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Isola dei Fagiani sette anni dopo l’impatto
Un boato fa sussultare il pavimento, le pareti della cantina cedono un po’ d’intonaco; un ostile ronzio metallico si diffonde nell’aria carica di umidità. Etor sale sulle spalle di Léo per guardare dalla grata.
«Fra poco inizierà a diluviare. Fammi scendere.»
Léo si massaggia il collo poi alza lo sguardo verso lo scaffale. Le antiche bottiglie di vino tintinnano ancora. Ne prende una, soffia via la polvere: «Che ne dici se assaggiamo un po’ di questa merda?»
Il soffitto trema di nuovo.
«Lo sai, Léo, che con quella tua erre anche la merda ha un certo fascino?»
«Vaffanculo, Etor»
«Questa roba è un vero schifo. Preferisco il sapore della terra umida.»
Etor si accovaccia e inizia a scavare una buca con le mani poi, presa una manciata di terra la porge al compagno con un inchino: «All’eccellente Léo D’Aramitz una delizia dell’isola dei Fagiani, con i miei sentiti omaggi!»
Una pedata improvvisa lo fa volare mezzo metro più avanti. Léo prende quel pugno di terriccio e costringe Etor a inghiottirlo.
Il ronzio metallico irrompe nella stanza. I due restano immobili evitando perfino di respirare. Il minuscolo drone staziona a mezz’aria per qualche secondo prima di uscire a gran velocità dalla grata sul soffitto.
Léo si siede appoggiandosi alla parete, scuote la testa e abbassa lo sguardo: «Non dovremo sopportarci ancora a lungo.»
«Tu resta pure in questa fogna, io me ne vado.»
* * *
Elekta vede le nuvole addensarsi nel cielo plumbeo, la voce del boia le rimbomba nella testa:
«Tira il dado!»
La bambina racchiude tra i palmi il piccolo cubo di metallo: tre facce solcate da una linea e tre facce sulle quali è scolpito un punto. Lo stringe tra le mani senza decidersi a lanciarlo.
Sente lo sguardo tagliente dell’uomo fenderle la pelle, può vederne respiro caldo sfuggire in piccole nuvole di condensa.
Lascia il cubetto roteare dentro i palmi ancora un po’ prima del tiro.
Stringe forte le palpebre attendendo l’esito.
«Linea!»
L’aria umida le solletica la pelle, rabbrividisce. Garrota. Ricorda con orrore le grida strozzate dell’ultimo giustiziato in quel modo; a ripensarci sente ancora il rigurgito acido bruciarle la gola. Avrebbe preferito di gran lunga che invece della linea fosse uscito il punto: il boia calerebbe la lama della ghigliottina e la testa del condannato rotolerebbe via senza un lamento.
L’uomo annuisce e, senza dire altro, si allontana da lei.
Elekta tende l’orecchio fin quando sente il rumore dei passi dissolversi in un’eco indistinta.
Il ronzio di uno sciame di droni assembrati intorno a lei la riporta alla realtà. Deve rientrare. Raccoglie il dado da terra e lo ripone nella borsa di cuoio che pende dalla cintura legata in vita.
Cammina piano strisciando i piedi per raggiungere il buco in cui è costretta a vivere nella semi-oscurità da parecchi anni. L’unico momento in cui la lasciano uscire è per tirare il dado che decide la sorte dei condannati confinati nell’isola dei Fagiani. Ghigliottina o garrota?
In quel fazzoletto di terra senza confini anche la pena di morte è una questione irrisolta.
Si tasta il petto. Da qualche tempo lo sente diverso: non è più piatto come prima e spesso le fa molto male. Quando la scelsero per il compito le dissero che quando fosse diventata adulta non avrebbe più dovuto lanciare il dado. Cosa ne sarebbe stato di lei, dopo, non lo sapeva.
Un rumore la scuote dai pensieri, si appiattisce alla parete restando in silenzio.
Vorrebbe mettersi a strillare quando vede l’uomo, ma quello la raggiunge con un balzo e le chiude la bocca con la mano. Preme così forte da toglierle il respiro.
