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Messaggio Da Susanna Dom Set 19, 2021 6:18 pm

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Arianna sale le scale lentamente.
È stanca, fa caldo, quelle scarpe basse così comode oggi le fanno male e in ufficio è stata una giornata a dir poco demenziale. Il fresco dell’androne, anziché darle sollievo, le ha tolto le ultime briciole di energia.
Andrea le ha già aperto la porta: l’aria condizionata l’accoglie gentilmente, il marito affettuosamente e il divano divinamente: quanti ente per un momento di niente, finalmente. Ah, casa dolce casa! Confortevole, colorata, soffice: libri che le fanno l’occhiolino sul tavolino, promettendole una serata tranquilla, cuscini morbidi, luci soffuse così riposanti dopo quelle fredde dell’ufficio. E chi si muove più, ma chi ne ha l’energia? Lei no di certo.
Due minuti per riprendere fiato poi, ultimo sforzo della giornata, va a mettersi comoda: via gonna e camicetta eleganti, via i pochi gioielli, una doccia veloce e largo ad una maglietta vissuta e ai pantaloni della tuta, i piedi nudi per godersi il fresco del pavimento.
Lo specchio, impietoso come suo solito, le fa notare quelle rughette intorno agli occhi, i colpi di luce naturali dei capelli corti e quei sette-otto chili in più. Ombre scure sotto agli occhi cosa vorranno dire? Mah!
«Hai altro da farmi notare? Mai che ti faccia gli affari tuoi eh?»
«Con chi parli?»
Andrea sta pulendo l’insalata, tenendo d’occhio l’acqua per la pasta: le ha già preparato una bibita fresca nel mug colorato.
«Con lo specchio.» Sospiro sconsolato.
«Brutta giornata?»
Brutta? Un fiume di parole: in cinque minuti gli racconta un mattino e un pomeriggio pieni di imprevisti, solleciti, urgenze, di gente che si crede importante perché può permettersi meschinerie tali che una persona normale si vergognerebbe.
Anche Andrea ha avuto una giornata intensa, ma lui riesce a lasciare il tutto sullo zerbino: una bella pulita alle scarpe e poi comincia la sua vita vera. Per esempio, ascoltando con pazienza la sua donna, fissandola con quegli occhi dal colore indefinibile e lo sguardo innamorato.
«Ti ricordi che stasera devi andare da Melletti?» Un po’ crudele l’amico.
«Noo!»
Deve essere una notizia tragica, visto che Arianna sbatte teatralmente la testa contro il muro due o tre volte. Piano però.
«Sì, ciccina, e stavolta tocca a te! Ore 20.30.»
Se lo erano promesso: a quegli incontri periodici, una volta per ciascuno.
Con una mezz’ora di anticipo Arianna scende le scale: è sempre stanca, zoppica leggermente per via di una fastidiosa vescica, la serata è afosa e il profumo dolciastro dei tigli sul viale è quasi sgradevole, tanto intenso e penetrante; nell’ufficio del Dr. Angelomaria Melletti l’aria condizionata è spenta: “Bisogna risparmiare energia, se vi facessi vedere le bollette!”
Gli altri inviati sono tanto simpatici che se ne avesse le energie mentali e fisiche, con le prime avrebbe due o tre cosette da spiattellare e con le seconde… omicidio plurimo. Data la situazione l’avrebbero sicuramente assolta con formula piena. Per la dipartita di Angelomaria Melletti, essere infingardo, infido e stronzo: l’encomio.
È quasi mezzanotte quanto Arianna risale le scale, è distrutta, incavolata nera, potrebbe anche dormire nell’acqua visto il sonno che le sta appesantendo le palpebre: avrebbe bisogno di una doccia ma non vuole disturbare Andrea. Una bibita fresca per un minimo di sollievo e poi a letto.
All’una Arianna è ancora sveglia, come le succede quando è troppo stanca o nervosa. Si alza per bere, controlla l’ora. Dov’è l’orologio? In cucina no, sul mobile all’entrata no, in bagno neanche, nello studio neppure.
