Guerre e tempeste
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Guerre e tempeste
Questo è un raccontino che ormai ha sette anni. Lo scelgo perché ci sono particolarmente affezionato, magari non è tra i miei migliori, ma ha tracciato una linea di confine, mi ha fatto capire di me tante cose. È acerbo, ma è fresco: quello che volevo scrivere l'ho scritto e l'ho scritto come volevo scriverlo.
Guerre e tempeste
1.
Caterina arriva al molo vestita da pace.
Insomma, non sembra certo una che dovrà affrontare una guerra. Che poi - alla fine - sono solo io quello che pensa che questo viaggio sarà una battaglia, lei no, lei punta all’armistizio, ci ha sempre tenuto ai pareggi, è innamorata degli zero a zero. La pace è uno zero a zero. E lei è vestita da pace: maglietta comoda senza maniche, bianca, gonna svolazzante azzurro slavato, cappellino di paglia calcato in testa in tinta con le scarpe indaco.
Io l’ho preceduta di qualche ora per controllare la barca, vedere i documenti con l’agenzia, per le formalità, insomma. Lei è rimasta in albergo, è riposata, con una bella luce negli occhi.
Ha nel viso qualcosa di infantile: è il sorriso con quelle fossette appena accennate, forse, o gli occhi a mandorla. Oppure è solo una mia impressione, o una speranza, questo vederla bambina. Per poterla coccolare e accudire, per esserle indispensabile.
La saluto, mi raggiunge sulla passerella traballante, mi bacia su una guancia. C’è stato un periodo, non tanto tempo fa, in cui mi avrebbe abbracciato e baciato sulle labbra e avrei dovuto pregarla per lasciarmi respirare. C’è stato, ora non c’è più, e tant’è che siamo qua.
«Ti piacerà» dice. Poi s'allontana.
Sulla barca ci aspetta André, il gigante per un terzo francese, un terzo indio e un terzo non lo sa neppure lui, che ci ha affibbiato l’agenzia per portarci in giro. È sempre zitto, ha la pelle dorata. Gli occhi come il mare dei caraibi, che non è azzurro, non è acqua, è semplicemente una pellicola trasparente.
Cate lo prende in disparte, gli mostra alcune carte dei fondali al largo di Tobago, gli parla in inglese, mi esclude, non me la prendo. Cioè, me la prendo ma non lo do a vedere. Sarà la mia tattica per tutto il viaggio. André mi spia da sotto le carte e sorride con degli odiosi denti bianchissimi.
Mi sistemo in un divanetto in similpelle, con le gambe distese e gli occhiali da sole sulla punta del naso.
Tira un vento da nord che gonfia la vela biancablu. Ha un suono strano questa brezza straniera, parla invece di soffiare, con parole che rotolano e non mi piacciono.
André mi passa di fianco, armeggia con alcune pulegge o come si chiamano, qualche mulinello, tira due corde, la vela prende il vento e si gonfia. Cate non la vedo, starà sistemando le attrezzature, le fotocamere, i taccuini, le penne, i grafici. Quando mi esclude così mi fa morire - mi fa morire. Ma non lo do a vedere.
Tattica, ragazzi, ci vuole strategia per vincere certe guerre. Contraggo solo i muscoli della mascella. André mi spia dal timone, sorride.
Le nuvole all’orizzonte sono spumose e bianche, compatte come schiuma per radersi. C’è solo mare e aria di mare, onde lunghe e sale e vento. Fa un rumore strano, questo vento. Un rumore che non fa il vento in Italia. Stride. Sibila. Fa paura. Ma André pare tranquillo, ha sempre quel sorrisetto stampato del cazzo.
Anzi, adesso si avvicina e viene a sedersi vicino a me, sul divanetto. Gli faccio spazio, mi stringo.
«Vedi, André, posso chiamarti André? Bene, vedi, ti dicevo… ti chiederai perché ci sia anch’io qua con voi, con la dottoressa e te, visto che non faccio niente, non so fare niente e chissà cosa avrai pensato visto che continui a sorridere per prendermi per il culo. Allora, devi sapere, che io e quella adorabile signora che ora è diosolosadove, siamo fidanzati, amanti, compagni, mettila come vuoi. Ma attraversiamo un momento, diciamo, un momento di crisi. Passeggera s’intende. Cosa ti credi, ti ho visto come la guardi… Allora, lei è qua, a Tobago, fa un lavoro che le piace, che a dire la verità mi ha sempre fatto fare la parte di quello sfigato… insomma, lei gira documentari. E fai bene a fare quella faccia, bello mio, è un lavoro con le contropalle. La mia signora è biologa, mica cazzi. È qui per fare dei sopralluoghi, poi ne parlerà coi colleghi, è in avanscoperta. Ma tu non lo senti questo vento, André? No? Mi sta perforando le orecchie… Va be’… ora, vedi, amico mio, posso chiamarti amico? Ora, dicevo, io non l’ho mai accompagnata, un po’ ero geloso, un po’ invidioso, che ne so, fisime da maschi, le avrai anche tu, sai, roba tipo essere il capobranco e minchiate simili. Lei ci viaggiava, con questi miei rifiuti, non è che abbia mai insistito per accompagnarla, ecco… per farla breve questo viaggio ci serve per riavvicinarci, perché in fondo ci vogliamo ancora bene… non farmi fare il sentimentale, tanto hai capito dove voglio arrivare: smetti di sorridere e di guardarle il culo.
