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Messaggio Da Petunia Mar Set 07, 2021 9:32 am

Buon compleanno 
  Non avrei mai creduto di poter trovare la mia strada in una sera anonima, al cinema, con degli amici. 
  Prima della proiezione del film è stato proposto un filmato di propaganda dell’esercito che illustrava l’operazione “Ripuliamo Enewetak”. Chilometri di spiagge piene di detriti e di sporcizia di ogni tipo, residui bellici e strutture devastate dagli esperimenti atomici mi sono passate davanti agli occhi e non sono riuscito per un solo istante a distaccarmi dalle immagini. 
Mi hanno colpito in particolare i pontili sghimbesci, con le assi spezzate e marce. Sono figlio di un falegname che lavora in una delle segherie di Portland e di certe cose me ne intendo. Certo, non come vorrebbe mio padre. Se fosse per lui dovrei già marcire come quei pontili e respirare segatura dalla mattina alla sera per guadagnarmi il pane. Vita di merda, la sua. E non posso contare neppure nell’appoggio di mia madre. Mio padre la tratta come una serva, non sembra più neppure una donna. 
  Ci ho provato a fuggire, ma ero troppo piccolo all’epoca e mi hanno subito riportato a casa senza tanti complimenti.  Adesso è arrivato il momento di agire. Mio padre dovrà farsene una ragione. Lo zio Sam viene prima di lui, prima della maledetta segheria. 
  Ecco cosa farò. Mi arruolerò e farò un bel viaggetto per ripulire il paradiso tropicale. Il prossimo inverno niente freddo e nevicate, ma sole, caldo e isole del Pacifico. Festeggerò il ventesimo compleanno nel luogo più incredibile sulla faccia della terra. Tanti saluti a tutti e una bella cartolina.
  Mia madre mi guarda con occhi gonfi e arrossati e con un filo di voce mi porge un vasetto di crema solare:
«Tim, mettila in valigia. Con la pelle così chiara ti dovrai proteggere. Non sei abituato a stare al sole.»
«Stai tranquilla, mamma.» 
  Appena ho potuto l’ho gettata nel primo cestino per l’immondizia: non voglio farmi prendere per il culo da un intero esercito.
A pensarci adesso, però, non è stata un’idea grandiosa. La mia pelle chiara è già tutta arrossata e ancora non siamo scesi dalla nave.
  Il viaggio è stato interminabile, ma ora ho gli occhi pieni di paradiso. Non ho mai visto prima colori tanto meravigliosi. Il mare e il cielo si fondono e, se alzo lo sguardo, mi sembra di galleggiare sospeso a mezz’aria. Starei ore a fissare l’orizzonte.
«Tim, muoviti! Non hai sentito che c’è il briefing?»
  Nel gruppo siamo cinquanta, ma Mike riesce sempre a scovarmi. Anche lui, come me, viene dal Maine e anche per questo è stato facile fare amicizia. Suo padre possiede un’officina meccanica e lo ha lasciato partire malvolentieri. Neppure i suoi hanno approvato la sua decisione di arruolarsi. Non capiscono che non siamo partiti per fare la guerra.
 
  Non ci hanno detto molto sulla missione, so soltanto che abbiamo il compito di rendere la zona di nuovo abitabile e ripulirla a dovere.  
Siamo in tanti e ci sono molti mezzi impegnati. Pulire il paradiso deve costare una montagna di dollari. 
  L’esercito ci ha fornito divise leggere: pantaloni corti, camicie a mezze maniche e cappelli a tesa larga per ripararci dal sole. 
Mike e io siamo nel terzo gruppo dell’ottantaquattresimo battaglione.
  Il sergente maggiore Ford ci mostra l’abbigliamento speciale e come indossarlo correttamente:
«Qualsiasi lavoro, su isole che hanno una certa radioattività residua, viene attentamente monitorato e vengono utilizzate tute protettive e respiratori.»
«Ci sono ancora radiazioni?» Qualcuno è sbiancato alla vista di quegli indumenti.
«Le tute servono solo per fare qualche filmato e delle foto per gli esaltati della stampa. La maggior parte delle attività di pulizia è su isole prive di detriti radioattivi. L’area è quasi del tutto bonificata e non ci sono pericoli.» Il comandante ha la risposta pronta. Meglio così. È un clima talmente caldo e umido che con quella roba addosso potremmo liquefarci o morire per un colpo di calore. Altro che radiazioni.