Una manciata di secondi e tutte le luci del soggiorno sono accese, il contenuto della borsa sparso sul tavolo: niente; si infila un accappatoio e a piedi nudi scende fin nell’androne. Non persuasa, percorre anche il vialetto fino al cancello: un fantasma affannato e ansioso.
Torna in casa: Andrea non si è accorto di nulla, ha il sonno duro. Si lava le mani e solo adesso si accorge del piccolo graffio che ha sul polso.
Arianna non ha perso l’orologio: qualcuno glielo ha rubato.
Lei sa chi è stato: quel ragazzo strano che era uscito dallo studio del Melletti con lei: quando la luce sulle scale si era spenta all’improvviso, l’aveva urtata e con la scusa di sorreggerla, glielo aveva sfilato. Non poteva essere altrimenti.
E bravo l’amico! Abile e dal tocco leggero: non si era accorta di niente e quando era arrivata a casa era talmente cotta che, nello spogliarsi, non ne aveva proprio notato la mancanza. Era anche colpa sua: se avesse fatto aggiustare il cinturino, a cui mancava il passante, sarebbe stato impossibile sfilarglielo, ma così, bastava un niente.
La mattina seguente Arianna non dice nulla ad Andrea: l’orologio è un oggetto suo, molto personale. Un regalo di una persona entrata e uscita dalla sua vita come la classica meteora: una bella luce, una sferzata di energia pura e un gran buco dentro quando tutto era finito.
Era stato un periodo intenso, ma aveva pagato caro quelle ore così piene di sensazioni che credeva impossibili da riprovare, le aveva pagate con un dolore sordo quando lei, spaventata da quanto stava succedendo, aveva deciso “Basta”.
Una tristezza che non poteva condividere con nessuno.
Quando tutto si era attenuato ne aveva parlato con Andrea e lui aveva capito: non erano più tornati sull’argomento, ma da quel giorno aveva indossato l’orologio, come una sorta di monito: non doveva succedere più.
 
Nel pomeriggio torna nell’ufficio del dottor Melletti: la segretaria, Nadia, è una sua amica. Le racconta tutto e la vede sbiancare.
Era successo anche a lei: uguale. La stessa riunione di qualche mese prima, la stessa scusa delle luci che si spengono, lo stesso ragazzo. A lei aveva rubato una spilla, un ricordo di sua madre: niente di preziosissimo, era anche un po’ pacchiana, ma era stato il suo ultimo regalo.
«Sei riuscita a fartela restituire? L’hai denunciato? Sai che quasi non so come si chiama?»
«Si chiama Manuele e viene agli incontri per conto della signora Ferretti, sai che non si può muovere. Beh, i carabinieri mi hanno detto che per denunciarlo dovevo essere sicura, magari l’avevo persa io, ci volevano le prove…»
Una bella cantilena di informazioni.
«Quindi?» Arianna aveva fretta.
«Quindi gli ho telefonato, l’ho messa giù un po’ pesante. Si è messo a ridere, in modo strano. Allora sono andata a casa sua, ma non si è fatto trovare. Mi ha fermata per strada, dicendomi di non disturbarlo più e di stare attenta a raccontare in giro che lui era un ladro… Ho avuto una gran paura! Hai visto che tipo è, no?»
Arianna aveva visto e sentito che tipo era: alto, la maglietta nera che indossava quella sera metteva in risalto muscoli di tutto rispetto, e che non fossero solo una finta lo aveva capito dalla forza con cui le aveva impedito di cadere, come se non avesse fatto il minimo sforzo. Si era allontanato dalla piazzetta con un passo elastico e silenzioso, felino poteva essere l’aggettivo giusto. Era completamente calvo, non aveva neanche le sopracciglia e questo rendeva cattivo lo sguardo. Uno sguardo che trapassava.
Solo adesso Arianna mette assieme quei ricordi e quelle percezioni.
La sua amica chiude velocemente la conversazione: le indica dove può trovarlo, ma le consiglia di lasciar perdere.
«E’ un tipo strano, inquietante: dai, alla fine è solo un orologio! Non andarci, ti prego.»
