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Messaggio Da mirella Lun Feb 15, 2021 11:01 am

LA Mappa
Ts’ui Pên avrà detto qualche volta: “Mi ritiro a scrivere un libro.”
E qualche altra volta: “Mi ritiro a costruire un labirinto.”
Tutti pensarono a due opere; nessuno pensò che labirinto e libro fossero una cosa sola.
                                                J.L.Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano
                                                                                                                           

Augusto si muove come un ragno da un punto all’altro della sua tela. Non ho mai capito come faccia a orientarsi tra gli scaffali, alti fino al soffitto quelli addossati alle pareti e quello mobile su rotelle al centro. Certo è che se gli chiedi un romanzo o un testo universitario sa subito dove mettere le mani; lo trova in un secondo, arrampicandosi rapido  su una scala pieghevole per arrivare nei punti più alti.
Del resto quella piccola libreria del centro, un labirinto per me, è il suo elemento naturale, dove trascorre la sua giornata dalle 8 alle 20 e dove consuma lo spuntino del mezzogiorno. Svolge anche una piccola attività editoriale stampando tesi di laurea, utilizzando due computer e una stampante professionale che tiene nel retrobottega. Un giorno stavamo lì a parlare, prima dell’apertura pomeridiana, quando mi mostrò un libro.
«Tu che ami scrivere» mi disse «dovresti conoscere questo strano autore; poco noto in verità, ma ti assicuro che è geniale. Leggilo; vedrai, ti piacerà, poi ne parliamo.»
«Di cosa tratta?» domandai.
«Di un uomo che… No, non voglio rovinarti la sorpresa. Poi mi dirai.»

 Il nome dell’autore, Martin Iguerra,  campeggiava sulla cover e le note biografiche in quarta di copertina lo dicevano sudamericano e vivente a Buenos Aires. L’opera si intitolava: Senza titolo.
Trovai la copertina intrigante, ma la lettura del  romanzo mi coinvolse.
Narrava di  un uomo la cui vita era stata segnata dalla malattia fin dalla nascita.  Perciò il suo corpo non si era sviluppato che in parte; le gambe erano rimaste corte e per camminare aveva bisogno di appoggiarsi a un bastone, quando non doveva servirsi addirittura di stampelle. Tuttavia quel corpo deforme era dotato di una voce che sembrava appartenere a una dimensione quasi soprannaturale.
Lo chiamavano Laurencio el informe, ma quando la sua fama si diffuse in città: Laurencio el cantor.

