All’improvviso, un vento improbabile aveva schiaffeggiato la vallata; poi un rombo assordante aveva acceso di terrore gli sguardi prima che il buio li spegnesse per sempre, prima che la montagna inghiottisse tutto quanto.
Nane non era rientrato a casa quella sera. Era rimasto con i suoi compagni al bar a vedere la televisione: quella sera, trasmettevano in Eurovisione la partita di calcio Real Madrid contro Glasgow, e non se la sarebbe certo persa.
Forse un giorno avrebbe avuto anche lui i soldi per comprarla, una televisione, forse quel lavoro che era stato obbligato ad accettare non era poi così male. I suoi abiti non sapevano più di fumo e le sue le mani non erano più annerite dal carbone. Forse suo figlio Mauro avrebbe avuto un futuro migliore del suo, forse aveva ragione Luigi, quelli della SADE sapevano davvero il fatto loro.
Giovanni, detto “Nane”, alla fine degli anni Cinquanta, era un giovane uomo figlio della guerra. Nato a Erto nel 1933, non aveva mai lasciato il suo paese; la grande montagna era per lui madre, padre, datore di lavoro e perfino il suo Dio. Dei suoi monti, amava ogni pietra e conosceva ogni sentiero, ogni albero, ogni animale.
Suo padre era stato un carbonaio e gli aveva insegnato l’arte di trasformare il legname di faggio e carpino di cui la zona era molto ricca, in carbone. Era un lavoro molto duro che aveva imparato ad amare e che avrebbe tramandato a suo figlio Mauro una volta cresciuto, ma all’epoca dei fatti aveva solo tre anni e doveva lasciarlo ancora con la mamma.
Nane sapeva di fumo, quell’odore acre e pungente impregnava i suoi vestiti e la sua pelle, aveva le mani ruvide e nere di chi lavora sodo e il cuore semplice e genuino di chi vive la vita senza pretese. Alto e grosso come la sua amata montagna, era molto rispettato nel paese: la sua forza e la sua generosità ne avevano fatto un leader naturale.
Da qualche tempo, giù al bar, le discussioni si erano fatte accese. Si discuteva della grande diga, del fatto che nel giro di pochi mesi, le case e i terreni sarebbero stati espropriati per permetterne la costruzione.
Endrio, poco più che ventenne, era il più giovane del gruppo e anche il più desideroso di cambiare il suo destino. Amava la montagna, ma non voleva finire la sua vita facendo il carbonaio come suo padre.
«Avete sentito cosa vanno dicendo giù a Longarone? La SADE vuole assumere per i lavori di costruzione della diga! Ci pensate? Dicono che qua si farà la diga più alta del mondo! Cercano operai forti, che conoscano bene come muoversi in montagna. Io ci voglio andare, per me è una buona opportunità. Si dice che paghino bene...»
Nane trovava quell’entusiasmo giovanile del tutto fuori luogo. Quella storia della diga non lo convinceva affatto. I maledetti della SADE si sarebbero presi le loro case, le loro vite. Lui, il Toc, lo conosceva bene. Conosceva il suo terreno friabile e sabbioso e aveva paura. La montagna doveva essere rispettata, non violata. Costruire un lago artificiale tra le sue strette gole, era pura follia. Sentiva il sangue ribollire al solo pensiero e per tutta risposta sbottò:
«Ma cosa stai dicendo? Quelli vogliono portarci via la nostra vita! Energia elettrica, lavoro, progresso? Ma non vi siete accorti che la Montagna non vuole? La roccia è troppo friabile, ci sono spesso smottamenti e frane. C’è pericolo che venga giù tutto! Dobbiamo andare a parlare con quei signori là, che si scelgano un altro posto e ci lascino in pace!.»
Nane si fece promotore di un comitato contro la realizzazione della diga, ma il suo generoso e schietto tentativo di evitare che il progetto fosse realizzato fu vano. Quelli della SADE ci sapevano fare con le parole.
Quattrocento nuovi posti di lavoro, la necessità crescente di energia elettrica per sostenere le aziende in pieno boom economico, convinsero gli abitanti dei paesi della vallata Erto, Casso e Longarone dell’importanza del progetto.
Così i montanari della valle, in nome del progresso e di un progetto che in qualche modo li rendeva fieri di esserne protagonisti, lasciarono le loro secolari attività per entrare in servizio come operai della SADE. Ben presto, le loro case e le loro terre furono espropriate in cambio di pochi soldi e duro lavoro.
Rasserenati dai risultati sbandierati dagli esperti circa la certificata idoneità e sicurezza del luogo, colsero quell’opportunità di lavoro ben sapendo che il “Toc”, la loro montagna, dava segni preoccupanti di instabilità.
Eppure nell’aria si avvertiva qualcosa di sinistro. Vecchie leggende popolari predicevano che il paese di Erto, dopo aver vissuto anni di prosperità, sarebbe sparito nelle profondità di un lago.
Anche Nane, carbonaio da generazioni, alla fine dovette piegarsi per portare il pane a casa e, in breve tempo, divenne un efficiente e affidabile manovale.
Luigi, il suo caposquadra, comprese al volo che la sua serietà e la sua conoscenza della montagna erano preziose. E poi “il Nane” era molto rispettato dai suoi compagni e, per questo, teneva in gran considerazione le sue opinioni e lo sorvegliava in modo speciale.
Nane, aveva notato quella “ferita” nella montagna ed era veramente preoccupato. Così si sentì in dovere di allertare il suo caposquadra:
«Luigi, la vedi quella spaccatura là?» disse indicando la fenditura. «Sembra che stia per staccarsi un pezzo di parete. Sarebbe un disastro se finisse dentro al lago... Dobbiamo fare subito qualcosa!»