André sorride.
«I dont’speak italian» dice. E torna al timone.
2.
Faccio un giro della barca, sono trenta passi esatti. Il vento tra i capelli, il sole sulla fronte, le mani in tasca, l’aria da capitan Findus. Oramai attorno a noi è solo il mare, non si vede altro. La linea curva dell’orizzonte cobalto, le nuvole che la incorniciano.
Scendo nella cuccetta, Cate è seduta con gli occhi all’oblò, il naso a sfiorare il vetro, persa anche lei nell’oceano.
«Allora» dico.
«Allora.»
«Tutto bene?»
«Una meraviglia.»
Si volta con grazia; uno che non la conosce direbbe senza voglia, ma io so che non è così. Fa le cose senza strafare, senza forzare, anche i piccoli gesti quotidiani. All’inizio del nostro rapporto mi piaceva questa calma perpetua, riequilibrava il mio essere sempre sopra le righe, sempre al di là. Ora invece - delle volte - mi indispone.
«Siamo quasi arrivati, ancora qualche ora di pazienza. Vedrai il posto è straordinario.»
«Non ne dubito.»
Si piega sulle carte che ha sul tavolino, percorre una linea con la punta del medio, una linea contorta che divide in due la mappa.
«Simpatico André» butto là.
Nessuna reazione.
«Dici? A me non sembra particolarmente loquace.»
«Ti guarda troppo, se continua lo strozzo con una cima o come cavolo si chiamano.»
«Sei geloso?»
«Anche fosse?»
«Ma non riesci mai a rilassarti tu? Vedi sempre cose che non esistono?»
Ecco, lo sapevo che era una guerra. I vestiti da pace erano un depistaggio. Si sta per scatenare la tempesta, le bruciano gli occhi. Fa sempre così, mi accusa e sono accuse su accuse, un’escalation. Ultimamente se n’è uscita con questa storia che sono troppo paranoico. Ora non sono libero neppure di sentirla mia? Che male c’è se sono geloso? Che poi - alla fine - è insicurezza la mia, me ne accorgo benissimo da solo. Mi sento così piccolo e inutile… ma lei no, è fissata con lo stereotipo di maschio italiano possessivo e padrone. E giù con il femminismo: indipendenza di qua, libertà di là.
Stavolta però sono io a cercare il pareggio. Alzo le mani, mi arrendo. E la tempesta si placa, gli occhi le si spengono.
«Ce l’avevo con lui, non con te.»
«Voglio sperare.»
«Torno su, quando hai finito con le cose là, le carte, raggiungimi.»
«Agli ordini.»
Il tono piatto, ecco un’altra cosa che mi manda in bestia. Non capisco mai se mi sta prendendo in giro o no. Agli ordini di che? Ma lascio stare, è la mia tattica, stavolta la prendo alla larga. La vinco io la guerra, in trincea.
Mi rimetto a sedere sul divanetto, il vento tra i capelli, il sale tra le dita. André fischietta il rift di “The final countdown” attaccato al timone.
Io chiudo gli occhi e comincio a mettere ordine nei pensieri. Punto primo: Cate deve capire che l’amo ancora, ma non glielo devo sbattere in faccia, troppo semplice, glielo devo far capire con mezzucci e sotterfugi. Tipo qualche gesto galante, cose così, che alle donne piacciono. Punto secondo: devo lasciar perdere André e la mia gelosia idiota. Devo farle capire che sono cambiato, che almeno ci sto provando. Punto terzo: il colpo di grazia, devo interessarmi del suo lavoro, di quello che è venuta a fare qua, dei pesci, dei fondali, che ne so. Con questo la annichilisco di sicuro.
Sorrido e riapro gli occhi.
Si è alzato il vento, la vela è gonfia, sembra incinta.
Sulle nuvole all’orizzonte pare abbiano buttato del petrolio, cominciano a girare come dei coccodrilli sulla preda, qualcuno al loro interno si sta divertendo a spegnere e ad accendere le luci. André le nota e sbianca, smette di fischiettare. Quando inizia a borbottare tra sé e sé capisco che la situazione è seria.
Ma i marinai non hanno un sesto senso per prevedere le tempeste? Gli fanno male le ossa, cazzo ne so?
Il vento aumenta ancora, scuote la vela, fa scricchiolare l’albero maestro o come si chiama. Si alzano le onde, la barca sale e scende sale e scende, quasi vomito. Barcollo verso la cuccetta.