«Hai letto il libro di Iguerra?» mi chiese Augusto, un pomeriggio che ero capitato in libreria.
«Lo sto leggendo», risposi.
«Come ti sembra?»
«È presto per dirlo; è affascinante, ma non è una lettura facile.»
«Eppure il linguaggio è semplice e la forma scorrevole.»
«Già, ma la struttura mi sembra piuttosto complessa.»
«Buon per te, allora; non sei tu quello che ama le strutture articolate?»
«Sì, è vero. Solo che ancora non mi raccapezzo; forse perché sono alle prime cinquanta pagine.»
Quando Augusto vuole sapere una cosa è difficile scoraggiarlo.
«Cosa c’è che non ti quadra?» Mi chiese.
«Non so come dire, vedi… ti presenta un personaggio e sembra che stia raccontandone la storia, invece no. A volte ho l’impressione che Laurencio sia un pretesto, a volte mi sembra un personaggio troppo letterario.»
«Ti assicuro che il protagonista, Laurencio Romero, non è mera finzione; esiste e  la storia  raccontata è vera. Pretesto, può essere, ma in fondo cos’è un personaggio se non un pretesto per raccontare una storia? Però hai ragione. Anche io ho avuto la tua stessa impressione, perché dentro quella storia ce ne stanno tante; le altre vite che la attraversano. Non è così?»
«Di più, direi, ci sono i luoghi che non mi sembrano solo scenari in cui si svolgono le azioni, sembrerebbe invece … boh, non so; talvolta la storia sembra un pretesto per raccontare una città, altre volte mi sembra il contrario.  Potrei anche sbagliarmi, lasciami continuare la lettura.»
«Ti faccio una confessione, magari mi prenderai per folle, sai che ci sono andato  a Buenos Aires a cercare Laurencio?»
«Ma davvero? Allora l’estate scorsa, quando sei sparito tre mesi e hai affidato la libreria a tuo fratello, sei andato là; una vacanza bella lunga, eh?»
«Proprio così. Ma non è stata una vacanza.»
«Cosa allora?»
«Una ricerca; a tratti anche dolorosa.  Ero entrato talmente nel personaggio… m’era capitata una cosa strana; mi sentivo preso dalla sua voce, eppure non l’avevo mai udita. Quella voce però sembrava chiamarmi. Volevo sentirlo cantare. Dovevo. Navigando in internet, avevo appreso molte notizie sulla città e sul cantante e sapevo da quelli che lo avevano ascoltato che la voce era unica. Si alzava in volo per conto suo, dispiegando più sentimenti di quanti potevano entrare in una vita intera. Se evocava la storia di una donna abbandonata dal suo uomo per una vita di ricchezza e piaceri, Laurencio trasformava il canto in un lamento mistico sulla carne e sulla solitudine di un’anima. Si diceva che, sospesa al filo sottile delle note, la sua voce trasmettesse di volta in volta le speranze degli immigrati, le mattanze della settimana tragica del 1919, il bombardamento di Plaza de Mayo prima della caduta di Peron e le mille altre storie di una città che aveva avuto tutto e al tempo stesso niente.»
«Uno come lui, con una voce simile, avrebbe potuto fare denaro a palate» dissi io.
«Invece non si faceva pagare, solo poche volte si  era esibito in alcuni club di calle Corrientes e una volta aveva partecipato a un concorso. Per quanto ne so io – almeno da quello che mi hanno raccontato –  appariva inaspettato in certi posti e si metteva a cantare. Forse gli bastava che non lo chiamassero più el informe. Cantare gli aveva permesso un salto di qualità, in fondo quella voce, che sembrava non appartenergli, ne aveva modificato l’identità.»
«Perché la voce sembrava non appartenergli?»
«Perché dicevano che a sentirlo parlare aveva una voce sgradevole, una pronuncia rozza e poco chiara, ma quando cantava… »
«Un novello Gardel?» arrischiai.
«Meglio di Gardel; qualcuno mi disse che in realtà lo imitava. Portava la sciarpa bianca intorno al collo e il cappello; ne copiava la teatralità dei gesti che in lui, con quel fisico miserabile, suscitava ilarità. Ammirava molto Gardel  e quando ne imitava la voce sembrava proprio Gardel, ma quando era Laurencio  era  superlativo. Molto più grande di Gardel. Così dicevano tutti.»
«Strano che non abbia voluto sfruttare la sua bella voce, forse gli sembrava di mercificarla?»
«Non credo. Vedi, Laurencio era molto timido e in guerra con il suo corpo  molto malato. Soffriva di emorragie intestinali e febbri; l’artrite lo consumava, trascorreva lunghi periodi in ospedale. Un ricovero fu più lungo del solito. Rimase per oltre due anni lontano dalle scene. Quando tornò a farsi vivo in città, riprese a cantare, ma ormai aveva abbandonato i club di milonghe. Cantava per strada e nei luoghi più strani: davanti al mattatoio, nei pressi del cimitero, la gente si raccoglieva intorno a lui e lo ascoltava.
Del resto, anche quando si esibiva nei club, nessuno del pubblico sapeva che era arrivato sulla scena con la sedia a rotelle e che non avrebbe potuto muovere più di due passi sul palcoscenico. Si appoggiava a un tavolo e già da un po’ non riusciva a imitare la mimica di Gardel, neppure a muovere la testa di lato. Nessuno rimpiangeva quella specie di parodia, anzi il nuovo stile di Laurencio  gli giovava perché nessuno badava al suo corpo informe ; ma solo alla voce, come se non esistesse altro al mondo, neppure il bandoneòn che l’accompagnava in sottofondo.»
«Capisco. La voce soltanto era musica?» domandai.
«Hai capito bene. Era l’essenza stessa della musica. Così dicevano tutti.»
«Sai che questo Laurencio mi incuriosisce? Viveva solo?»
«Sì, ma ho saputo che c’era una donna che se ne prendeva cura: Almira Ramos. Una giornalista free lance che scriveva su riviste di attualità; eppure trovava il tempo per assistere con devozione Laurencio che – come lei stessa mi avrebbe detto in seguito in più d'una occasione – si comportava in modo strano con lei, a volte ignorandola.»
«Allora questa donna, tu l’hai conosciuta?»
«Come no? Fu lei a farmi ritrovare la strada una volta che mi ero perso al Parque Chas, ma di questa avventura ti parlerò un’altra volta.»

