È trascorso esattamente un anno e sembra ieri. Ed è strano, perché di solito, in questa casa di riposo sperduta nella campagna veronese, il tempo non passa mai. Tale sensazione è figlia di un evento inaspettato che mi ha permesso di riconciliarmi con il mondo e malgrado la società mi consideri ormai un vecio, ho compiuto da un mese 84 anni, ho ancora tanta voglia di vivere. Il pensiero corre al 31 dicembre 2021. Quella sera ero nervoso, infastidito per il clima di festa e per i botti. Ogni esplosione mi ricordava la guerra e i traumi dell’infanzia. Avevo già spento la luce della camera con l’intenzione di provare a dormire, quando il dott. Giulio Stein, il geriatra di turno, ha aperto la porta e mi ha chiamato.
“Giovanni, vuoi venire giù in salone a giocare a tombola e guardare i fuochi d’artificio dalla finestra?”
Non ho alzato nemmeno la testa per rispondere. Ho solo borbottato a voce bassa. “Ma neanche morto. Detesto i botti, mi ricordano le bombe.”
Dopo qualche istante ho avvertito una presenza vicino a me e una vocina mi ha sussurrato nell’orecchio: “ti prego, abbandona questo atteggiamento da associale, è l’occasione per festeggiare e fare qualcosa di diverso; se non vuoi camminare ti accompagno con la sedia a rotelle.”
Irritato, ho replicato di lasciarmi in pace; non avevo nulla da festeggiare.
“Se rifiuti di venire mi siedo ai piedi del tuo letto e parliamo dei ricordi di gioventù, magari della Seconda guerra mondiale. Eri già nato, esatto?”
Ho alzato il capo e ho risposto: “se lo scordi, dottore, voglio solo dormire.”
Da quando sono entrato nella casa di riposo ho sempre dato del lei a tutti. Siccome non mi fidavo di nessuno, con questo stratagemma tenevo a distanza le persone.
“Se non mi accontenti resto con te fino a domani mattina e magari, a mezzanotte, chiamo gli altri ospiti e brindiamo in camera tua. Non è fantastica la mia idea?” La brillante proposta del medico mi aveva provocato un rigurgito di acido nello stomaco. Era una cara persona ma stava esagerando. In realtà desideravo solo vederlo sparire. Mi sono alzato con la schiena e ho appoggiato il cuscino al muro, in verticale. “Avanti, cosa vuole sapere? Ma una volta soddisfatta la sua curiosità deve uscire dalla stanza. Chiaro?” Il tono di voce non lasciava dubbi sulla mia intenzione di evitare ogni ulteriore coinvolgimento.
“Ascolta, Giovanni, mi sono chiesto tante volte cosa significhi vivere in tempo di guerra. Ad esempio, ricordi qualche episodio significativo della tua gioventù? Dovevi essere molto giovane quando è avvenuta la liberazione da parte degli Alleati. Se non sbaglio, nelle nostre zone la presenza dei tedeschi ha impattato molto sulla popolazione locale.”
Ho guardato con interesse quel dottore tanto sfacciato da riuscire a toccare un tasto per me assai delicato. Avevo di fronte un uomo totalmente calvo, con un accenno di barbetta scura, tra cui spiccava qualche pelo grigio. Ho fatto un sospiro profondo e ho iniziato il mio racconto, come se avessi desiderato da sempre una domanda del genere.
“Avevo compiuto da poco sei anni e frequentavo la prima elementare. Parliamo del 1944. Tenga presente che i nazisti avevano occupato l’Italia l’anno precedente. Dalle nostre parti le truppe tedesche manifestavano una forte ingerenza nelle città, mentre nei piccoli paesi il potere veniva delegato ai fascisti. Nella casetta di pietra, dove ero nato e cresciuto, vivevo con la nonna Adelaide, mia sorella Maria, maggiore di me di due anni, mio fratello minore Lorenzo, mia mamma Assunta e papà Romedio, che faceva il falegname e morì alcuni anni dopo la fine del conflitto. A quel tempo gli inverni erano particolarmente rigidi e la neve, caduta a gennaio, restava fino all’inizio della primavera. Nell’abitazione al piano terra, oltre alla modesta cucina, c’era una stanza più grande con il camino, nella quale si trascorrevano le serate e un’area adibita a pollaio per proteggere le galline dai rigori del freddo. Intorno al fuoco si ritrovava l’intera famiglia, spesso insieme ai vicini di casa.”