Che strana voce aveva Nadia, e che strana espressione: sembrava a disagio, quasi volesse dirle qualcos’altro.
Nel pomeriggio Arianna decide: deve riprendersi l’orologio. Per una questione di principio, per il valore affettivo, perché… perché sì. Punto.
Si inventa una scusa qualsiasi e lascia l’ufficio appena dopo pranzo, sale in macchina e raggiunge il quartiere industriale, dove sa che lavora il tizio.
Camion in manovra dappertutto, enormi, colorati ma anche neri e con i vetri oscurati, puzzolenti. Le strombazzano furiosamente con quelle sirene da navi che hanno al posto del clacson: ecchecavolo, lassù al terzo piano! Potrebbero schiacciarla e neanche se ne accorgerebbero! E poi muletti che vanno come schegge, containers che sembrano palazzi, qualche fischio quando scende a chiedere informazioni, neanche fosse una ragazza tutta tette e culo.
L’aria è pesante e satura di tutti quei gas di scappamento, neri e oleosi.
Il tizio lavora in una grande officina: con aria di finta sicurezza entra e chiede di Manuele. Ci sono alcuni ragazzi che le si avvicinano, sporchi in viso e con le tute macchiate, le fanno cerchio intorno, la fermano: le chiedono sghignazzando cosa vuole da Manuele, Manuele non c’è, se è per un appuntamento può dire a loro… Arianna è stordita.
Nell’officina fa molto caldo, ci sono odori forti: acidi, metallo incandescente, olio lubrificante, sudore, polvere di ferro. Da qualche parte si sente stridere del metallo, e tonfi pesanti fanno tremare il pavimento.
Per un momento pensa di sentirsi male, le scende un velo davanti agli occhi, e i suoni le sembrano ovattati. Esce di corsa, risale in macchina ma non riesce a mettere in moto, tanto le tremano le mani. Sente ancora nelle orecchie le risate di quei ragazzi, nelle narici l’odore acre del loro sudore.
Arianna si ferma in un bar, beve qualcosa di fresco per calmarsi. Mentre paga la consumazione, in una bacheca vede la foto di Manuele: è una foto di gruppo, scattata per la pubblicità di una manifestazione di arti marziali. Scribacchia su un tovagliolino l’indirizzo della palestra.
Mentre raggiunge l’indirizzo si sente un po’ ridicola, per aver avuto paura o forse… non è che per caso, non sapendo niente di tal Manuele Orlandelli, lei ha fatto la figura della signora a caccia di un gigolò di provincia? No, non può essere! Alla fine, riesce anche a ridacchiare per la scena di poco prima e per quell’idea balzana.
Comunque lei rivuole l’orologio: in fin dei conti è un ladruncolo, mica un assassino. Speriamo.
Palestra “I SETTE SAMURAI”, qualcuno aveva aggiunto, più in piccolo, ‘incazzati’: cominciamo bene! In realtà è un vecchio capannone riadattato: l’atrio è deserto ma seguendo i rumori si ritrova in un salone dove una decina di ragazzi si stanno allenando. Suoni soffocati, le frasi secche, forse in giapponese, con strani suoni gutturali, i colpi che arrivano a segno, corpi che cadono, i fruscii delle casacche, l’odore della gomma dei grandi tappeti e una musica dolce, melodica anche se dai suoni acuti e in apparenza disordinati. Atmosfera.
Stavolta è più cauta: domanda del responsabile, si presenta, e chiede di Manuele.
«Qualcuno ha visto Manuele?» Con un fischio l’uomo aveva chiesto l’attenzione del gruppo dei ragazzi che si stavano allenando.
«Chi lo vuol sapere e perché.»
Non era una domanda: era un ordine, e la voce imperiosa arrivava da un uomo alto almeno trenta centimetri più di Arianna, la casacca da judoca lasciava intravedere un fisico niente male e la fissava con uno sguardo indagatore: era lucido di sudore ma non aveva il fiatone. Non lo aveva notato prima.