Palacio de Aguas
«Almira era una donna alta e robusta, se lo portava in giro sulla sedia a rotelle in faticosi percorsi, come a Palacio de Aguas su per scale e piani perché lui voleva vedere il luogo dove in passato era stato ritrovato il cadavere di una ragazza quattordicenne; non si era scoperto mai l’assassino.
Dietro la facciata vittoriana, l’acquedotto era un intrigo di tubi dove l’acqua un tempo era stata la sola a conoscere il percorso in quell’intrigo di anfratti; ma ormai l’acqua non c’era più e il palacio era diventato un museo. La ragazza, che nel secolo passato era stata strangolata, aveva al collo un fazzoletto con le iniziali  del commissario che poi condusse le indagini e perciò ebbe buon gioco nel far passare tutto sotto silenzio. Lì Laurencio si produsse in un canto indimenticabile  –  mi disse Almira – un lamento struggente. Perfino il luogo sembrò rianimarsi, come se le valvole fossero state aperte e l’acqua fosse tornata a scorrere dentro i tubi.»

Con Augusto, ormai,  non si parlava d’altro che di Laurencio Romero. Spesso ci si incontrava di sera alla chiusura della libreria  e si vagabondava per strade e vicoli  fino a tardi, finché si finiva in qualche trattoria a mangiare qualcosa e a bere birra. Una vecchia abitudine che avevamo da ragazzi, quando si girava in branco. Del gruppo eravamo rimasti solo in due: gli altri erano andati per altre vie, noi percorrevamo sempre le stesse e continuavamo a parlare degli stessi argomenti, di donne e di libri soprattutto. Una notte che c’era stato un concerto di violinisti slavi davanti alla piazza del maggior teatro cittadino, una volta scemata la folla, c’eravamo inoltrati nel reticolo di vicoli del quartiere vecchio per approdare, infine, in un pub che restava aperto tutta la notte. Augusto prese a parlarmi del suo viaggio a Buenos Aires e di Laurencio Romero, l’uomo che era andato a cercare.
«Vedi», mi diceva, «una volta giunto a Buenos Aires cercavo indizi, dettagli  che alimentassero la mia speranza di incontrarlo, ma ogni volta arrivavo tardi, dopo che lui aveva già cantato in quel posto dove inutilmente lo avevo atteso. Era una sorta di inseguimento, lui ignaro d’essere cercato si muoveva in casa; nel senso che andava in luoghi che conosceva e rispondevano forse a un suo disegno interiore, mentre io, da straniero, mi muovevo in un terreno sconosciuto, dove rischiavo di perdermi a ogni passo. Insomma mi sfuggiva sempre, come se sapesse d’essere cercato e non volesse farsi trovare. Naturalmente le cose stavano diversamente, in quanto Laurencio ignorava la mia esistenza  e nulla sapeva della mia ricerca.»
«Hai detto che sceglieva luoghi rispondenti a un suo disegno interiore, che vuoi dire? Non ti capisco.»
«Per tutto il periodo che sono stato a Buenos Aires, neanch’io l’ho capito. Lo compresi dopo, al ritorno, quando mi misi a ricostruire gli itinerari di quei percorsi.»
«Che luoghi sceglieva?»
«Posti in cui erano avvenuti crimini con il tempo dimenticati: storie irrisolte di un passato cittadino sepolto e ancora in cerca di riscatto, come il Palacio de Aguas  che oggi è un monumento importante, ma al tempo del delitto era un acquedotto maestoso, una costruzione realizzata da un famoso architetto inglese con larghezza di mezzi e di ornamenti in terracotta, fatti venire apposta dall’Inghilterra.»