  Ad attenderci sulla riva c’è una troupe cinematografica militare. Sembriamo le comparse sfigate del film Alien. Ci mettiamo in posa per una foto di gruppo e, appena finito, ci togliamo questa merda di dosso. Altri ragazzi si sono già tolti persino le camicie e stanno a torso nudo. Anche Mike. Forse dovrei spogliarmi anch’io.
  Il nostro accampamento copre una buona metà dell’area dell’atollo. Le costruzioni sono in legno e dentro ospitano le camerate e gli sgabuzzini per l’attrezzatura necessaria agli scavi.
«Mike, che ne dici se stasera dormiamo sulla spiaggia? Voglio coprirmi con una fottuta trapunta di stelle!»
«Tim, dimmi ancora una cazzata del genere e ti tolgo il saluto!»
C’è appena il tempo di prendere visione delle nostre brande: dobbiamo di nuovo imbarcarci per raggiungere l’atollo Runit.
  Nel giro di qualche ora ci troviamo a camminare sulla sabbia bianca in pantaloncini corti, stivali di gomma e maschera da imbianchino.
Andiamo alla ricerca di frammenti di metallo delle navi esplose, detriti, roba della seconda guerra mondiale, elmetti giapponesi arrugginiti. Tutta questa immondizia verrà sepolta nel cemento all’interno di un cratere che si è generato durante un’esplosione nucleare.
  Scaviamo il terreno pochi centimetri alla volta, fino a quando i contatori geiger non smettono di ticchettare. A volte raccogliamo i rottami e li spruzziamo di vernice rossa per indicare che si tratta di un oggetto “caldo”, potenzialmente radioattivo.
  Quel paradiso appare bianco e profumato come polvere di borotalco per neonati, ma appena si scava un po’ sotto la superficie mostra un volto deturpato come una vecchia attrice di teatro sotto uno spesso strato di cerone. Da ogni parte spuntano carcasse di animali, carapaci di tartarughe, o di qualche bestia che non saprei riconoscere. Non riesco a credere a ciò che vedo.
  I camion viaggiano avanti e indietro per caricare e scaricare i detriti dentro al cratere. La polvere impalpabile si alza ovunque e la puzza di gasolio impregna l’aria. 
«Con questa maschera non riesco a respirare. È zuppa di sudore.» Mike dà di matto dopo poche ore. 
«Faresti meglio a tenerla. Io faccio dei piccoli respiri di tanto in tanto.»
Le mie buone intenzioni vanno subito a farsi fottere. Dopo poco getto anche la mia insieme al resto dei rifiuti. 
***                                               
  Oggi abbiamo dovuto toglierci i guanti per rimuovere un pezzo di non so che cosa che si era conficcato così in profondità che con la vanga non riuscivamo a estrarlo. Mike si è tagliato. Il contatore geiger è impazzito.
Tictictictictictictitrrrrtictictrrrtic…
  Ho chiesto al sergente se fosse pericoloso toccare quel materiale a mani nude. Prima di rispondermi ha inarcato il sopracciglio destro, mi è sembrato infastidito dalla domanda:
«Sono solo raggi gamma, non ti faranno male. Ti passeranno attraverso e non sentirai niente.» Ford è in missione qui da un paio di anni, non può averci detto una cazzata.
Vorrei potermi fidare di lui, ma a volte mi sento per il culo.
  Da quel poco che ci hanno spiegato durante l’addestramento, ho capito che le radiazioni sono davvero pericolose e bisognerebbe evitare al massimo di averci a che fare. Per questo ci hanno ci hanno fornito di badge che dovrebbero cambiare colore quando ci avviciniamo a una zona a rischio contaminazione. È del tutto inutile tenerli addosso, si appiccicano alla pelle sudata e non funzionano. Forse credono che sia sufficiente per mettersi la coscienza a posto.
  La sera, quando rientriamo alla base, la prima cosa che facciamo è toglierci gli stivali e andare sulla riva a svuotarli dal sudore.
Mi specchio nell’acqua cristallina: ho delle occhiaie così profonde che mi faccio schifo.  
Sembriamo invecchiati di colpo. Cerco un po’ di refrigerio sciacquandomi il viso e i piedi, pieni di vesciche, con l’acqua di mare. 
«Mike, che cazzo fai? Torna indietro!»
Ci hanno vietato di fare il bagno, sembra che l’acqua sia più contaminata della spiaggia, ma Mike non riesce a resistere. 
‘Fanculo. Lo imito anch’io.