Cate è ancora piegata sul tavolino, sembra insensibile a quello che sta per succedere.
«Andiamo via, sta arrivando una tempesta» le dico. Mi guarda senza vedermi.
«Ma non ho ancora fatto le foto» dice.
«André sta sbraitando cose che non capisco, ma dubito che voglia andare avanti.»
Poi il vento dà una botta e la barca s’impenna, André urla, io e Cate finiamo sotto al tavolo.
Ci tiriamo su a fatica, risaliamo sul ponte, abbracciati per non cadere. Il mare è scuro, è tutto cambiato nel giro di pochi minuti e siamo in mezzo all’inferno. Tra le onde cerco Andrè ma non lo vedo.
Il crepitio del fasciame, lo sbattere delle corde, il cigolare dei legni. La barca muore e noi con lei. Poi sono urla tra la schiuma e il sale. André è in acqua, sbraccia.
«Aiuto!» grida. Aiuto? Ma allora lo parli l’italiano, cazzone patentato.
Cate si è afferrata all’albero, tiene gli occhi serrati. Un salvagente viaggia sul ponte avanti e indietro al ritmo del beccheggiare scomposto della barca. Lo inseguo, lo afferro, esulto, striscio fino alla paratia, individuo i denti bianchi di André tra le onde. Gli lancio il salvagente dritto in bocca, almeno gli spacco il sorriso. Lui lo evita e lo afferra. Faccio solo in tempo a sganciare dal retro della barca un canotto di salvataggio, uno di quei cosi arancioni che si gonfiano se tiri una cordicella, e sparisce.
E poi è un’onda così grossa da sembrare infinita, la barca ci si arrampica, dovrebbe scappare e invece la scala. Sulla cima si ferma, è un istante che vorrei durasse per sempre. Alzo le mani, mi arrendo, mi va bene anche un pareggio. Invece l’onda dà uno strattone, la barca s’impenna e precipita. Nel blu.
3.
Le luci non sono luci, sono qualcosa di più, sono dentro i miei occhi, sono perforanti, sono annullanti. Apro e chiudo le palpebre, apro e chiudo, non riesco a vedere, devo avere le pupille scoppiate.
Apro: ombre che si agitano, qualcuno muove le braccia, un viso si affaccia su di me. Chiudo: è sempre lì, sovraimpresso, e la luce, cristiddio, possibile che nessuno si accorga che la luce è troppo forte.
E un sibilo nel cervello, un fischiare nelle orecchie.
Apro: l’ombra è Cate, ha sangue sulla fronte.
«Lo senti anche tu?» le chiedo.
«Cosa?»
«Il vento.»
«Il vento?»
«Questo sibilo continuo…»
«No, non sento nulla. Devi aver battuto la testa.»
«Certo che ho battuto la testa, e anche tu.»
Allungo un braccio per sfiorarla e non riesco a muovermi. Eppure ci provo. Un passo alla volta, prima le dita.
«Cate, non riesco a muovermi.»
Lei non parla, annuisce. Stanca, un movimento infinito senza parole. Poi si gira a guardarmi le gambe. Ma non ci sono gambe, c’è un grosso trave, e forse sotto ci sono pure le mie gambe - forse.
Eppure non sento dolore, non sento nulla.
«Non sento nulla.»
Lei fa ancora su e giù con la testa.
«Tieni duro» mi dice.
Sono frasi da non dire: tieni duro, non mollare, non lasciarmi. Non sono frasi da dire. Uno potrebbe pure credere che - chissà - magari stia per morire. Poi gli piglia il panico, gli piglia.
«Sto per morire?»
«Ma no, ma no. Sei solo bloccato. Ma solo le gambe, riprova a muovere le braccia.»
Ci provo, ma nulla, un dito - forse - l’anulare. Il dito più inutile della mano, eppure è lui il primo a muoversi. L’anulare. E tutti gli altri a ruota.
Cate sorride, si allontana un attimo, ritorna con una pezzuola umida, me la passa sulle labbra.
«Abbiamo poca acqua, abbiamo poco di tutto…»
Si guarda intorno, cerco di alzare la testa. Della barca è rimasto lo scheletro, qualche asse che galleggia per miracolo.
«La radio?»
«Andata. Ma l’agenzia ha la nostra posizione, ci troveranno. Tieni duro.»
E teniamo duro.
Perché alla fine non ci si può fare niente, niente di niente, solo tenere duro. Mi sarebbe piaciuto cercare un pareggio con la tempesta, ho anche provato ad arrendermi, ho alzato le mani. Ma non è andata bene.
E hai voglia tu a fare progetti su progetti, a studiare tattiche e ingelosirti e mandare segnali. La vita è così, hai tutte le carte sul tavolo e arriva una folata di vento a mandare all’aria ogni cosa. Qui le folate di vento sono state più d’una, lo devo concedere.
Eppure Cate è qua, sempre accanto a me, mi tiene la mano, mi dà conforto, mi bacia gli occhi. Ho perso il conto dei giorni e delle notti. E nelle orecchie ho sempre il vento, non accenna a smettere.