Man mano che proseguivo nella lettura del libro di Martin Iguerra cominciavo a  rendermi conto che Augusto, nel corso del suo soggiorno a Buenos Aires, aveva visitato molti dei luoghi descritti dall’autore,  uno dei tanti era proprio il Palacio de Aguas che era stato teatro del ritrovamento del cadavere della fanciulla  strangolata. Ma il racconto che di quei luoghi Augusto mi faceva, invece di chiarirmi le idee sul romanzo e sull’articolazione della trama, mi confondeva. A volte leggendo mi sembrava di sentir parlare Augusto e viceversa quando era Augusto a raccontare mi sembrava di leggere Iguerra.  Sembravano due narrazioni parallele; una attraverso la finzione letteraria, l’altra attraverso l’esperienza vissuta.
«Di’ la verità», gli chiesi un giorno che stavamo parlando nel retrobottega «ma tu,  il libro di Iguerra lo hai usato come guida turistica di Buenos Aires?»
«Be’, perché?» fece lui, «non ti è mai capitato di trovarti in una città di cui hai letto in un romanzo e di avere la curiosità di vedere i luoghi descritti nel libro? È naturale, no? Ma a che punto sei con la lettura?»
Augusto voleva sapere cosa pensassi di quel libro, sembrava ansioso di conoscere il mio parere; era capitato già con altre opere.  D’altra parte per gente come noi – lui libraio e tipografo, io universitario e scrittore – i libri sono sempre  stati pane quotidiano.
«Sono arrivato oltre la metà» dissi io «fino a questo punto ho letto di un gran numero di personaggi e di storie che si intrecciano tra loro e con la Storia della città; ho trovato strano che Iguerra non parli della donna di Laurencio, almeno non ho letto niente finora.»
«Sì, tante storie, tanti personaggi. Vedi, il vero labirinto di Buenos Aires è la sua gente. Tanto vicina e lontana al tempo stesso, tanto uguale fuori e diversa dentro. Tanto piena di pudore e tanto spudorata.  A Buenos Aires contattai molte persone per chiedere informazioni su Laurencio, ma ebbi sempre l’impressione che ridessero alle mie spalle; per un certo periodo mi accompagnai a un ragazzo, incontrato all’aeroporto il giorno del mio arrivo, che mi aveva fornito l’indirizzo di un alloggio. Mi sembrava di aver fatto amicizia con lui, ma un giorno sparì come se gli avessi fatto un torto e non lo vidi più. Gente che non sono riuscito a capire, Almira fu l’unica donna cui mi avvicinai non per curiosità, ma per amore e non per attrazione fisica ma perché volevo scoprire il suo intimo, esplorarne l’abisso.»
«Ma davvero era innamorata di Laurencio?»
«Me lo sono chiesto. Sì, ne sono convinto. Ci sono donne che preferiscono l’intelligenza al fisico, la passione ai muscoli.
«Come l’hai conosciuta?»

Parque Chas
«La conobbi a Parque Chas; ero arrivato in taxi ma il tassista mi lasciò all’angolo tra  calle Bucarelli e Ballivian, al confine del quartiere più labirintico di Buenos Aires, perché – mi disse – lì dentro ci si poteva perdere; così proseguii a piedi.  Mi sarei perso davvero se non avessi incontrato Almira. Lei mi confidò il segreto per uscire dal labirinto.
- Ci sono tre strade, non una di più - mi disse - Victorica, Avalos e Gandora; solo da una di esse si può uscire.»
Augusto mi raccontò quello che era accaduto pochi giorni prima  dell’incontro con Almira.
«Laurencio  era venuto a cantare al Parque  Chas con una emorragia  già in corso  che non sapeva di avere. La gente che si era radunata intorno  gli aveva chiesto di cantare ancora. Lui aveva continuato, ma al terzo canto era caduto tra le braccia di Almira dicendo: - portami in ospedale, sto morendo! - Almira s’era già accorta che era pallido e a un certo punto gli aveva chiesto di smettere, ma Laurencio non aveva voluto ascoltarla. Ormai  era preso dalla sua stessa voce e sembrava animarsi cantando, fino al terzo tango quando  non riuscì a proseguire per l’aggravarsi del malore.»
Quel giorno a Parque Chas Augusto aveva chiesto ad Almira di condurlo da Laurencio e  da quel momento aveva trascorso molte ore nella sala d’attesa, attigua alla rianimazione.