«Non fiatare» la sua voce è un rantolo.
Riesce a muovere la testa quel tanto che basta per annuire. Il cenno di assenso è sufficiente affinché lo sconosciuto allenti la presa.
Il ronzio di un insetto drone si avvicina, Elekta fa segno all’uomo di nascondersi dietro di lei. Può sentirne il battito accelerato e il respiro affannato.
«Devi andare via subito da qui, ormai ti hanno trovato.»
Il fuggitivo le cinge il collo con un braccio facendola tossire.
«Muoviti! Vieni con me.»
Elekta lo segue senza fiatare.
Procedono a carponi nell’oscurità del sotterraneo, le mani scivolano nella fanghiglia.
Le dolgono le ginocchia, una goccia gelida le fa accapponare la pelle. Solleva lo sguardo: sopra le loro teste c’è una specie di grande occhio da cui s’intravede una porzione cielo plumbeo.
L’uomo le porge la mano.
«Sali!»
Con le gambe tremanti monta sulle spalle dello sconosciuto che la solleva tenendola stretta per le caviglie. Elekta allunga il collo più che può.
«Si vede qualcosa?»
«Niente. Fammi scendere.»
«Merda! Ma tu non vuoi scappare da qui?»
Elekta non risponde. Prende un lungo respiro e con un balzo a piedi uniti sale di nuovo sopra le spalle del fuggitivo poi, aiutandosi con la spinta delle braccia, raggiunge il bordo dell’oculo e ci si aggrappa.
Il vento soffia forte facendola oscillare nel vuoto come un pendolo. Guidata dall’istinto, usa le gambe per eseguire una mezza capriola e uscire sul tetto dell’edificio. L’uomo si arrampica come un animale sulla parete sfruttando le sporgenze delle pietre come scalini e la raggiunge subito dopo.
La pioggia rende la superficie scivolosa. Elekta rotola giù fino al cornicione. Immobile, coi muscoli tesi, valuta l’altezza indecisa se spingersi ancora oltre; poi, con un agile volteggio, raggiunge il suolo seguita dal suo liberatore. L’uomo cerca la sua mano e la stringe: «Io mi chiamo Etor.»
«Io sono Elekta.»
«Lo so, tu sei la bambina che tira il dado.»
«Perché mi hai portata con te?»
«Senza di te, il boia non potrà scegliere come accopparmi e io vivrò qualche giorno in più.»
«Ci saranno altre Elekta dopo di me.»
«Qualche giorno è meglio di niente.»
«Etor, perché ti devono uccidere?»
«Perché ho disobbedito alle regole. Ho rubato dei semi. Sono molto preziosi, sai? Serviranno a far fiorire la terra quando la luce tornerà.»
Elekta lo guarda con gli occhi sbarrati.
«Non capisci, vero? Quanti anni hai?»
«Dieci, credo.»
«Lo hai mai visto il sole?»
«Quello? Ma dai… è una leggenda! Me la raccontavano quando ero piccola.»
Etor la guarda dritto negli occhi: «Non so cosa ti abbiano detto, ma io me lo ricordo bene, il sole. Il mondo era pieno di luce e di colori, prima dell’impatto.»
«Parli dell’asteroide, vero?»
«Sì, Apophis. Gli esperti dicevano di non preoccuparsi perché non avrebbe mai colpito la Terra… ma non è stato così.»
«Io non ricordo niente.»
«Come potresti? Ora però dovremmo proprio andare.»
Elekta non si sposta di un centimetro. «Parlami ancora del sole.»
Etor le accarezza i capelli. Sono grigi come quelli di una vecchia.
«Tutto era colorato, i tuoi capelli sarebbero stati biondi…»
«Cosa sono i colori?»
«Come faccio a spiegartelo? I colori rendono tutto meraviglioso, ma per avere i colori occorre che la luce del sole possa attraversare il cielo.»
«E come è fatto il sole?»
Etor osserva la borsa che pende dalla cintura di Elekta: «Puoi darmela?»