Ho interrotto il mio racconto e ho fissato il medico, nel tentativo di trovare un pretesto per non proseguire.
“Scusi dottore, devo proprio continuare? Non si annoia a sentire i ricordi di un vecchio logorroico?”
“Tranquillo, Giovanni, prosegui pure, ti ascolto con piacere.”
“Eravamo molto poveri, anche se in campagna qualcosa da mangiare c’era sempre. Durante queste serate mi piaceva osservare e ascoltare tutti i discorsi. Capivo poco ma fantasticavo molto e ricreavo nella mia mente mondi e personaggi sempre nuovi. Anche se in molte storie i nazisti erano nominati, non avevo ancora compreso chi o cosa fossero e dato che non li avevo mai incontrati, li immaginavo come esseri alieni, provenienti dalla luna.”
Ho fatto una breve pausa, avevo bisogno di trovare l’attacco giusto. Il dottore mi seguiva con attenzione, sembrava molto interessato.
“Era una mattina gelida e insieme a Maria sono uscito di casa per andare a scuola. Lungo la strada c’era almeno mezzo metro di soffice coltre bianca e la luce del giorno tentava, senza successo, di imporsi a un cielo felice di distribuire con generosità tanti candidi fiocchi. Per non sprofondare e bagnarmi, seguivo e calcavo, a mia volta, le impronte lasciate da mia sorella. All’improvviso, dal nulla è comparso un gruppo di extraterrestri, almeno così li percepivo in quel momento, con quelle strane divise tutte uguali. Ho iniziato a tremare, più dal panico che dal freddo, nonostante la temperatura fosse vicina allo zero. Due, in particolare, si sono interessati a noi. Il primo era alto e magro come il campanile della chiesa di Crosare, la frazione in cui abitavo; l’altro, invece, tarchiato e grasso, assomigliava a uno degli armadi di legno realizzati dal mio caro papà. Gli alieni, con aria spavalda e fare canzonatorio, hanno preso e aperto le nostre cartelle di cartone e rovesciato a terra il misero contenuto. Nonostante la paura, mi sforzavo di mantenere un atteggiamento da adulto e di non fare scendere dagli occhi nemmeno una lacrima. Però, le confesso, dottore, a ogni loro parola dal suono per me incomprensibile, il cuore, quello sì, mi batteva forte. Malgrado il tentativo di non cedere al terrore, più volte un rivolo di urina ha impregnato le mie pesanti mutande. In quegli anni mi succedeva spesso, in particolare se mi spaventavo o mi emozionavo. Mentre Maria raccoglieva gli astucci e i quaderni sparsi a terra, ho modellato una palla di neve e l’ho lanciata, con tutte le mie forze, contro il ginocchio destro dell’alieno a forma di campanile. Colpito nell’orgoglio, oltre che sulla gamba, il viso dello strano essere si è trasformato in una maschera di rabbia e in contemporanea, la canna del suo fucile si è alzata in direzione del mio corpo. Gli altri extraterrestri, che fino a quel momento erano rimasti in disparte, si sono avvicinati e uno di loro, di sicuro il più importante, ha iniziato a gridare e ripetere più volte una frase, in quella strana lingua a me sconosciuta. Con grande tempismo la mano di Maria ha afferrato la mia e senza proferire parola, ci siamo incamminati lungo la strada. Percorsi i primi metri, ho avvertito prima un vociare concitato e poi degli spari. Dallo spavento ho perso l’equilibrio e sono scivolato lungo il fosso, a destra del sentiero e trascinato mia sorella dietro di me.
-Fingi di essere morto, non muoverti! - mi intimò Maria, sottovoce.
Subito dopo un alieno si è avvicinato a noi … qualche attimo e … numerosi colpi di mitraglietta sono risuonati nel silenzio della campagna.”
“Davvero devastante per un bambino di sei anni. Povero Giovanni, hai vissuto un trauma spaventoso.”
Il termine devastante mi ha fatto cadere nelle sabbie mobili mentali, da cui faticavo a uscirne. Le parole restavano in gola, ero incapace di proseguire.
“Avanti, non mi tenere sulle spine. Ti ha colpito? E tua sorella? È morta?” Il dott. Stein sembrava coinvolto dal racconto. La cosa mi è parsa strana. Dopo altri attimi di silenzio, ho ripreso, con fatica, la narrazione.