Aramburu
«In  sala d’attesa mi si palesò il mistero  di Almira, del suo amore per un invalido ridotto in fin di vita» disse Augusto «la trovavo seduta col volto sempre più segnato dalla sofferenza; in quelle lunghe ore mi avvicinai di più a lei, provando ammirazione e tenerezza.»
«E che facevate, come trascorrevate il tempo?»
«Aspettavamo. Io ogni tanto andavo a comprare qualcosa da mangiare per Almira che non ci pensava proprio. - Devo parlare con lui - le dicevo - non mi muovo da qui.- Lei mi rispondeva che avrebbe potuto  restare in sala di rianimazione a lungo e in ospedale per settimane e addirittura per mesi senza il permesso di ricevere visite; non sarebbe stata la prima volta che capitava. Una notte mi raccontò cosa Parque Chas significasse per Laurencio e mi raccontò la storia che era andato a evocare in quel posto.
Pedro Eugenio Aramburu, il generale che aveva rovesciato nel 1955 il governo di Peron, era stato assassinato  quindici anni dopo dal gruppo peronista dei Montoneros. Il suo cadavere era stato rapito e, dopo varie peripezie, ritrovato al Parque.  In quel luogo Laurencio aveva cantato, con una voce che fluiva con impeto e a tratti con melanconia, tutto quello che mai prima d’allora aveva lasciato affiorare in pubblico;  la sua voce diffondeva nell’aria delusioni e lamenti contro Dio, il destino e la mala sorte delle sue infermità, ma anche guizzi di passione e di felicità.
Nel tango - diceva Almira - la bella voce conta quanto il modo in cui si canta, quanto l’intenzionalità che avvolge la frase canora. Il cantante deve interpretarla come un attore, non uno qualsiasi, ma uno in cui chi ascolta riconosca i suoi  stessi sentimenti.»
«Ma tu, sei riuscito a sentirlo cantare?» domandai.
Augusto riprese il suo racconto.

L’incontro
«Ci fu un alba che ci colse attoniti dopo una notte quasi del tutto insonne, trascorsa in silenzio seduti in sala d’attesa. Almira era appena entrata in sala rianimazione per vedere come stava Laurencio, quando tornò mi disse: -Augusto, ti sta aspettando.-
Entrai nella sala rettangolare; lui stava nell’ultimo letto; aveva negli occhi l’ansia di chi sta correndo dietro al tempo; respirava con affanno, legato al congegno dell’ossigeno e alla flebo per la trasfusione.
-Augusto - mi disse con un filo di voce - ho sentito che sta scrivendo un libro su di me.
Così gli aveva detto Almira, ma era una bugia; mi sorpresi a pensare quanto siamo attaccati alla vita al punto di desiderare, lasciandola, che qualcuno si ricordi di noi, sia pure per aver letto il nostro nome in un libro.
-Vorrei farle una domanda.
- La faccia.
- Ecco, è una cosa che la riguarda e a cui penso da tempo. Mi sono chiesto se i luoghi, dove ha scelto di cantare, disegnino una mappa di Buenos Aires che nessuno conosce.
- Certo – rispose - è la mia mappa personale. Sì è così.
Fece una piccola pausa poi mi domandò: - Cosa vuol ricordare di me?
- La sua voce; purtroppo non l’ho sentita. La ritroverò attraverso il ricordo di tutti quelli che me ne hanno parlato.
Allora accadde qualcosa di strano e di inaspettato. Laurencio si tolse la mascherina dell’ossigeno, mi fece cenno d’avvicinarmi  e quando mi curvai su di lui… cantò! Cantò una sola frase con voce bassa, dolcissima e piena di nostalgia.
Furono le sue ultime parole.»
Augusto si fermò un attimo, per superare la commozione che quel ricordo evocava, poi continuò.
«In viaggio portai con me la mappa di Buenos Aires; avevo chiesto ad Almira di sottolineare i luoghi dove Laurencio aveva cantato. Come compresi nel corso del nostro unico incontro e come confermatomi da Almira Ramos, lui voleva recuperare il passato così come era stato, senza i travisamenti della memoria. Era convinto che in qualche parte si mantenesse intatto, non nella forma  attuale, ma in una forma eterna. Quei luoghi erano  per lui come una mappa da ripercorrere e attraversandoli, andandovi a cantare li ricostruiva, ridando significato a quelli e a se stesso. Come nelle parole della canzone di Gardel, di cui avevo udito la prima frase dalla voce di Laurencio e che, ascoltandola, mi aveva fornito la chiave per interpretare quella mappa che rigiravo tra le mani.
“Questo è il tango che mi porto dentro
inchiodato alla profondità del mio cuore creolo
Buenos Aires, c’è qualcosa in te che ha vissuto e dura
e chiedo al destino di far piangere, alla fine della mia vita,
il bandoneon intonando la tua canzone”
Quando arrivai a casa, non riuscii a dormire.  