  Lavoriamo dalle dieci alle dodici ore al giorno sotto il sole del Sud Pacifico, sei giorni alla settimana. Siamo qui da soltanto tre mesi e c’è già qualche branda vuota.
«Mike, che fine ha fatto Trevis? È da due giorni che non lo vedo.»
«Che ne so. Io mi faccio gli affari miei.»
Lo odio quando mi tratta da deficiente. Sembra sempre che voglia nascondermi qualcosa.
  Per fortuna che ci sono buone riserve di alcol. Stasera è sabato e si fa festa. Mike si unisce al gruppo che va a calpestare i topi nella discarica dell’isola. Si comporta proprio come un selvaggio, ma penso gli faccia bene distrarsi. Mi è sembrato preoccupato in questi ultimi tempi. Quanto a me preferisco approfittare della confusione per andare a sdraiarmi sulla spiaggia.
  Il silenzio è rotto solo dagli schiamazzi dei compagni. Mi allontano. I piedi affondano nel velluto fresco della sabbia. Le palme ondeggiano mollemente sotto le carezze del vento.
Forse ho bevuto un po’ troppo, ho voglia di vomitare.
Mi inginocchio sulla riva e una fitta alla testa mi scardina i pensieri. Mi sdraio e mi lascio massaggiare le tempie dalla risacca.
«Tim, alzati. Ti fa male restare qui.»
«Mike, non rompermi i coglioni.»
«Non mi chiamo Mike, il mio nome è Tanui.»
Faccio una gran fatica a voltarmi verso la voce che rimbomba nella scatola cranica.
Devo stropicciarmi gli occhi. Una folata di vento li fa lacrimare e tutto è sfuocato come se il tergicristallo non riuscisse a spazzare via la pioggia battente sul parabrezza.
La spiaggia sembra vuota, illuminata solo da un pugno di stelle. Di nuovo sento la voce.
È un suono strano, quasi provenga dalle profondità della Terra. Tendo l’orecchio.
«Tim, devi scappare via da questa isola.»
Sarà perché ho lo stomaco al posto delle orecchie, ma decido di stare al gioco. Magari qualche nativo clandestino vuole spaventarmi. Nonostante l’esercito abbia vietato loro di venire qui, alcuni arrivano di notte per curiosare. Non vedo barche nei paraggi, però.
«Tanui, non ti farò del male. Fatti vedere!»
«Non posso uscire fuori. È troppo pericoloso.»
«Ma io non lo dirò a nessuno. Fidati di me!»
«Se vuoi conoscermi, vai a prendere la pala e scava qui sotto.»
Individuo un pezzetto di legno e lo conficco nella sabbia. Un grido sgraziato mi fa sobbalzare: «Così mi fai male!»
Mi alzo di scatto, ma la testa mi gira e procedo barcollando. Non riesco a capire cosa stia accadendo.
Mi faccio coraggio e raggiungo l’accampamento. I ragazzi stanno ancora gozzovigliando. Vado nello sgabuzzino e prendo la prima pala che mi capita a tiro. Il mio sabato sera sta prendendo una piega interessante.
Ho il fiato grosso quando raggiungo la riva. Il paletto è esattamente dove l’ho piantato. Non l’ho sognato. È già qualcosa di positivo.
Mi siedo e cerco di sintonizzare il respiro col moto delle onde.
«Sei tornato! Non ci speravo più.»
«Che devo fare con questa?»
«Quello che fai tutto il giorno. Scava! Ma stai attento a non ferirmi.»
  Comincio a spalare con delicatezza e la voce si fa sempre più chiara fino a quando non vedo sbucare la testa piumata e il becco adunco di una berta. È in questo preciso momento che mi rendo conto che, a parte schifosissimi topi, non ho visto altri animali sull’isola. Né sentito il canto delle berte.
«Alla fine, sei riuscito a trovarmi! Sono davvero contenta.»
Mi sento mancare, come se stessi cascando all’indietro. Mi siedo, chiudo gli occhi e appoggio la mano sulla fronte. Quando li riapro, l’animale è ancora lì che mi osserva in silenzio.
«Sei proprio tu, Tanui? Che ci fai qui sotto?»
«Aspettavo il tuo arrivo.»
«Puoi uscire adesso.»
«No, io resto qui.»
«Perché hai così tanta paura? Ti ho detto che con me puoi stare tranquilla.»
«Non sei tu a mettermi in pericolo.»
«Cosa posso fare per te?»
«Devi portare in salvo il mio uovo. Qui non potrà mai dischiudersi, c’è troppo veleno.»