«Stai tranquillo Nane, e non farti vedere così agitato dagli altri! Non c’è motivo di preoccuparsi, è tutto sotto controllo.»
«Non voglio mettere in dubbio che sappiate quello che c’è da fare. Io non ho studiato come voi, ma conosco il Toc e ho paura. Bisognerebbe almeno avvisare la gente giù in paese.»
«Nane, dammi ascolto, ti prego! Queste preoccupazioni tienile per te se hai caro questo lavoro. Ai padroni non piacciono quelli che creano problemi. Se metti in allarme i tuoi compagni diffondendo notizie che possono generare il panico, rischi di essere licenziato e io ci tengo troppo a te. Sai come è andata a finire con Gino... Amico mio, fidati, quelli hanno pensato a tutto, nessuno correrà dei rischi.»
Gino era stato “sbattuto fuori” per molto meno. Il caposquadra lo aveva sorpreso mentre sobillava i suoi compagni a chiedere un aumento. Gli operai facevano un lavoro pericoloso, sottopagato e avrebbero potuto creare problemi in cantiere. Così fu deciso di stroncare sul nascere qualsiasi forma di ribellione, punendola in modo esemplare.
Nane in quell’occasione non fu ascoltato, anzi gli fu intimato di tenere la bocca chiusa: erano troppi gli interessi in gioco.
Era stata una bella giornata di sole quel 9 ottobre, una di quelle splendide giornate autunnali che a volte capitano in montagna. La serata prometteva bene: una buona grappa da condividere con gli amici e lo sport che li avrebbe visti scommettere e discutere per ore nei giorni successivi.
La partita iniziò alle 21,30, ma alle 22,39 saltò la luce e, preceduto da un fragore assordante, il buio improvvisamente inghiottì la valle.
Nane, nonostante la sua stazza, fu risucchiato in aria come una foglia al vento e sbattuto poi a terra diversi metri più avanti. Miracolosamente illeso, si trovò praticamente nudo, sommerso dal fango e dai detriti. Nelle orecchie risuonava ancora l’eco del tremendo boato; realizzò di non poter aprire la bocca tanto era impastata dalla melma. La mano destra sanguinava a causa delle ferite provocategli dal bicchiere che stringeva. Non riusciva a vedere e a sentire nulla: intorno a lui solo buio e silenzio, odore di marciume e di morte.
Nel rialzarsi percepì sotto i piedi la presenza di un corpo. Il pensiero corse veloce verso la sua Enrica, verso suo figlio. Col terrore nel cuore capì: il Toc, si era ripreso tutto quanto.
Camminò stordito tra corpi nudi ai quali i vestiti erano stati strappati via dal vento generatosi con l’onda d’urto, calpestando pezzi di arti che emergevano qua e là dalla fanghiglia. Non riusciva a riconoscere nessuno. Deglutì il fango e appena riuscì ad articolare dei suoni, cercò di chiamare i suoi compagni, ma non ottenne risposte.
I pochi sopravvissuti, coperti di fango, camminavano barcollando, sperduti; con gli sguardi attoniti, increduli, asciutti di lacrime; i loro corpi emanavano un fetore di paura che ammorbava l’aria.
Nane perse tutto quella sera, tutto tranne la propria vita.
Sorretto dalla speranza di poter riabbracciare un giorno sua moglie e suo figlio, continuò instancabilmente per settimane a scavare nel fango, aiutando i soccorritori a liberare dalle macerie un numero indefinito di corpi.
Provò una gioia incontenibile quando, dopo alcuni giorni, aiutò ad estrarre, ancora vivo dai detriti il piccolo Pietro, figlio di un compagno di lavoro che era insieme a lui a guardare la partita quella maledetta sera e che non era sopravvissuto. Fortunatamente, anche la madre si era salvata e quindi non sarebbe rimasto orfano. Ma questi, purtroppo, si rivelarono veri e propri miracoli.
Nane, il gigante buono, non riuscì mai a ritrovare i corpi dei propri familiari. Furono dichiarati “dispersi” sotto la montagna di fango e detriti insieme ad altre centinaia di persone di cui non si avrebbero mai più avute notizie.
Per questo decise di rimanere per sempre lì, insieme a loro, nella sua montagna.
Quella terra, che ora custodiva i resti della sua famiglia, era l’unico luogo in cui avrebbe potuto continuare a vivere e sperare e dunque non l’avrebbe mai abbandonata.
Accanto alla piccola baita che riuscì a costruire con caparbietà contro il parere di tutti, piantò due alberi: uno per Enrica, sua moglie e uno per Mauro, suo figlio. Nel suo cuore coltivava speranza di vederli tornare un giorno, vivi, da lui.
Quegli alberi divennero la sua famiglia. Parlava con loro, a loro confidava i suoi dolori e le sue speranze.
Quelli del paese lo soprannominarono, affettuosamente, “Nane del Toc”, per sottolineare la sua totale appartenenza alla montagna.
Nane trascorse il resto dei suoi anni in quella vana attesa vivendo come un eremita, parlando più con suoi amati alberi che con gli uomini. Per guadagnarsi da vivere intagliava con maestria mestoli e ciotole di legno che, giù in paese, venivano venduti ai turisti della valle del Vajont.
Quando morì, fu deciso di piantare un albero in più accanto alla quella piccola baita.
Oggi i tre alberi Enrica, Mauro e Nane sono testimoni viventi di quella triste vicenda.