«Ci credo, Augusto, sei vittima della tua indole esagerata.»
«Ma che dici? È solo questione di sensibilità.»
«Sensibilità d’accordo, ma tu tendi a fare d’un fatto altrui un caso personale.»
«Non è quello che fai anche tu quando scrivi un racconto o un romanzo?»
«Che c’entra? Io lo faccio nella finzione, tu nella vita; io sono consapevole di immedesimarmi, tu invece non te ne accorgi.»
La chiudemmo lì, perché la discussione rischiava di protrarsi per ore e s’era fatta l’alba, ‘stavolta fui io a non riuscire a dormire.
Il racconto di Augusto mi aveva commosso, ma quella sua domanda «Non è quello che fai anche tu quando scrivi un racconto o un romanzo?»  m’aveva acceso una lampadina in testa, una sorta di illuminazione e insieme un dubbio, pungente come la spina di un cactus: “emh, vuoi vedere che…” decisi che avrei svolto la mia indagine personale, poi fui sopraffatto dal sonno.

Rimuginando sui discorsi di quella notte, nei giorni a seguire mi rafforzai nella convinzione che Augusto si era preso gioco di me e volevo prendermi la rivincita, rivelandogli  che non c’era riuscito. Cominciai a cercare su internet notizie di Martin Iguerra e, da quel poco  che riuscii a trovare, dedussi che Iguerra  era autore di racconti di fantascienza, genere affatto diverso da quello del romanzo  “Senza titolo”.  Poteva essere un indizio per dimostrare  che Iguerra non ne era l’autore? Fino a un certo punto, perché nulla vieta a un autore di fantascienza di cimentarsi in altri generi letterari.
Una mattina però mi si presentò l’occasione di mettere le mani tra le cose segrete di Augusto, nascoste nel retrobottega.
Doveva andare alla Posta, dove prevedeva di impiegare un paio d’ore e mi aveva chiesto di sostituirlo in libreria durante la sua assenza  “Bingo!” pensai.
Un minuto dopo che il  mio amico s’era allontanato appesi il cartello “Torno subito” alla porta del locale e mi fiondai nel retrobottega.
Ci misi del tempo a raccapezzarmi in quello che Augusto definiva il suo ordine personale. Sotto il tavolo dove era situata la stampante c’erano ammucchiate, una sull’altra, tante scatole che contenevano tesi di laurea da stampare o già stampate e una serie di manoscritti. C’erano anche due scatole con l’etichetta “Varie”.  Cominciai a spulciare uno per uno i fogli contenuti in queste ultime, senza trovare nulla. Questa infruttuosa ricerca m’aveva già rubato un’ora; dovevo procedere con maggiore rapidità;  dopo tutto, dovevo mettere in conto che Augusto poteva sbrigarsi prima del previsto e cogliermi con le mani nel sacco.
Mi prese l’ansia e agguantai le tesi di laurea una scatola dopo l’altra, limitandomi a leggere i titoli; anche lì niente.
Mi restava poco più di un quarto d’ora e la fretta accresceva la mia ansia. Passai allo scatolo dei manoscritti e finalmente  trovai due copertine;  una era quella di Martin Iguerra che conoscevo, l’altra recitava:  La Voce  Romanzo di Augusto Rossi.” Che bastardo!” esclamai a voce alta.
Sussultai, nell’agitazione della scoperta non avevo sentito arrivare Augusto alle mie spalle: «Bastardo a chi? Che stai facendo, stai rovistando?» mi aggredì «io ti affido il locale e tu vai scartabellando tra le mie cose?»
Mi fece quasi piacere vederlo così  adirato; scoppiai a ridere: «E tu che mi hai propinato un romanzo tuo per quello di un altro?»  Sorrise, l’ira gli sbolliva già.
«Beh, non è stato difficile sostituire le copertine; a proposito il romanzo l’hai finito?»

