guardando l’orologio. L’ultimo paziente era ancora dentro e le sarebbe toccato aspettare altri venti minuti per prendere la metro.
“Si sbrigasse almeno quello lì dentro, ma cosa starà raccontando?” pensava sentendo ogni tanto risatine e colpi di tosse. Purtroppo non era ancora riuscita a mettere da parte il necessario per acquistare una macchina, ma per l’estate sicuramente ce l’avrebbe fatta, le toccava un altro po’ di sacrifici…
Finalmente chiuse lo studio e mentre il dottore si allontanava a bordo della sua auto sportiva, lei di corsa si avvio alla stazione della metro. Aveva un po’ paura per l’atmosfera lugubre che vedeva intorno, le strade erano pressoché deserte, i lampioni illuminavano appena e i pochi passanti sembravano avere qualcosa di sinistro, come cacciatori in cerca di prede, ma forse era solo suggestione. Quando arrivò alla stazione della metropolitana si rincuorò.
C’era un'auto della polizia, con due agenti, che sembravano stare di guardia proprio all’entrata. Prima di scendere ai binari si fermò a un distributore automatico per prendere una bottiglietta d’acqua. Una donna anziana le passò davanti, la riconobbe dall’odore di violetta. Era una paziente dello studio, la signora Parisi.
Stava per chiamarla quando con la coda dell’occhio si accorse che la donna era sparita dietro l’angolo che portava ai bagni, quasi come se fosse stata trascinata da qualcuno. Un brivido la percorse.
Forse la donna era in pericolo, doveva scoprire dov’ era finita. Svoltò l’angolo e si avviò lungo il corridoio. Davanti ai bagni delle donne si fermò. La porta era semiaperta, si fermò sulla soglia e sbirciò dentro. Un uomo con un berretto di lana tratteneva la donna di spalle con la gonna sollevata. Una sciarpa avvolgeva la faccia, si udivano solo i mugolii indistinti della povera Parisi. Doveva chiamare aiuto, da sola non poteva affrontare quell’energumeno. Si ricordò dell’auto della polizia fuori l’entrata.
Ripercorse il corridoio dal quale era arrivata, nel silenzio il ticchettio delle sue scarpe, sì chiedeva perché accidenti la metro fosse destra non erano ancora le ventuno.
I corridoio uguali tra loro la mandarono in confusione, ma sapeva che alla sua destra doveva esserci per forza l’uscita.
All’improvviso qualcuno alle sue spalle l’afferrò, spingendola con la faccia contro il muro. Sentiva il peso dell’uomo contro il suo corpo. Lui cercava di tenerla ferma con le ginocchia puntate contro il suo corpo. Era tutta una massa muscolare che cercava di frugare da ogni parte, con le gambe, il torace, le labbra. Una mano le sbottonò i pantaloni, mentre l’altra le premeva la bocca per non farla urlare. Inorridita si sentiva impotente, lacrime scesero sulla mano del suo aggressore che non si arrese, allora lei tentò un’ultima difesa affondando i denti con forza nella mano dell’uomo, ma non servì a niente, a lui sembrò addirittura provocare piacere. Fu allora che Margherita sentì l’odore dell’uomo, un profumo di sandalo, di erbe misteriose, ne fu turbata e nello stesso tempo agghiacciata.
Quando tutto finì, l’uomo svelto si allontanò. Lei scarmigliata e sconvolta pensò di chiedere aiuto rifece di corsa il corridoio deserto dietro al suo assalitore. All’uscita lo vide salire proprio sull’auto della polizia, parcheggiata davanti alla stazione. Entrato, sedette sul sedile del passeggero. Si voltò solo un istante e lei poté guardare negli occhi il suo stupratore, prima che la macchina partisse veloce.
«Nooooo!»
Era atroce che chi avrebbe dovuto proteggere le persone fosse un mostro.
Quando arrivò a casa, sconvolta, raccontò tutto alla coinquilina che l’accompagnò a fare la denuncia.
«Non hai voluto ascoltarmi. Non sai quante denunce vengono fatte ogni anno in questo giorno, altro che leggenda metropolitana…»
Margherita era colma di orrore e sotto la doccia cercava di cancellare ogni traccia del sopruso, ma inutilmente, tutto sembrava essersi appiccicato sulla sua pelle come un marchio. A volte le sembrava di sentire quell’odore di sandalo e tremava e in tutto ciò c’era qualcosa che non tornava, ma non capiva cosa.