«Che ne sai di queste cose? Ormai non ci sono più zone contaminate. Abbiamo ripulito le spiagge e presto sigilleremo tutto quanto sotto una immensa cupola di cemento. Sarà come se non fosse mai accaduto niente.»
«Niente, dici? Sei certo di sapere cosa è successo da queste parti?»
«Esperimenti. Proprio per poter capire come evitare i danni dei disastri nucleari.»
«Interessante il tuo punto di vista… Provocare catastrofi per difendersi da possibili catastrofi.»
«In fondo, questa parte del pianeta è quasi disabitata.»
«Non ti credevo così cieco. Hai parlato con la gente che viveva qui?»
«Il governo ha fatto evacuare gli abitanti proprio per proteggerli e presto riavranno le loro terre più belle e pulite che mai.»
«Per certi veleni non ci sono antidoti. Dovresti saperne qualcosa anche tu. Guarda come ti hanno ridotto.»
Sono confuso. Comincio a pensare che Tanui sia molto più saggia di me. Possibile che ci abbiano fregati tutti quanti? 
«Dimmi Tim, quante tartarughe marine hai visto da queste parti?»
«Solo qualche carcassa, in realtà.»
«E non ti sei chiesto perché? Questa era la spiaggia dove venivano a deporre le uova. Guardati intorno. È un deserto.»
«Forse hanno scelto un altro luogo.»
«Una di loro, Naari, era mia amica. L’ho vista deporre le uova e arrancare, smarrita sotto il sole, verso l’interno dell’isola. Ho cercato di dirle che il mare era dall’altra parte, ma lei non mi ha creduta; ormai aveva perso del tutto l’orientamento. Ha cominciato a nuotare sopra la sabbia rovente. I movimenti sempre più lenti, fino a reclinare la testa e addormentarsi per sempre.»
«E i suoi piccoli?»
«Non sono mai nati… le uova erano sterili. Come è capitato anche a tanti uccelli. Giorni e giorni a covare dei gusci vuoti.»
«Davvero?»
«Proprio così. Da quando c’è stata la grande luce, non abbiamo più avuto una terra sicura dove andare a fare il nido. Molti sono morti. Alcune specie si sono estinte.»
«E tu come hai fatto a sopravvivere?»
«Restando nascosta dentro al mio buco nella sabbia. Ce ne sono altre come me… anche se tante non sono più riuscite a uscire vive. Pensi di potermi aiutare?»
  Nel buio sento le mie labbra tremare mentre con lo sguardo cerco qualunque appiglio che mi faccia tornare in me.
«Per prima cosa dovresti uscire dal nascondiglio.»
«Sono terrorizzata. Non voglio vedere la luce.»
Una scossa mi attraversa il cervello e va dritta allo stomaco. Chiudo gli occhi: inspiro, espiro. Il cuore danza al ritmo di una rumba. Ho le labbra riarse e salate.
  Riprendo il controllo. Lo sguardo puro e dritto dell’animale lacera i miei dubbi. Sento che ci assomigliamo, in qualche modo. 
«Tanui, porterò al sicuro te e il tuo uovo. So dove andare, ma devi fidarti di me.»
  Mi tolgo la camicia, la distendo sulla sabbia e invito l’uccello salirci sopra. Tanui sembra capire le mie intenzioni e si fa catturare senza opporre resistenza. La copro con un lembo di stoffa e mi metto a cercare sotto la sabbia. Sto grondando di sudore. Cerco di scavare con delicatezza finché lo vedo. Con la mano a conca raccolgo l’uovo e lo appoggio con grande cura accanto alla madre. Non ci giurerei, perché è troppo buio, ma mi pare di veder scintillare una lacrima negli occhi di Tanui. Non pensavo che gli uccelli potessero emozionarsi. Infine, chiudo il prezioso fagotto con un bel nodo.
  Trascino le gambe come uno zombie, mi pare di camminare affondando in un metro di neve. Quando raggiungo l’accampamento è quasi l’alba.
  La porta della rimessa si apre con un leggero cigolio. È incredibile come certi rumori si amplifichino nel silenzio.
Jack il rosso ha il sonno leggero e viene a vedere che succede.
«Che cazzo fai? Oggi è domenica e non si spala, coglione!»
«Devo pisciare. Oppure devo fartela negli stivali?»
«Che fai, pisci nello stanzino degli attrezzi? Hai paura che ti vedano l’uccellino?»
«'Fanculo, magari è proprio così!»