Commento a "Nero su bianco" di Antonio Borgesi

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Messaggio Da Petunia Mar Feb 16, 2021 8:04 am

Cara Mirella questo è un piccolo romanzo, un gioiello di racconto. Mi hai condotto saldamente per i cunicoli del labirinto della mente di uno scrittore e lo hai fatto con una scrittura raffinata e seducente.
La magia che evocano gli autori sudamericani, il tango, il canto dell’anima, la mappa del dolore. E il desiderio che anima ogni scrittore di “farsi leggere”, di parlare delle proprie paure e fantasie dando voce a personaggi, immergendosi dentro di loro al punto di rischiare di perdersi.
C’ė tanto lavoro in questa tua opera dove nulla è lasciato al caso. Splendide le descrizioni e ottima la scelta del metaracconto. Autrice mi hai parlato e io sono rimasta incantata dalla tua bravura.
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Messaggio Da mirella Mar Feb 16, 2021 9:39 am

E io davvero commossa, cara Petunia. Mille grazie.

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Messaggio Da Antonio Borghesi Ven Feb 19, 2021 7:46 pm

Aspetta un attimo  che torno indietro a mettere il mi piace. Ok. Una bellissima storia che hai sviluppato molto bene tessendo la stessa tela del ragno che descrivi nel racconto. Molto probabilmente conosci benissimo Buenos Aires e il fascino per il tango che avvolge tutta la città. Così come il famoso Labirinto Chas Chas. Scrivi molto bene e la lettura scorre benissimo. E' veramente un piacere leggerti. La storia del cantante deforme anche se è una metastoria potrebbe in effetti essere realtà. Ci sono parecchi individui che vivono così e che noi solo sfioriamo per le strade delle nostre città senza prestare l'attenzione che meriterebbero. Ho trovato solo una frase un po' fuori logica: Trovai la copertina intrigante, ma la lettura del  romanzo mi coinvolse. Io cambierei quel "ma" in un "e". Intrigante è legato a coinvolgere.
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Messaggio Da mirella Dom Feb 21, 2021 7:30 am

Grazie Tony, accetto il suggerimento.

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Messaggio Da Ospite Dom Feb 21, 2021 9:36 am

Laurencio mi ha ricordato Luciano Taioli, un cantante delicato e melodioso che piaceva molto a mia madre e che si presentava sul palco senza nascondere i suoi problemi alle gambe. 
Che dire, bella e originale la tua opera che merita di essere sviluppata. 
Brava.

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Messaggio Da mirella Dom Feb 21, 2021 4:07 pm

Tommybean grazie del passaggio.

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Messaggio Da miichiiiiiiiiiii Mer Feb 24, 2021 8:23 am

A dir poco melodioso, scivola perfettamente restandoti poi proprio dentro...
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Messaggio Da mirella Mer Feb 24, 2021 9:31 am

miichiiiiiiiiiii ha scritto:A dir poco melodioso, scivola perfettamente restandoti poi proprio dentro...
Grazie michiiii

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