Alla deriva da giorni, ore, settimane minuti anni secondi. Solo mare e vento, vento e mare. In un pezzo di barca che di barca non ha più nulla, in un pezzo di mondo che di mondo non ha più nulla.
Solo il vento, continuo, continuo, per sempre.
Cate non lo sente, io ne sono assillato, non parlo d’altro, non sento altro. È dentro di me, è attorno a me, anch’io sono vento e onde e mare e sale.
Cate ha smesso di mangiare, ogni boccone è per me. Ha smesso di bere, ogni goccia è per quel poco che rimane di me. Lei potrebbe sopravvivere, io sono un mezzouomo, perché lo fa? Cosa sono per lei? Lo merito? La merito? Tutto il mio misero mondo e il sistema di pensiero e le scale di valori su cui è costruito si smontano, pezzo dopo pezzo, e rimango nudo e inutile di fronte a lei.
Devo salvarmi, devo lottare, non posso essere così inutile. Lo farò per lei. Hai capito, vento? Sì, sono invincibile, cosa credi? Non morirò qua sopra pazzo labbra spaccate occhi secchi pupille bruciate, con te nelle orecchie con te per sempre a seguirmi all’inferno o in paradiso o nel nulla, io vivrò e te lo dimostro!
Invece sto morendo. Niente di più, niente di meno. Stringo la mano di Cate, lei si china su di me. La divoro con gli occhi e sarebbe il momento di dire qualcosa, di lasciarle un grazie, un ricordo, di farle capire quanto è speciale e quanto io non abbia mai capito nulla di lei e del suo mondo. Allora mi agito, la tempesta stavolta è dentro di me, vorrei dire tante troppe cose che si affastellano e si sovrappongono spingono accavallano strepitano schiamazzano, si affollano sulla lingua, parole come palline del flipper, rotolano e sbattono sui denti e ne vorrei dire di cose che avrei dovuto dirle mille e milioni di volte e per orgoglio non le ho mai detto: ti amo, scusami, sono uno stronzo, restami vicino, la mano non lasciarla; vorrei svuotarmi, baciarla e farmi accarezzare per l’ultima volta, sono tante le cose che vorrei dire, così tante che s’ingorgano e sono un tappo e io… io qualcosa la devo dire…
«C’è André» urla Cate, gli occhi una diga rotta.
Scatta in piedi, mi molla la mano, indica saltellando un puntino all’orizzonte. Ruoto il collo e lo vedo anch’io. Una barca rossa e quel minchione sorridente a prua che saluta e saluta.
Cate si sdraia accanto a me, singhiozza.
«Ci hanno trovati, siamo salvi…»
Muovo le labbra, si spaccano, sento il sangue sulla lingua.
«Hai detto qualcosa?»
Ci sto provando.
«Amore mio non ti sento.»
«Hai vinto tu…»
Cate spalanca gli occhi.
«Come?»
«Hai vinto, mi arrendo.»
Guerre e tempeste
1.
Caterina arriva al molo vestita da pace.
Insomma, non sembra certo una che dovrà affrontare una guerra. Che poi - alla fine - sono solo io quello che pensa che questo viaggio sarà una battaglia, lei no, lei punta all’armistizio, ci ha sempre tenuto ai pareggi, è innamorata degli zero a zero. La pace è uno zero a zero. E lei è vestita da pace: maglietta comoda senza maniche, bianca, gonna svolazzante azzurro slavato, cappellino di paglia calcato in testa in tinta con le scarpe indaco.
Io l’ho preceduta di qualche ora per controllare la barca, vedere i documenti con l’agenzia, per le formalità, insomma. Lei è rimasta in albergo, è riposata, con una bella luce negli occhi.
Ha nel viso qualcosa di infantile: è il sorriso con quelle fossette appena accennate, forse, o gli occhi a mandorla. Oppure è solo una mia impressione, o una speranza, questo vederla bambina. Per poterla coccolare e accudire, per esserle indispensabile.
La saluto, mi raggiunge sulla passerella traballante, mi bacia su una guancia. C’è stato un periodo, non tanto tempo fa, in cui mi avrebbe abbracciato e baciato sulle labbra e avrei dovuto pregarla per lasciarmi respirare. C’è stato, ora non c’è più, e tant’è che siamo qua.
«Ti piacerà» dice. Poi s'allontana.
Sulla barca ci aspetta André, il gigante per un terzo francese, un terzo indio e un terzo non lo sa neppure lui, che ci ha affibbiato l’agenzia per portarci in giro. È sempre zitto, ha la pelle dorata. Gli occhi come il mare dei caraibi, che non è azzurro, non è acqua, è semplicemente una pellicola trasparente.
Cate lo prende in disparte, gli mostra alcune carte dei fondali al largo di Tobago, gli parla in inglese, mi esclude, non me la prendo. Cioè, me la prendo ma non lo do a vedere. Sarà la mia tattica per tutto il viaggio. André mi spia da sotto le carte e sorride con degli odiosi denti bianchissimi.