«A che ti serve?»
«Ora lo vedrai…»
Sfila i lacci che la tengono chiusa e strappa con forza la cucitura. Il dado rotola ai suoi piedi. Lo raccoglie, lo rigira tra le mani. Gli spigoli sono taglienti e se ne serve per incidere un cerchio sul cuoio. «Avvicinati a me» dice ponendole la maschera sul volto.
«Cosa fai? Così non vedo nulla!»
«Metti un dito qui» le dice indicando gli occhi.
La bambina ubbidisce.
Etor pratica dei tagli per permetterle di vedere, completa la maschera incidendo dei raggi infine usa il cordino che chiudeva la borsa per legargliela alla testa.
«Ecco qui! Elekta è diventata il sole! Se indossi questa nessuno ti riconoscerà!»
Soffocano una risata e si addormentano esausti sotto un cielo opaco, privo di stelle.
Un rumore fa svegliare Etor di soprassalto, una scossa lo scuote dalla punta dell’alluce fino allo stomaco.
«Léo?»
«Hai dimenticato di prendere questi» dice porgendogli una manciata di semi.
«Vaffanculo!»
Si abbracciano forte. «Ti hanno seguito?»
«No… Sì… Non ne sono sicuro. E questo chi è?»
«Il sole, non lo riconosci?»
Léo scuote la testa.
Il ronzìo dei droni guardiani si avvicina.
«Sbrigati, dobbiamo attraversare subito il fiume.»
«Che ne facciamo del “sole”? Non possiamo portarlo con noi.»
Etor sospira. «No, non possiamo.»
Si china verso la bambina e le sussurra: «Apri la mano. Questi sono dei semi di girasole. Nascondili, un giorno potrai vederli sbocciare.»
In quel momento un timido raggio di speranza filtra dalla coltre di nubi e di polveri.
Il sole è lì dietro, proprio dove Etor lo ricordava.
«La bambina viene con noi.»
«Come si chiama?»
«Luz, si chiama Luz.»
Isola dei Fagiani sette anni dopo l’impatto
Un boato fa sussultare il pavimento, le pareti della cantina cedono un po’ d’intonaco; un ostile ronzio metallico si diffonde nell’aria carica di umidità. Etor sale sulle spalle di Léo per guardare dalla grata.
«Fra poco inizierà a diluviare. Fammi scendere.»
Léo si massaggia il collo poi alza lo sguardo verso lo scaffale. Le antiche bottiglie di vino tintinnano ancora. Ne prende una, soffia via la polvere: «Che ne dici se assaggiamo un po’ di questa merda?»
Il soffitto trema di nuovo.
«Lo sai, Léo, che con quella tua erre anche la merda ha un certo fascino?»
«Vaffanculo, Etor»
«Questa roba è un vero schifo. Preferisco il sapore della terra umida.»
Etor si accovaccia e inizia a scavare una buca con le mani poi, presa una manciata di terra la porge al compagno con un inchino: «All’eccellente Léo D’Aramitz una delizia dell’isola dei Fagiani, con i miei sentiti omaggi!»
Una pedata improvvisa lo fa volare mezzo metro più avanti. Léo prende quel pugno di terriccio e costringe Etor a inghiottirlo.
Il ronzio metallico irrompe nella stanza. I due restano immobili evitando perfino di respirare. Il minuscolo drone staziona a mezz’aria per qualche secondo prima di uscire a gran velocità dalla grata sul soffitto.
Léo si siede appoggiandosi alla parete, scuote la testa e abbassa lo sguardo: «Non dovremo sopportarci ancora a lungo.»
«Tu resta pure in questa fogna, io me ne vado.»
* * *
Elekta vede le nuvole addensarsi nel cielo plumbeo, la voce del boia le rimbomba nella testa:
«Tira il dado!»
La bambina racchiude tra i palmi il piccolo cubo di metallo: tre facce solcate da una linea e tre facce sulle quali è scolpito un punto. Lo stringe tra le mani senza decidersi a lanciarlo.