Borbotta qualche volgarità e, per fortuna, torna a dormire.
  Trattengo il respiro. Slego il nodo con cautela. Tanui ha la testa nascosta sotto l’ala. L’uovo appare in buone condizioni. L’angolo in fondo a sinistra del ripostiglio è libero dagli attrezzi. Mi sembra il posto ideale. Per non fare rumore mi metto a scavare con le mani fino a spezzarmi le unghie. 
  Non servirà una buca tanto profonda, per il momento. Tanui, rassicurata dal buio dello stanzino, mi osserva senza dire una parola e riesco persino a percepire la gratitudine nel suo sguardo.
«Ecco fatto. Per il momento vi sistemerò qui dentro; domani cercherò il modo di portarvi via da questa isola. Te lo prometto: il tuo piccolo nascerà.» Le accarezzo le piume e ricopro la tana improvvisata.
Sono esausto. Devo andare a riposarmi. Riesco a malapena a buttarmi nella branda.
  Mi sveglio sprofondato in un lago di sudore e di vomito.
Qualcosa mi sta trapanando il cervello. Il sergente Ford strilla come un’aquila.
«Quanto hai bevuto, stronzo?»
Faccio fatica a deglutire, ho le labbra incollate e la gola in fiamme. Riesco a malapena a sollevare tre dita per rispondere.
«Tre bottiglie? Figlio di puttana, hai fatto un gran casino.»
Inutile cercare di spiegarmi. Non riesco neppure ad alzare la testa dal cuscino.
Devo aver perso i sensi.
Adesso sento solo il ticchettio frenetico del contatore geiger con il quale mi stanno controllando. 
La voce asettica del medico suona come una sentenza. Indossa una tuta e un respiratore.
«Dobbiamo congedarlo subito.» 
«Ho già chiamato i soccorsi. L’elicottero sarà qui entro le diciotto.» Non riesco a capire chi si nasconda sotto quella maschera. Non mi pare nessuno di familiare.
«Vorrei almeno salutare Mike prima di partire.»
La mia voce è appena percettibile, ma ora sembrano tutti gentili con me.
«Non è proprio possibile, ci spiace.»
«Devo parlare subito con lui. Mike, Michael Smith, credo.»
La testa del medico, chiusa nella maschera, oscilla in segno di diniego.
«Tanui deve partire insieme a me!»
Un assistente mi tiene ferme le mani. Quella porcheria che mi stanno iniettando comincia a fare effetto. Mi sento intorpidito.
«Non agitarti, cerca di respirare e stare tranquillo. Stiamo facendo il possibile per farti tornare a casa presto.»
«Ma io ho promesso di proteggere il suo uovo!»
  So riconoscere gli sguardi di commiserazione. Credono che io stia dando i numeri e forse è così. Forse Tanui esiste solo nel mio cervello contaminato.
  Chissà che avrà pensato Mike quando ha visto la mia branda vuota. Non si sarà fatto troppe domande, lo conosco. Vorrei che tornasse a casa insieme a me, non deve restare a morire quaggiù.
 
***
                                          
  Oggi è il venti maggio del 1980 e non è così che immaginavo di festeggiare il mio ventesimo compleanno: disteso sul letto di un ospedale, con le braccia piene di cannule e aghi. L’unica cosa buona sono le infermiere, soprattutto Patricia. Ma dubito che riuscirei a farla felice, al momento. 
  Almeno io posso festeggiare. Mike non so. Di lui non ho più avuto notizie.
 Calmo. Devo restare calmo. Mi mordo le labbra fino farle sanguinare e stringo forte le lenzuola. Deglutisco il dolore con un mezzo sorriso e chiedo a Patricia di leggermi il giornale. Lei si schiarisce la voce e scompare dietro alla pagina:
“La grande cupola Cactus” situata a livello del mare, col proprio diametro di centoquindici metri e una superficie di nove chilometri, è stata ultimata. Trecentocinquantotto blocchi di cemento, spessi quasi mezzo metro, ricoprono le scorie radioattive prodotte durante gli esperimenti nucleari sullatollo di Enewetak negli anni tra il 1946 e il 1962.”
  Sento salire il rossore sulle guance, mi sento come un cadavere con le guance imbellettate. Sembra che, una volta colorata, la morte faccia meno paura. Guance rosse di salute: un inganno. Proprio come quello che hanno fatto a noi. Proprio come la spiaggia bianca e il mare di cristallo che fanno bella mostra di sé nei poster delle agenzie di viaggio.