Mi sistemo in un divanetto in similpelle, con le gambe distese e gli occhiali da sole sulla punta del naso.
Tira un vento da nord che gonfia la vela biancablu. Ha un suono strano questa brezza straniera, parla invece di soffiare, con parole che rotolano e non mi piacciono.
André mi passa di fianco, armeggia con alcune pulegge o come si chiamano, qualche mulinello, tira due corde, la vela prende il vento e si gonfia. Cate non la vedo, starà sistemando le attrezzature, le fotocamere, i taccuini, le penne, i grafici. Quando mi esclude così mi fa morire - mi fa morire. Ma non lo do a vedere.
Tattica, ragazzi, ci vuole strategia per vincere certe guerre. Contraggo solo i muscoli della mascella. André mi spia dal timone, sorride.
Le nuvole all’orizzonte sono spumose e bianche, compatte come schiuma per radersi. C’è solo mare e aria di mare, onde lunghe e sale e vento. Fa un rumore strano, questo vento. Un rumore che non fa il vento in Italia. Stride. Sibila. Fa paura. Ma André pare tranquillo, ha sempre quel sorrisetto stampato del cazzo.
Anzi, adesso si avvicina e viene a sedersi vicino a me, sul divanetto. Gli faccio spazio, mi stringo.
«Vedi, André, posso chiamarti André? Bene, vedi, ti dicevo… ti chiederai perché ci sia anch’io qua con voi, con la dottoressa e te, visto che non faccio niente, non so fare niente e chissà cosa avrai pensato visto che continui a sorridere per prendermi per il culo. Allora, devi sapere, che io e quella adorabile signora che ora è diosolosadove, siamo fidanzati, amanti, compagni, mettila come vuoi. Ma attraversiamo un momento, diciamo, un momento di crisi. Passeggera s’intende. Cosa ti credi, ti ho visto come la guardi… Allora, lei è qua, a Tobago, fa un lavoro che le piace, che a dire la verità mi ha sempre fatto fare la parte di quello sfigato… insomma, lei gira documentari. E fai bene a fare quella faccia, bello mio, è un lavoro con le contropalle. La mia signora è biologa, mica cazzi. È qui per fare dei sopralluoghi, poi ne parlerà coi colleghi, è in avanscoperta. Ma tu non lo senti questo vento, André? No? Mi sta perforando le orecchie… Va be’… ora, vedi, amico mio, posso chiamarti amico? Ora, dicevo, io non l’ho mai accompagnata, un po’ ero geloso, un po’ invidioso, che ne so, fisime da maschi, le avrai anche tu, sai, roba tipo essere il capobranco e minchiate simili. Lei ci viaggiava, con questi miei rifiuti, non è che abbia mai insistito per accompagnarla, ecco… per farla breve questo viaggio ci serve per riavvicinarci, perché in fondo ci vogliamo ancora bene… non farmi fare il sentimentale, tanto hai capito dove voglio arrivare: smetti di sorridere e di guardarle il culo.
André sorride.
«I dont’speak italian» dice. E torna al timone.
2.
Faccio un giro della barca, sono trenta passi esatti. Il vento tra i capelli, il sole sulla fronte, le mani in tasca, l’aria da capitan Findus. Oramai attorno a noi è solo il mare, non si vede altro. La linea curva dell’orizzonte cobalto, le nuvole che la incorniciano.
Scendo nella cuccetta, Cate è seduta con gli occhi all’oblò, il naso a sfiorare il vetro, persa anche lei nell’oceano.
«Allora» dico.
«Allora.»
«Tutto bene?»
«Una meraviglia.»
Si volta con grazia; uno che non la conosce direbbe senza voglia, ma io so che non è così. Fa le cose senza strafare, senza forzare, anche i piccoli gesti quotidiani. All’inizio del nostro rapporto mi piaceva questa calma perpetua, riequilibrava il mio essere sempre sopra le righe, sempre al di là. Ora invece - delle volte - mi indispone.
«Siamo quasi arrivati, ancora qualche ora di pazienza. Vedrai il posto è straordinario.»
«Non ne dubito.»
Si piega sulle carte che ha sul tavolino, percorre una linea con la punta del medio, una linea contorta che divide in due la mappa.
«Simpatico André» butto là.
Nessuna reazione.
«Dici? A me non sembra particolarmente loquace.»
«Ti guarda troppo, se continua lo strozzo con una cima o come cavolo si chiamano.»
«Sei geloso?»
«Anche fosse?»
«Ma non riesci mai a rilassarti tu? Vedi sempre cose che non esistono?»