«Ho bisogno di parlargli e se permette sarebbero affari personali. Non è un delitto e neanche un disonore avere questioni private. Non crede?»          
Arianna prova a far credere di essere assolutamente a suo agio, usando un tono tra l’ironico e il canzonatorio, nonostante un batticuore furioso. Alla fine, alla malparata, poteva provare quella frase con cui Marco Vichi aveva chiuso un racconto in cui si svolgeva una scena simile.
Si chiese se fosse mai riuscita a dire: “Occhio amico. Non sono forte, ma sono molto arrabbiata!” L’”occhio amico” era una sua licenza poetica. Ma... quel disonore da dove veniva fuori poi?
I Samurai si guardano l’uno con l’altro, la squadrano per bene, poi con un cenno il Samurai n. 1 autorizza con uno sguardo il responsabile a darle un indirizzo. Oltre all’indirizzo e ad uno schizzo della strada da seguire, l’uomo aggiunge un consiglio, che le fa scendere un brivido per la schiena. «Stia attenta!» Eccheccavolo! Ma che tipo era ‘sto Manuele! “Sta a vedere che adesso per un semplice orologio mi trovano fatta a pezzi da qualche parte, un braccio qui, la testa là, una gamba in un cassonetto.”
Niente: l’orologio deve tornare al suo polso.
Arianna capisce dopo qualche chilometro il significato di quel “stia attenta”: Manuele abitava sulle prime colline e, lasciata la pedemontana, si trova a percorrere una strada bianca, stretta, piena di buche, polverosa e con delle curve strettissime, a gomito. Grandi cespugli in certi punti arrivano a carezzarle la carrozzeria, frusciando dolcemente.
Si augura di non incrociare altre auto, perché non ci sarebbe stato spazio per due e lei aveva poco occhio nelle manovre in retromarcia.
Dopo un buon quarto d’ora di sofferenza automobilistica, arriva in una radura dove si trova una piccola casa di campagna, curata, con un bel giardino, forse un po’ inselvatichito ma molto armonioso.
Spinge il cancelletto, aspettandosi il classico cigolio, che non arriva: cerniere ben oliate. Le viene incontro un beagle, scodinzolante e a caccia di coccole.
“Tu non sei un cane da guardia, vero? Per niente: due carezze e sono già amici.
Nel giardino c’è un’aria strana, come se il giardino, la casa, i prati che si intravedevano dietro il portico fossero sotto una campana di vetro. Suoni leggeri e ovattati, ombre fresche e che invitavano al riposo e alla meditazione, profumi intensi provenivano da grandi cespugli carichi di fiori, c’erano persino delle farfalle e, di sottofondo, il ronzio di api e lo stridere delle cicale.
Quanti suoni a cui non era più abituata!
«Manuele!»
Sentendo quel nome il cane parte come un fulmine verso casa, si ferma davanti alla porta e voltandosi, con occhioni dolcissimi, sembra invitarla ad aprire la porta. Non è chiusa a chiave: entrano insieme, lei titubante e il cane sicuro.
La stanza è molto intima: legno alle pareti, un grande tappeto colorato, un camino che aspetta solo di essere acceso, un divano basso con un drappo dai colori intensi buttato in un angolo, grandi finestre che danno sul giardino.
In un angolo una mensola funge da scrivania: computer, stampante, scanner, un blocco e delle matite. Altre mensole sono stracolme di libri, riviste e una piccola collezione di oggetti disparati: un candelabro ammaccato, un piccolo libro di preghiere, una penna stilografica, un orecchino, un fazzoletto di seta da taschino, un portachiavi orfano di chiavi, una macchinina gialla e rossa, il suo orologio.
«Non le hanno insegnato a bussare?»
Arianna si spaventa, non lo aveva sentito arrivare e anche il cane era rimasto tranquillo sul suo strapuntino.
«E a lei non hanno insegnato a non rubare?» La miglior difesa è l’attacco.
«Rubare? Cosa le avrei rubato? Io non le ho rubato nulla. E quand’anche, mi ha forse visto?»