I primi giorni furono terribili. Quando la coinquilina lavorava, e lei era sola a casa, aveva timore nell’udire il trillo del citofono o del campanello. Rivedeva anche il volto di quell’uomo, i capelli ondulati, la riga al lato, lo avrebbe riconosciuto tra mille. L’aveva riferito anche ai poliziotti quando era stata interrogata, descrivendo nei dettagli l’uomo che l’aveva aggredita.
Un giorno fu chiamata al commissariato per un confronto. Lei doveva guardare, non vista, dietro un vetro alcuni uomini, scelti in base al suo identikit, e se riconosceva l’aggressore lo doveva indicare.
Erano cinque gli uomini schierati dietro il vetro, con gli occhi scuri e i capelli ondulati, senza barba. Stavano ritti e immobili, senza nessuna espressività. Dopo averli osservati attentamente, lo riconobbe. Sapeva che era un poliziotto che possibilità aveva di essere creduta, i colleghi l’avrebbero coperto, anzi forse volevano farsi beffe di lei facendoglielo vedere.
Disse che in mezzo a loro non c’era colui che l’aveva stuprata. Tornò a casa che era stravolta, barcollando si guardò nello specchio e vide una sconosciuta. Quando aveva fissato negli occhi l’uomo in fondo alla fila a destra, l’aveva riconosciuto senza dubbi e aveva ripensato a quel profumo di sandalo. Allora aveva capito che c’era stato un momento in cui anche lei era diventata un mostro. Non era riuscita a lottare fino in fondo e si era arresa a quello che stava accadendo, offuscata proprio da quell’odore penetrante.
«Non voglio essere un mostro» continuò a ripetersi per tutto il giorno. Si sentiva osservata dagli altri, sguardi ostili parevano ricordarle la sua colpa, non si era difesa con tutta se stessa. Evitava con orrore gli specchi che le avrebbero rivelato il suo vero volto.
Dopo alcuni giorni tornò a lavorare. Quando arrivava alla metro le sembrava di scendere verso l’inferno.
Le scale mobili con le pareti ricche di graffiti, che sembravano ferite vive nel muro, la trasportarono nell’antro di demoni che erano lì ad attenderla per ghermirla.
Si fermava in attesa presso i binari e pregava che il viaggio fosse veloce. Il tempo l’avrebbe aiutata a guarire le dicevano ma lei ne dubitava, doveva convincere soprattutto se stessa.
Un giorno mentre era seduta su uno dei vecchi sedili della metro, si accorse che qualcuno aveva trovato posto accanto a lei. Si alzò di scatto per allontanarsi. Lui la bloccò afferrandola per un braccio.
«Non mi toccare!» esclamò inorridita.
«Scusa, io volevo chiederti… perché?»
«Perché cosa?»
«Perché non mi hai denunciato, sono certo che mi hai riconosciuto.»
«Non potevo, perché tu mi hai fatto diventare come te…un mostro.»
Gli riversò addosso tutto il dolore che aveva dentro, lui ascoltava e taceva poi disse a voce bassa.
«Quella sera avevo bevuto. Tutti mi prendevano in giro con quella strana storia della caccia alle donne del trentuno ottobre. Ero in città da solo un mese. Ti avevo notata e mi attraevi quando ti ho visto imboccare l’entrata della metro non ho saputo resistere.»
«Non avvicinarti mai più a me!» gli intimò lei, prima di andar via.
Non doveva cercare giustifiche di nessun genere quello stupido ragazzo, era un mostro e anche lei lo era, pensava Margherita mentre lui si allontanava. Lacrime calde le rigarono il viso appoggiò la testa al sedile. Puzzava di sudore, si allontanò subito anche se sapeva che non era quello l’odore che doveva temere.
La strada che portava al lago era stretta. L’ombra degli alberi ai due lati si proiettava sull’asfalto. Aveva da poco comprato la sua auto, ma la sua vita rimaneva un’oscura galleria dove lei gridava come un ossessa: «Non voglio essere un mostro!»
Sulla riva il sole brillava, tutto sembrava lontano da ogni male. Seduta sull’erba si lasciò accarezzare dai raggi che rischiaravano un poco il buio che aveva dentro.
L’aria era calda, l’acqua del lago era algida, nelle impercettibili creste sopra l’acqua sentiva un richiamo, era un incontro che non poteva più rimandare.
Lasciò sulle rive le sue cose e s’incamminò a piedi nudi verso il lago. L’erba le solleticava le caviglie, ma lei era insensibile a ogni stimolo. Solo le sue narici, o la sua mente, erano perennemente avvolte in quel profumo di sandalo che la seguiva dappertutto. Andò avanti un passo dopo l’altro, pronunciando come un mantra ossessivo: “Non voglio essere un mostro.»
L’acqua gelida l’abbracciò, portandola con sé.