Ecco, lo sapevo che era una guerra. I vestiti da pace erano un depistaggio. Si sta per scatenare la tempesta, le bruciano gli occhi. Fa sempre così, mi accusa e sono accuse su accuse, un’escalation. Ultimamente se n’è uscita con questa storia che sono troppo paranoico. Ora non sono libero neppure di sentirla mia? Che male c’è se sono geloso? Che poi - alla fine - è insicurezza la mia, me ne accorgo benissimo da solo. Mi sento così piccolo e inutile… ma lei no, è fissata con lo stereotipo di maschio italiano possessivo e padrone. E giù con il femminismo: indipendenza di qua, libertà di là.
Stavolta però sono io a cercare il pareggio. Alzo le mani, mi arrendo. E la tempesta si placa, gli occhi le si spengono.
«Ce l’avevo con lui, non con te.»
«Voglio sperare.»
«Torno su, quando hai finito con le cose là, le carte, raggiungimi.»
«Agli ordini.»
Il tono piatto, ecco un’altra cosa che mi manda in bestia. Non capisco mai se mi sta prendendo in giro o no. Agli ordini di che? Ma lascio stare, è la mia tattica, stavolta la prendo alla larga. La vinco io la guerra, in trincea.
Mi rimetto a sedere sul divanetto, il vento tra i capelli, il sale tra le dita. André fischietta il rift di “The final countdown” attaccato al timone.
Io chiudo gli occhi e comincio a mettere ordine nei pensieri. Punto primo: Cate deve capire che l’amo ancora, ma non glielo devo sbattere in faccia, troppo semplice, glielo devo far capire con mezzucci e sotterfugi. Tipo qualche gesto galante, cose così, che alle donne piacciono. Punto secondo: devo lasciar perdere André e la mia gelosia idiota. Devo farle capire che sono cambiato, che almeno ci sto provando. Punto terzo: il colpo di grazia, devo interessarmi del suo lavoro, di quello che è venuta a fare qua, dei pesci, dei fondali, che ne so. Con questo la annichilisco di sicuro.
Sorrido e riapro gli occhi.
Si è alzato il vento, la vela è gonfia, sembra incinta.
Sulle nuvole all’orizzonte pare abbiano buttato del petrolio, cominciano a girare come dei coccodrilli sulla preda, qualcuno al loro interno si sta divertendo a spegnere e ad accendere le luci. André le nota e sbianca, smette di fischiettare. Quando inizia a borbottare tra sé e sé capisco che la situazione è seria.
Ma i marinai non hanno un sesto senso per prevedere le tempeste? Gli fanno male le ossa, cazzo ne so?
Il vento aumenta ancora, scuote la vela, fa scricchiolare l’albero maestro o come si chiama. Si alzano le onde, la barca sale e scende sale e scende, quasi vomito. Barcollo verso la cuccetta.
Cate è ancora piegata sul tavolino, sembra insensibile a quello che sta per succedere.
«Andiamo via, sta arrivando una tempesta» le dico. Mi guarda senza vedermi.
«Ma non ho ancora fatto le foto» dice.
«André sta sbraitando cose che non capisco, ma dubito che voglia andare avanti.»
Poi il vento dà una botta e la barca s’impenna, André urla, io e Cate finiamo sotto al tavolo.
Ci tiriamo su a fatica, risaliamo sul ponte, abbracciati per non cadere. Il mare è scuro, è tutto cambiato nel giro di pochi minuti e siamo in mezzo all’inferno. Tra le onde cerco Andrè ma non lo vedo.
Il crepitio del fasciame, lo sbattere delle corde, il cigolare dei legni. La barca muore e noi con lei. Poi sono urla tra la schiuma e il sale. André è in acqua, sbraccia.
«Aiuto!» grida. Aiuto? Ma allora lo parli l’italiano, cazzone patentato.
Cate si è afferrata all’albero, tiene gli occhi serrati. Un salvagente viaggia sul ponte avanti e indietro al ritmo del beccheggiare scomposto della barca. Lo inseguo, lo afferro, esulto, striscio fino alla paratia, individuo i denti bianchi di André tra le onde. Gli lancio il salvagente dritto in bocca, almeno gli spacco il sorriso. Lui lo evita e lo afferra. Faccio solo in tempo a sganciare dal retro della barca un canotto di salvataggio, uno di quei cosi arancioni che si gonfiano se tiri una cordicella, e sparisce.
E poi è un’onda così grossa da sembrare infinita, la barca ci si arrampica, dovrebbe scappare e invece la scala. Sulla cima si ferma, è un istante che vorrei durasse per sempre. Alzo le mani, mi arrendo, mi va bene anche un pareggio. Invece l’onda dà uno strattone, la barca s’impenna e precipita. Nel blu.
3.
Le luci non sono luci, sono qualcosa di più, sono dentro i miei occhi, sono perforanti, sono annullanti. Apro e chiudo le palpebre, apro e chiudo, non riesco a vedere, devo avere le pupille scoppiate.
Apro: ombre che si agitano, qualcuno muove le braccia, un viso si affaccia su di me. Chiudo: è sempre lì, sovraimpresso, e la luce, cristiddio, possibile che nessuno si accorga che la luce è troppo forte.