Manuele doveva aver corso nel bosco: la maglietta era bagnata di sudore e sui pantaloni della tuta erano rimaste attaccate alcune foglioline secche.
«Questo orologio, l’altra sera sulle scale dello studio di Melletti, quando mi ha urtato. Vede? Mi ha anche graffiato.»
«Io non le ho proprio rubato nulla!»
La voce si è indurita, il viso ha un’espressione cupa.
Stava per aggiungere qualcos’altro quando la porta si apre di colpo ed entra Nadia, scarmigliata e con la camicetta fuori dai jeans.
«Lasciala stare, brutto bastardo che non sei altro! E sta’ zitto!»
Manuele le guarda entrambe, esterrefatto. Il beagle abbaia un paio di volte.
«Ma siete matte tutte e due? Adesso ve ne andate da casa mia e alla svelta! Fuori. Anzi lei – e accennò ad Arianna – lei no, lei se ne resta buona buona e chiariamo la faccenda. OK?»
Nadia non ha intenzione di farsi intimidire, prende Arianna per un braccio e la trascina fuori, con Manuele e beagle al seguito, ma Arianna inciampa e finisce dentro ad un cespuglio, di cosa non lo sa, sa solo che graffia.
Manuele è una furia.
«Lei! – a Nadia – Fuori dalla mia proprietà e se la vedo ancora bazzicare qua intorno la denuncio. E veda di non impicciarsi di questa faccenda. Sono stato chiaro?»
Non aveva alzato la voce ma era come se avesse urlato con un megafono. Intanto aiuta Arianna ad alzarsi, la prende per un braccio, adesso le fa male, e la riporta in casa, quasi sollevandola di peso e chiudendo con un tonfo la porta dietro di loro.
Arianna ora ha finalmente paura e realizza quanto sia stata imprudente a cercare di risolvere il problema da sola. Manuele è fermo dinanzi alla porta, a braccia conserte, altre uscite non ce ne sono e anche se si mettesse ad urlare nessuno la sentirebbe, isolata com’è la casa.
«Una cosa. Prima di tutto poteva anche ringraziare i miei operai: era talmente presa da sé stessa che non si è accorta di essersi fermata accanto a dei macchinari in movimento, pericolosissimo. E se le hanno fischiato dietro, non è per il fisico statutario ma per fermarla.  C’è un bel cartello all’entrata, che vieta l’accesso ai non addetti.»
Arianna vorrebbe replicare, ma...
«Seconda cosa. I miei amici della palestra saranno un po’ ruvidi, ma almeno poteva presentarsi: bastava una spiegazione e un po’ meno spavalderia. Sono dei bravi ragazzi, anche se sembrano dei duri.»
«Terza cosa. L’orologio lo ha semplicemente perso. Ci ha giocherellato tutta la sera e forse non lo aveva agganciato bene.»
Anche Arianna è furiosa, ma con sé stessa. Le parole dure ma gentili dell’uomo le hanno fatto prendere coscienza di quanto sia stata scortese con tutti quel giorno, quasi che fosse colpa loro se aveva perso o se le avevano rubato l’orologio.
«Mi scusi. Ha ragione. Di solito non sono così, ma quell’orologio è importante per me, è un regalo e...»
Non è da Arianna ammettere così facilmente di avere torto, permalosa com’è, ma questa non è una giornata come le altre, proprio per niente.
La tensione finalmente si stempera e lei ha bisogno di piangere: si avvicina alla finestra, voltando le spalle all’uomo e lascia che le lacrime l’aiutino a riprendersi. Le sfuggono anche un paio di singhiozzi.
Sente qualcosa strusciarle le caviglie: è il beagle che la sta fissando con occhi languidi. Con un leggero guaito si stende sopra i suoi piedi.
«La sta consolando: le persone che piangono lo rattristano.»
Si gira verso l’uomo: è serio ma gli occhi stanno ridendo; qualche secondo e stanno ridendo entrambi, fino alle lacrime. Nessuno dei due ha un fazzoletto a portata di mano, ma va bene così, le magliette serviranno pure a qualcosa. Si presentano: Arianna, Manuele.