Sente lo sguardo tagliente dell’uomo fenderle la pelle, può vederne respiro caldo sfuggire in piccole nuvole di condensa.
Lascia il cubetto roteare dentro i palmi ancora un po’ prima del tiro.
Stringe forte le palpebre attendendo l’esito.
«Linea!»
L’aria umida le solletica la pelle, rabbrividisce. Garrota. Ricorda con orrore le grida strozzate dell’ultimo giustiziato in quel modo; a ripensarci sente ancora il rigurgito acido bruciarle la gola. Avrebbe preferito di gran lunga che invece della linea fosse uscito il punto: il boia calerebbe la lama della ghigliottina e la testa del condannato rotolerebbe via senza un lamento.
L’uomo annuisce e, senza dire altro, si allontana da lei.
Elekta tende l’orecchio fin quando sente il rumore dei passi dissolversi in un’eco indistinta.
Il ronzio di uno sciame di droni assembrati intorno a lei la riporta alla realtà. Deve rientrare. Raccoglie il dado da terra e lo ripone nella borsa di cuoio che pende dalla cintura legata in vita.
Cammina piano strisciando i piedi per raggiungere il buco in cui è costretta a vivere nella semi-oscurità da parecchi anni. L’unico momento in cui la lasciano uscire è per tirare il dado che decide la sorte dei condannati confinati nell’isola dei Fagiani. Ghigliottina o garrota?
In quel fazzoletto di terra senza confini anche la pena di morte è una questione irrisolta.
Si tasta il petto. Da qualche tempo lo sente diverso: non è più piatto come prima e spesso le fa molto male. Quando la scelsero per il compito le dissero che quando fosse diventata adulta non avrebbe più dovuto lanciare il dado. Cosa ne sarebbe stato di lei, dopo, non lo sapeva.
Un rumore la scuote dai pensieri, si appiattisce alla parete restando in silenzio.
Vorrebbe mettersi a strillare quando vede l’uomo, ma quello la raggiunge con un balzo e le chiude la bocca con la mano. Preme così forte da toglierle il respiro.
«Non fiatare» la sua voce è un rantolo.
Riesce a muovere la testa quel tanto che basta per annuire. Il cenno di assenso è sufficiente affinché lo sconosciuto allenti la presa.
Il ronzio di un insetto drone si avvicina, Elekta fa segno all’uomo di nascondersi dietro di lei. Può sentirne il battito accelerato e il respiro affannato.
«Devi andare via subito da qui, ormai ti hanno trovato.»
Il fuggitivo le cinge il collo con un braccio facendola tossire.
«Muoviti! Vieni con me.»
Elekta lo segue senza fiatare.
Procedono a carponi nell’oscurità del sotterraneo, le mani scivolano nella fanghiglia.
Le dolgono le ginocchia, una goccia gelida le fa accapponare la pelle. Solleva lo sguardo: sopra le loro teste c’è una specie di grande occhio da cui s’intravede una porzione cielo plumbeo.
L’uomo le porge la mano.
«Sali!»
Con le gambe tremanti monta sulle spalle dello sconosciuto che la solleva tenendola stretta per le caviglie. Elekta allunga il collo più che può.
«Si vede qualcosa?»
«Niente. Fammi scendere.»
«Merda! Ma tu non vuoi scappare da qui?»
Elekta non risponde. Prende un lungo respiro e con un balzo a piedi uniti sale di nuovo sopra le spalle del fuggitivo poi, aiutandosi con la spinta delle braccia, raggiunge il bordo dell’oculo e ci si aggrappa.
Il vento soffia forte facendola oscillare nel vuoto come un pendolo. Guidata dall’istinto, usa le gambe per eseguire una mezza capriola e uscire sul tetto dell’edificio. L’uomo si arrampica come un animale sulla parete sfruttando le sporgenze delle pietre come scalini e la raggiunge subito dopo.