E un sibilo nel cervello, un fischiare nelle orecchie.
Apro: l’ombra è Cate, ha sangue sulla fronte.
«Lo senti anche tu?» le chiedo.
«Cosa?»
«Il vento.»
«Il vento?»
«Questo sibilo continuo…»
«No, non sento nulla. Devi aver battuto la testa.»
«Certo che ho battuto la testa, e anche tu.»
Allungo un braccio per sfiorarla e non riesco a muovermi. Eppure ci provo. Un passo alla volta, prima le dita.
«Cate, non riesco a muovermi.»
Lei non parla, annuisce. Stanca, un movimento infinito senza parole. Poi si gira a guardarmi le gambe. Ma non ci sono gambe, c’è un grosso trave, e forse sotto ci sono pure le mie gambe - forse.
Eppure non sento dolore, non sento nulla.
«Non sento nulla.»
Lei fa ancora su e giù con la testa.
«Tieni duro» mi dice.
Sono frasi da non dire: tieni duro, non mollare, non lasciarmi. Non sono frasi da dire. Uno potrebbe pure credere che - chissà - magari stia per morire. Poi gli piglia il panico, gli piglia.
«Sto per morire?»
«Ma no, ma no. Sei solo bloccato. Ma solo le gambe, riprova a muovere le braccia.»
Ci provo, ma nulla, un dito - forse - l’anulare. Il dito più inutile della mano, eppure è lui il primo a muoversi. L’anulare. E tutti gli altri a ruota.
Cate sorride, si allontana un attimo, ritorna con una pezzuola umida, me la passa sulle labbra.
«Abbiamo poca acqua, abbiamo poco di tutto…»
Si guarda intorno, cerco di alzare la testa. Della barca è rimasto lo scheletro, qualche asse che galleggia per miracolo.
«La radio?»
«Andata. Ma l’agenzia ha la nostra posizione, ci troveranno. Tieni duro.»
E teniamo duro.
Perché alla fine non ci si può fare niente, niente di niente, solo tenere duro. Mi sarebbe piaciuto cercare un pareggio con la tempesta, ho anche provato ad arrendermi, ho alzato le mani. Ma non è andata bene.
E hai voglia tu a fare progetti su progetti, a studiare tattiche e ingelosirti e mandare segnali. La vita è così, hai tutte le carte sul tavolo e arriva una folata di vento a mandare all’aria ogni cosa. Qui le folate di vento sono state più d’una, lo devo concedere.
Eppure Cate è qua, sempre accanto a me, mi tiene la mano, mi dà conforto, mi bacia gli occhi. Ho perso il conto dei giorni e delle notti. E nelle orecchie ho sempre il vento, non accenna a smettere.
Alla deriva da giorni, ore, settimane minuti anni secondi. Solo mare e vento, vento e mare. In un pezzo di barca che di barca non ha più nulla, in un pezzo di mondo che di mondo non ha più nulla.
Solo il vento, continuo, continuo, per sempre.
Cate non lo sente, io ne sono assillato, non parlo d’altro, non sento altro. È dentro di me, è attorno a me, anch’io sono vento e onde e mare e sale.
Cate ha smesso di mangiare, ogni boccone è per me. Ha smesso di bere, ogni goccia è per quel poco che rimane di me. Lei potrebbe sopravvivere, io sono un mezzouomo, perché lo fa? Cosa sono per lei? Lo merito? La merito? Tutto il mio misero mondo e il sistema di pensiero e le scale di valori su cui è costruito si smontano, pezzo dopo pezzo, e rimango nudo e inutile di fronte a lei.
Devo salvarmi, devo lottare, non posso essere così inutile. Lo farò per lei. Hai capito, vento? Sì, sono invincibile, cosa credi? Non morirò qua sopra pazzo labbra spaccate occhi secchi pupille bruciate, con te nelle orecchie con te per sempre a seguirmi all’inferno o in paradiso o nel nulla, io vivrò e te lo dimostro!
Invece sto morendo. Niente di più, niente di meno. Stringo la mano di Cate, lei si china su di me. La divoro con gli occhi e sarebbe il momento di dire qualcosa, di lasciarle un grazie, un ricordo, di farle capire quanto è speciale e quanto io non abbia mai capito nulla di lei e del suo mondo. Allora mi agito, la tempesta stavolta è dentro di me, vorrei dire tante troppe cose che si affastellano e si sovrappongono spingono accavallano strepitano schiamazzano, si affollano sulla lingua, parole come palline del flipper, rotolano e sbattono sui denti e ne vorrei dire di cose che avrei dovuto dirle mille e milioni di volte e per orgoglio non le ho mai detto: ti amo, scusami, sono uno stronzo, restami vicino, la mano non lasciarla; vorrei svuotarmi, baciarla e farmi accarezzare per l’ultima volta, sono tante le cose che vorrei dire, così tante che s’ingorgano e sono un tappo e io… io qualcosa la devo dire…
«C’è André» urla Cate, gli occhi una diga rotta.