“Per fortuna, entrambi siamo rimasti miracolosamente illesi. Dopo avere atteso il passaggio della camionetta con a bordo gli extraterrestri, abbiamo ripreso il sentiero verso la scuola. Non avevamo subito nessun danno fisico, tuttavia in aula è stato complicato seguire la lezione del maestro Bellini, perché continuavo a ripensare al drammatico evento vissuto insieme a Maria. Alla sera ci siamo riuniti nell’unica stanza riscaldata dal camino. Come sempre, noi bambini ascoltavamo le storie raccontate dagli adulti e più erano paurose e più catturavano la nostra attenzione. Adoravo quei momenti, mi sentivo protetto e invincibile. Le donne ricamavano, gli uomini discutevano animatamente e nella stanza accanto le galline dormivano sui trespoli, con il becco nascosto sotto le ali. Il tema dominante dei discorsi era l’avventura vissuta da me e mia sorella. Secondo zio Enrico eravamo stati fortunati a non riportare danni fisici: infatti, nel pomeriggio una pattuglia tedesca aveva ucciso a Borgo S. Marco tre adulti e una ragazzina, mentre quattro giovani erano stati fucilati a Cologna Veneta, accusati di essere dei collaborazionisti. A quel punto, visto che ero il protagonista della vicenda, ho manifestato il desiderio di diventare un partigiano e difendere i terrestri dall’assalto dei mostri invasori. In fondo ero stato io a colpire l’alieno con la palla di neve, io che avevo avuto il coraggio di ribellarmi. Ma la gloria è durata poco, perché, ingenuamente, Maria ha raccontato che per la paura mi ero pisciato addosso. Grazie a questa rivelazione tutti hanno iniziato a ridere e la mia carriera di partigiano è finita ancora prima di iniziare. Pensi dottore, che per la vergogna sono scappato al piano di sopra e mi sono rifugiato sotto il letto, con le lacrime agli occhi. Per una settimana ho odiato mia sorella e non le ho rivolto la parola, fino a che una sera, a causa della sirena che annunciava un imminente attacco aereo, mi sono ritrovato al buio, impaurito fra le sue braccia. Quando arrivava Pippo, così chiamavamo gli aerei, dovevamo correre a spegnere le candele ed evitare di diventare degli obiettivi visibili da colpire. Eh sì, durante la guerra ogni giorno è buono per morire e ti rendi conto che le cose più importanti sono la vita e gli affetti. Ora capisce perché qualsiasi botto è per me una ferita al cuore? È come rivivere ripetutamente quei terribili momenti. Tuttora mi capita, anche se meno spesso, di avere degli incubi. Uno in particolare mi perseguita: sono inseguito e cerco di nascondermi, ma vengo scoperto da un essere mostruoso che non esita a sparare. Quando succede mi sveglio e non riesco più a dormire.”
Per qualche minuto nessuno ha osato aggiungere parola. Poi, ho alzato lo sguardo verso il dott. Stein: piangeva. Mi sono sentito a disagio e non capivo. Com’era possibile che fosse lui a piangere? In fondo ero io la vittima. Di sicuro era una persona sensibile, ma una simile partecipazione emotiva non me l’aspettavo.
“Giovanni.” Il geriatra ha pronunciato il mio nome senza proseguire. Lo fissavo a bocca aperta: cosa voleva dirmi?
“Giovanni, ho una confessione da farti,” riprese il medico. Una confessione? Ero sempre più sconvolto e confuso.
La sua voce comunicava un profondo turbamento. Ho iniziato a temere quel simpatico dottore; temevo la sua presunta confessione. Quale legame poteva avere con il mio passato? Ho seguito ogni suo movimento. L’ho visto alzarsi e dirigersi, a passi lenti, verso la finestra, credo per evitare il mio sguardo. Contemplava in silenzio il paesaggio che conoscevo a memoria. Ora ero io a fremere, a implorare le sue parole.