La pioggia rende la superficie scivolosa. Elekta rotola giù fino al cornicione. Immobile, coi muscoli tesi, valuta l’altezza indecisa se spingersi ancora oltre; poi, con un agile volteggio, raggiunge il suolo seguita dal suo liberatore. L’uomo cerca la sua mano e la stringe: «Io mi chiamo Etor.»
«Io sono Elekta.»
«Lo so, tu sei la bambina che tira il dado.»
«Perché mi hai portata con te?»
«Senza di te, il boia non potrà scegliere come accopparmi e io vivrò qualche giorno in più.»
«Ci saranno altre Elekta dopo di me.»
«Qualche giorno è meglio di niente.»
«Etor, perché ti devono uccidere?»
«Perché ho disobbedito alle regole. Ho rubato dei semi. Sono molto preziosi, sai? Serviranno a far fiorire la terra quando la luce tornerà.»
Elekta lo guarda con gli occhi sbarrati.
«Non capisci, vero? Quanti anni hai?»
«Dieci, credo.»
«Lo hai mai visto il sole?»
«Quello? Ma dai… è una leggenda! Me la raccontavano quando ero piccola.»
Etor la guarda dritto negli occhi: «Non so cosa ti abbiano detto, ma io me lo ricordo bene, il sole. Il mondo era pieno di luce e di colori, prima dell’impatto.»
«Parli dell’asteroide, vero?»
«Sì, Apophis. Gli esperti dicevano di non preoccuparsi perché non avrebbe mai colpito la Terra… ma non è stato così.»
«Io non ricordo niente.»
«Come potresti? Ora però dovremmo proprio andare.»
Elekta non si sposta di un centimetro. «Parlami ancora del sole.»
Etor le accarezza i capelli. Sono grigi come quelli di una vecchia.
«Tutto era colorato, i tuoi capelli sarebbero stati biondi…»
«Cosa sono i colori?»
«Come faccio a spiegartelo? I colori rendono tutto meraviglioso, ma per avere i colori occorre che la luce del sole possa attraversare il cielo.»
«E come è fatto il sole?»
Etor osserva la borsa che pende dalla cintura di Elekta: «Puoi darmela?»
«A che ti serve?»
«Ora lo vedrai…»
Sfila i lacci che la tengono chiusa e strappa con forza la cucitura. Il dado rotola ai suoi piedi. Lo raccoglie, lo rigira tra le mani. Gli spigoli sono taglienti e se ne serve per incidere un cerchio sul cuoio. «Avvicinati a me» dice ponendole la maschera sul volto.
«Cosa fai? Così non vedo nulla!»
«Metti un dito qui» le dice indicando gli occhi.
La bambina ubbidisce.
Etor pratica dei tagli per permetterle di vedere, completa la maschera incidendo dei raggi infine usa il cordino che chiudeva la borsa per legargliela alla testa.
«Ecco qui! Elekta è diventata il sole! Se indossi questa nessuno ti riconoscerà!»
Soffocano una risata e si addormentano esausti sotto un cielo opaco, privo di stelle.
Un rumore fa svegliare Etor di soprassalto, una scossa lo scuote dalla punta dell’alluce fino allo stomaco.
«Léo?»
«Hai dimenticato di prendere questi» dice porgendogli una manciata di semi.
«Vaffanculo!»
Si abbracciano forte. «Ti hanno seguito?»
«No… Sì… Non ne sono sicuro. E questo chi è?»
«Il sole, non lo riconosci?»
Léo scuote la testa.
Il ronzìo dei droni guardiani si avvicina.
«Sbrigati, dobbiamo attraversare subito il fiume.»
«Che ne facciamo del “sole”? Non possiamo portarlo con noi.»
Etor sospira. «No, non possiamo.»
Si china verso la bambina e le sussurra: «Apri la mano. Questi sono dei semi di girasole. Nascondili, un giorno potrai vederli sbocciare.»
In quel momento un timido raggio di speranza filtra dalla coltre di nubi e di polveri.
Il sole è lì dietro, proprio dove Etor lo ricordava.
«La bambina viene con noi.»
«Come si chiama?»
«Luz, si chiama Luz.»