Scatta in piedi, mi molla la mano, indica saltellando un puntino all’orizzonte. Ruoto il collo e lo vedo anch’io. Una barca rossa e quel minchione sorridente a prua che saluta e saluta.
Cate si sdraia accanto a me, singhiozza.
«Ci hanno trovati, siamo salvi…»
Muovo le labbra, si spaccano, sento il sangue sulla lingua.
«Hai detto qualcosa?»
Ci sto provando.
«Amore mio non ti sento.»
«Hai vinto tu…»
Cate spalanca gli occhi.
«Come?»
«Hai vinto, mi arrendo.»
Akimizu- Cavaliere Jedi
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Re: Guerre e tempeste
Che bello leggerti!
Dici che è uno stile acerbo. Certo rispetto a quello che ho letto di tuo, può essere. Ciò non toglie che in questo racconto ci siano in nuce tutte le tue doti. Il modo sensibile che hai di osservare il mondo è le persone e che riesci a trasmettere attraverso immagini e similitudini originali ed efficaci.
Spero che posterai altro di tuo. Non voglio attendere solo i contest.
Anzi, poiché ho letto le pubblicazioni di tanti spssini, ti chiedo di darmi i titoli di ciò che hai pubblicato. Voglio assolutamente leggerti.
Sei un faro e un esempio da seguire.
Dici che è uno stile acerbo. Certo rispetto a quello che ho letto di tuo, può essere. Ciò non toglie che in questo racconto ci siano in nuce tutte le tue doti. Il modo sensibile che hai di osservare il mondo è le persone e che riesci a trasmettere attraverso immagini e similitudini originali ed efficaci.
Spero che posterai altro di tuo. Non voglio attendere solo i contest.
Anzi, poiché ho letto le pubblicazioni di tanti spssini, ti chiedo di darmi i titoli di ciò che hai pubblicato. Voglio assolutamente leggerti.
Sei un faro e un esempio da seguire.
Petunia- Moderatore
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Re: Guerre e tempeste
Grazie Pet sei gentilissima come sempre. Vedi, io potrei anche darteli i miei titoli, ma ormai sono entrambi fuori catalogo, procurarseli è un problema. Dovrei però avere gli ebook da qualche parte, se li trovo te li spedisco via mail!
Akimizu- Cavaliere Jedi
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Re: Guerre e tempeste
Mi ricordavo anche questo. Mi ricordavo, pensa te, le parole come palline del flipper. Capisco perché ci sei affezionato. Ti lasci molto andare. Si sente il piacere nel far scorrere le parole. A distanza di anni è ancora fresco, vero.
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Asbottino- Cavaliere Jedi
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Re: Guerre e tempeste
E tu pensa, io mi ricordo, dopo sette anni, il commento che mi avevi fatto: sembra jazz. Mi aveva così colpito che quando è stato il momento di scegliere il titolo del mio secondo lavoro mi è tornato in mente. "Come il jazz tra la mezzanotte e l'una" nasce così. E a ogni presentazione ti ho citato per raccontarlo.Asbottino ha scritto:Mi ricordavo anche questo. Mi ricordavo, pensa te, le parole come palline del flipper. Capisco perché ci sei affezionato. Ti lasci molto andare. Si sente il piacere nel far scorrere le parole. A distanza di anni è ancora fresco, vero.
Akimizu- Cavaliere Jedi
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Re: Guerre e tempeste
Ah figo, non me lo avevi mai detto Spettacolo!Akimizu ha scritto:E tu pensa, io mi ricordo, dopo sette anni, il commento che mi avevi fatto: sembra jazz. Mi aveva così colpito che quando è stato il momento di scegliere il titolo del mio secondo lavoro mi è tornato in mente. "Come il jazz tra la mezzanotte e l'una" nasce così. E a ogni presentazione ti ho citato per raccontarlo.Asbottino ha scritto:Mi ricordavo anche questo. Mi ricordavo, pensa te, le parole come palline del flipper. Capisco perché ci sei affezionato. Ti lasci molto andare. Si sente il piacere nel far scorrere le parole. A distanza di anni è ancora fresco, vero.
Asbottino- Cavaliere Jedi
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Re: Guerre e tempeste
Grazie Aki!
Petunia- Moderatore
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Re: Guerre e tempeste
Il mare fa da scenario a una storia che rischia di finire in tragedia. Invece, proprio la tempesta e il conseguente naufragio divengono – per la coppia in crisi – l’occasione di ritrovarsi.
Ricordo questo bel racconto di cui apprezzo ambientazione e struttura e, in particolare, le modalità di scrittura. Si può scrivere d’amore, senza lasciarsi andare a toni melensi o patetici. Complimenti Ale!
Ricordo questo bel racconto di cui apprezzo ambientazione e struttura e, in particolare, le modalità di scrittura. Si può scrivere d’amore, senza lasciarsi andare a toni melensi o patetici. Complimenti Ale!
mirella- Padawan
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