Ci sono cascato. Siamo stati in tanti a farlo. Troppi.
Vigliacchi. 
«Ottimo lavoro, soldato Timothy Miller!» Patricia cerca il mio sorriso.
  La guardo di traverso. Me ne pento subito e provo a stiracchiare le labbra. Lei non c’entra in questa storia.
Delusa, mi accarezza la fronte come se mi leggesse nei pensieri. 
Lei non ha colpe. 
«Io ho contribuito poco però…» rispondo con un sussurro. 
Senza convinzione.
Io ho dato tutto per questa causa, in realtà. Anche Mike e gli altri. 
«Su, su! Niente commiserazione oggi.» 
Sta per ripiegare la pagina quando la vedo illuminarsi: «Nooo, ma questo è incredibile! Senti qua…»
Attende che la guardi e ricomincia a leggere.
“Nellaccampamento che ospita lottantaquattresimo battaglione, una berta ha fatto il proprio nido nel ripostiglio degli attrezzi. La piccolina è diventata la mascotte della compagnia. Un segno tangibile che la vita, messa a dura prova da tanti anni di esperimenti atomici, può ricominciare.”
  Sento scorrere le lacrime e non riesco a smettere di singhiozzare. 
Patricia mi guarda dispiaciuta, non comprende la mia reazione.
Anche se lei non può saperlo, questo è il più bel regalo di compleanno che potessi ricevere.
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Messaggio Da Arianna 2016 Ven Set 17, 2021 12:25 am

Ecco qui un altro tuo racconto di un filone che ti interessa, come quello sulle ragazze della vernice radioattiva. Trovo sempre interessante il tuo scovare cose di questo genere.
Veniamo al racconto di per sé. Ti ricordo che le mie considerazioni sono strettamente legate al mio gusto personale: i tuoi racconti piacciono, e le osservazioni che ti posso fare io lasciano il tempo che trovano.
Trovo la prima parte - fino alla partenza di Tim - faticosa. Mi sembra che le frasi vadano alleggerite, sfoltite, rese più snelle.
La scrittura si scioglie progressivamente nei paragrafi che seguono. 
Il dialogo con Tanui suona troppo didascalico: troppe spiegazioni date per il lettore, che fanno perdere tensione ed emotività. Non so bene come tu possa dare in altro modo le informazioni, però così mi fanno perdere atmosfera.
Se posso essere sincera, non mi è piaciuta anche questa mescolanza tra realtà e fantasia, trasforma il racconto - almeno la parte del dialogo - in un apologo morale. Per mio gusto personale, mi sarebbe piaciuto di più mantenere tutto sul piano realistico, mostrando sì il ritrovamento della berta ma senza la parte dell'animale parlante, realizzando in modo diverso il percorso di presa di consapevolezza da parte di Tim.
La forma è corretta, anche se a tratti un po' faticosa. Toglierei alcune parole:
"Con la mano a conca raccolgo l’uovo"= raccolgo l'uovo (con le mani a conca è un dettaglio che appesantisce, tanto subito dopo dici "con delicatezza")
"Trascino le gambe come uno zombie"= trascino le gambe
"col proprio diametro"= col diametro

Ne hai invece dimenticate un paio qui:
mi sento per il culo= mi sento preso per il culo
invito l’uccello salirci= invito l'uccello a salirci

Modificherei questa frase:
"Per fortuna che ci sono"= "fortuna che ci sono" oppure "per fortuna ci sono"
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Messaggio Da Petunia Ven Set 17, 2021 6:57 am

Ciao  @Arianna 2016 e un grazie di cuore per la lettura e i suggerimenti. 
Ho lavorato parecchio su questo racconto ma ancora non è a punto. La parte iniziale è quella che mi ha dato più da pensare. Forse in una prossima versione per so di rimuoverla e far partire la storia quando Tim è già arrivato o giusto poco prima tralasciando le sue origini (magari che ne pensi se inserissi qualche flash back mentre lavora ed è affaticato?) 
Per quanto riguarda l’animale parlante, era uno dei paletti richiesti e anche nella rielaborazione post step l’ho mantenuto. La mia intenzione era quella di lasciare al lettore l’interpretazione (l’animale parla davvero o è la presa di coscienza di Tim?) ma anche in questo caso non sono riuscita perfettamente nell’intento. Taglia, cuci e rammenda chissà se riuscirò a farne qualcosa di meglio.
Grazie ancora dell’aiuto. 💖
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