“Mio nonno Gustav era di Monaco di Baviera e purtroppo è deceduto alla fine del secolo scorso. Da piccolo adoravo ascoltare le sue avventure in italiano tedescato, così definivo la sua strana cadenza. Era davvero un bravo oratore. Gli chiedevo di ripetere i racconti più divertenti e lui mi accontentava sistematicamente, tranne per una storia, l’unica in cui si era commosso profondamente durante la narrazione. Quella storia ti riguarda, mio caro Giovanni. Devi sapere che mio nonno è stato un soldato tedesco, la sua brigata si era insediata nel Castello di Bevilacqua, sul confine tra le provincie di Verona e Padova. Una sera, dal Comando, è arrivato l’ordine di vendicare la morte di tre militari ammazzati dai partigiani, in un agguato: dieci persone per ogni militare morto, comprese le donne e i bambini. Quando hanno incontrato te e tua sorella, mio nonno Gustav è rimasto defilato. Nel momento in cui ha sentito il sergente gridare ripetutamente di uccidervi, si è frapposto fra voi e loro e ha urlato di lasciare a lui l’ingrato compito. I suoi colpi hanno deliberatamente mancato il bersaglio; il suo obiettivo era di proteggervi ed evitare un esito drammatico. Dato che le vostre sagome erano sparite dalla vista degli altri camerati, per risultare più convincente vi ha rincorso e azionato di nuovo la mitraglietta e scaricato sul terreno i proiettili. Alla vista dei vostri corpi, in quel fosso tra la neve, è tornato indietro e ha dichiarato al sergente di avervi ucciso. Poi è risalito con gli altri sulla camionetta ed è ripartito.”
Ero sconvolto. Non sapevo più cosa pensare.
“Mio nonno Gustav non è più tornato in Germania. Dopo un paio di anni di carcere a Venezia si è stabilito a Montagnana, dove aveva conosciuto in precedenza Anna, colei che è diventata poi sua moglie e che gli ha donato la gioia di quattro figli: tre femmine e un maschio. Lui amava l’Italia, la considerava la sua seconda patria. Purtroppo, ha vissuto fino alla sua morte con un enorme peso sulla coscienza. Temeva di avervi ucciso, anche se aveva fatto il possibile per evitare di colpirvi. Spesso lo vedevo piangere e io facevo di tutto per farlo ridere. Aveva visto l’abisso in cui l’essere umano era caduto e l’orrore di cui era capace; si sentiva sporco, nonostante le buone intenzioni. Ti posso assicurare, Giovanni, che rispetto a tanti altri soldati lui era davvero un extraterrestre e per quanto possibile ha sempre anteposto il rispetto e l’umanità in ogni situazione. Per dirla con il linguaggio di quando eri bambino, mio nonno era un alieno tra gli alieni.”
Le lacrime sul mio viso scendevano copiose; avevano raggiunto ormai le labbra, ma non volevo fermarle. In quel momento non ero più nella mia camera, bensì disteso nel fosso, insieme a Maria e ho dato un volto al mio salvatore. Non era un mostro sanguinario, piuttosto un soldato che aveva conservato una dimensione umana. Da incubo a sogno. Gustav si era trasformato nel mio eroe.
“Il giorno in cui sei entrato in RSA il mio istinto mi ha suggerito che dovevo approfondire la tua conoscenza, senza capirne il motivo a livello razionale. Quando ho letto nella tua documentazione il luogo di nascita e di residenza, ho iniziato a incuriosirmi. Ti confesso che erano mesi che aspettavo l’occasione giusta per parlarti. Giovanni, il tuo racconto ha ridato una seconda vita a mio nonno, sebbene sia morto da decenni.”
Il dott. Stein, anche lui in lacrime, si è avvicinato e mi ha abbracciato.
“Questo abbraccio è il suo abbraccio. Avrebbe tanto desiderato incontrare te e tua sorella, chiedervi scusa e manifestare il proprio affetto. In questo momento lui è qui, presente, ne sono sicuro.”
Per alcuni minuti siamo rimasti immobili, stretti l’uno all’altro. È stata una emozione fortissima. È successo esattamente un anno fa, il 31 dicembre 2021. Sono passati 12 mesi e sembra ieri. Nei giorni successivi ho chiesto al mio amico Giulio, ora gli do del tu, di portarmi al cimitero davanti alla tomba del nonno e lui mi ha accontentato. Da quel momento i miei incubi sono spariti. Anche i fuochi d’artificio non mi fanno più paura. Certo, i botti mi ricordano sempre le bombe sganciate da Pippo, ma sono felice di festeggiare un anno in più di vita. La mia nuova vita.
Qualcuno ha bussato alla porta. “Avanti.”
“Giovanni, vuoi venire giù in salone a giocare a tombola e guardare i fuochi d’artificio dalla finestra?”
“Va bene, Giulio, arrivo.” Scusate, devo andare, mi aspettano per il brindisi.