«Venga che preparo qualcosa di fresco, poi parliamo un po’. Vuole?»
Arianna si sente come una bambina capricciosa che si è appena presa una sonora ramanzina: con poche parole Manuele l’ha veramente messa a posto, ma non ne è tanto infastidita, quanto piuttosto sollevata. Una veloce telefonata a casa per tranquillizzare Andrea, nel caso Nadia “si sia impicciata”, il tempo per Manuele di portare le bibite in giardino, all’ombra di una grande robinia. Il profumo delle infiorescenze è inebriante, si siedono sull’erba fresca e morbida, il più comodo dei salotti.
«Può completare l’opera di demolizione, se crede.»
«Non era mia intenzione, anzi: ma concorderà che c’è modo e modo.»
«Già. Sarà solo un banale orologio, ma ha un significato particolare, molto particolare.»
 E gli racconta dell’ansia e delle ricerche della notte prima.
«Arianna, lei non era arrabbiata solo per l’orologio: lei era arrabbiata perché aveva perso tempo.»
«Non… non capisco! Cosa diamine vuole dire?»
«Voglio dire che anche ieri sera è stata molto scortese, con tutti. D’accordo che una riunione di condominio non è un granché, ma per rispetto agli altri doveva essere presente, non solo fisicamente, ma anche con la testa. Anche gli altri avevano altre cose da fare, anche loro erano stanchi.»
«Era così evidente?»
«Certo! O almeno, io l’ho notato subito, ma io non faccio testo. A cosa pensava? Al bucato da stirare, al film che si stava perdendo? Cosa avrebbe fatto se non fosse stata alla riunione?»
Manuele giocherellava con l’orologio: aveva una bella voce, serena, rassicurante, calma. Non sembrava curioso quanto interessato.
«Mi sarei messa al computer e …»
Arianna, quasi senza accorgersene ma con un grande senso di liberazione, gli racconta di quella voglia di scrivere, di raccontare, di inventare storie su qualsiasi cosa la colpisca, quel desiderio di emergere, anche poco, di regalare agli altri le sue emozioni, le sue “storie strampalate”.
«Ecco: ieri sera avevo una storia in mente, volevo appuntarla… Io sono così, senza mezze misure. Le sere, i sabati e le domeniche… Non so se capisci.»
«Più di quanto non immagini. Vieni.»
Ritornano in casa e lui le mostra la sua piccola collezione di oggetti disparati.
«Anch’io scrivo storie, ma sono le storie che vengono a cercarmi. Non rubo gli oggetti, sono loro che mi trovano quando passo accanto alle bancarelle dei mercatini, o dal robivecchi… per strada, sulle scale di un palazzo.»
Arianna lo fissa con sguardo interrogativo, perplessa: si accoccola sul divano, in un angolo dove non disturbare. Manuele si fa serio, si appoggia alla scrivania, incrociando le braccia e le caviglie. Pochi secondi di silenzio, poi si racconta, con una nota di sollievo nella voce.
La speranza che lei capisse, che gli credesse.
Tre anni prima aveva avuto un incidente sul lavoro, decisamente grave: sei mesi di coma, un risveglio faticoso e da allora una tazza sbeccata, un trenino di latta, una bambola col braccio rotto, una spilla persa per strada… non sono più dei semplici oggetti da portare a casa, perché non vogliono essere abbandonati o dimenticati, ma accompagnano tante storie che lo hanno cambiato, facendolo gioie nel profondo e soffrire atrocemente, regalandogli sorrisi e lacrime, insegnandogli a guardare dentro la gente.
Esami su esami, diagnosi una l’opposto dell’altra, psicoterapia, persino un periodo in un convento, lontano da tutto e da tutti, pur di uscire da quella situazione assurda e surreale.
Alla fine, la rassegnazione, assieme alla speranza che col tempo tutto si risolvesse, come per le ferite fisiche.
«Sono arrivati a dirmi che sia un dono... forse, ma qualche volta è una maledizione, credimi: capita all’improvviso, le storie delle cose mi inseguono, mi entrano nel cervello e diventano sogni bellissimi oppure incubi terrificanti, fino a quando non ho finito di scriverle. Poi, tutto si quieta: se posso restituisco l’oggetto, insieme alla storia. Altrimenti trovo un posto adatto e lascio il tutto, sperando che qualcuno legga e comprenda.»
Le rende l’orologio.
«Era ancora tiepido quando l’ho trovato, si sentiva anche il tuo profumo. I tuoi pensieri mi sono arrivati a mezza voce.»
Le allunga un semplice biglietto, pronto per essere messo in una busta assieme all’orologio. L’indirizzo lo conosceva.
Le tue ansie sono le mie, i tuoi sogni sono i miei. Coltivali, non lasciarli appassire, non per gli altri ma per te stessa. Non avere paura delle parole. Anch’io scrivo storie, che non mi lasciano in pace fino a quando non ho messo la loro parola fine. Fallo anche tu, non lasciare indietro, non abbandonarle. Falle vivere.”
In una paginetta di parole ordinate Arianna sente la sua vita degli ultimi mesi: si allaccia l’orologio, ripone il biglietto nella borsa. Ha un nodo in gola, che vorrebbe sciogliere ma non è il momento e non in quella stanza, dove tutto era giusto fosse per Manuele.
Manuele l’accompagna fino alla strada, un abbraccio e una stretta di mano: arrivederci, alla prossima riunione di condominio.
Arianna sa che dal quel momento si sarebbe offerta volontaria per quello strazio di impegno, senza fatica e che forse un quarto d’ora di sofferenza automobilistica, assieme ad Andrea, sarebbe stato un prezzo davvero irrisorio da pagare per quella che sentiva sarebbe stata una bella amicizia.
“Devo ricordarmi di comprare i croccantini per quel cane!”

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Messaggio Da Petunia Mer Set 22, 2021 11:11 am

Ciao  @Susanna. Un testo dallo stile brillante e ironico ma con un sottotesto che mi ha colpita. 
La storia di un amore extraconiugale di cui l’orologio diventa un simbolo potente. 
È stato amore vero? È il “memento” per non cascare di nuovo in una situazione che potrebbe scardinare la vita della protagonista? È la ricerca della passi9ne perduta? È un simbolo di libertà? 
Pensa quante domande mi sono scaturite dalla lettura.
Il finale fa virare il racconto verso il paranormale, ma il fatto che dietro a tanta leggerezza ci sia un messaggio più complesso mi resta.
Brava.
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Messaggio Da Susanna Mer Set 22, 2021 6:10 pm

Petunia ha scritto:Ciao  @Susanna. Un testo dallo stile brillante e ironico ma con un sottotesto che mi ha colpita. 
La storia di un amore extraconiugale di cui l’orologio diventa un simbolo potente. 
È stato amore vero? È il “memento” per non cascare di nuovo in una situazione che potrebbe scardinare la vita della protagonista? È la ricerca della passi9ne perduta? È un simbolo di libertà? 
Pensa quante domande mi sono scaturite dalla lettura.
Il finale fa virare il racconto verso il paranormale, ma il fatto che dietro a tanta leggerezza ci sia un messaggio più complesso mi resta.
Brava.
Grazie @Petunia per il tempo dedicato alla lettura.
La tua chiave di lettura è corretta: un orologio, una rosa nascosta in un libro, ma anche semplicemente un ricordo che si riesce a non far sbiadire ma deve rimanere, un avvertimento per evitare di soffrire nuovamente o di far soffrire le persone che ami.
La vita è fatta anche di momenti "particolari", decidere di viverli o non viverli può essere complicato. Ogni scelta avrà il suo prezzo da pagare. La protagonista di scelte ne ha fatte due e le vive intensamente entrambe: quale delle due sia la meno sbagliata o la più giusta... ognuno può interpretare. Comunque sia, c'è sempre un prezzo da pagare.

In questo racconto entra ancora una volta un personaggio di Emanuele, che mi è caro, già protagonista di un altro racconto "Ricordi persi nel tempo".

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