Primavera ‘45
Lo trovò lì, rannicchiato nella penombra, in un angolo di quella cantina, ancora umida e fredda in quel periodo dell’anno.
François Gauthier aveva dovuto attendere più di sei mesi prima di poter ritornare a Hendaye, dall’ Oflag di Döberitzk, dove i Tedeschi lo avevano spedito, prigioniero di guerra, a lavorare nelle miniere di carbone per una misera paga giornaliera. Dopo la liberazione, i medici, vista la situazione sanitaria precaria e la tubercolosi, lo avevano obbligato a un lungo periodo di degenza prima di rimetterlo su un treno verso casa.
E ora, oltre a scoprire che la casa durante la sua assenza era stata occupata da un comandante tedesco, una nuova sorpresa lo attendeva, varcata la porta della cantina: un terribile odore di escrementi, di sudore e di cibo andato a male lo aveva assalito. Con un moto di ribrezzo aveva fatto dietrofront. Poi quel suono, ancestrale, primordiale, una specie di lamento che di umano aveva ben poco lo aveva fatto arrestare.
Era sceso lungo la stretta scalinata, aveva scavalcato le numerose bottiglie vuote sparpagliate sul pavimento, i barattoli delle conserve, i rimasugli di cibo sparsi qua e là.
Lo aveva illuminato con la lampada a cherosene: il vecchio si era ritratto, spaventato e accecato dall’improvviso bagliore, gli occhi da troppo abituati solo al buio di quello scantinato.
Infine, qualche flebile parola era uscita dalla sua bocca: «David Luis Martins Oliveira».
Parecchi anni prima
Più leggeva quel documento, più David Luis Martins Oliveira ne era convinto: quel benedetto Trattato dei Pirenei non era altro che una vessazione che la Francia imponeva alla Spagna, mascherando astutamente la condizioni della resa iberica come fossero patti concordati, mentre si trattava unicamente di clausole a vantaggio dei gallici.
A sottolineare la falsa volontà del Mazzarino di chiudere quei trent’anni di guerra con un accordo solo in apparenza vantaggioso per entrambe le parti, il cardinale ne aveva stabilito la firma su quell’isola in mezzo al Bidasoa, a ugual distanza tra Spagna e Francia. Territorio neutrale e condiviso: ma guarda caso, il trattato era stato firmato il 7 novembre, e quindi nel periodo in cui, per convenzione, negli anni a venire l’isola sarebbe stata di dominio francese.
E in effetti, come si poteva considerarsi neutrale un accordo in cui gli Asburgo dovevano cedere ai Borboni territori in Lussenburgo, nelle Fiandre, nel Ducato di Lorena, per finire con una manciata di paesini catalani a cavallo dei Pirenei? Per non parlare della dote di cinquecentomila ecu, da versarsi direttamente nelle casse dello stato, francese ovviamente. E già, perché in tutto questo il povero Filippo IV aveva dovuto anche accettare di dare la mano della sua amata figlia, l’ìnfanta Marie-Teresa, a Luigi XIV, garantendo quindi anche i diritti di successione alla corona spagnola.
Di sicuro Luis de Haro, incaricato di trattare a nome degli iberici, non era il Mazzarino, né come standing né come capacità, e l’unico risultato che era riuscito ad ottenere fu che quella benedetta isola, l’île des Faisans o Isla de los Faisanes che dir si voglia, sarebbe stata spagnola, sei mesi all’anno: almeno in questo aveva ottenuto la completa parità.
Ma a David Luis Martins Oliveira questa storia proprio non andava giù; a lui, l’unico che aveva il permesso di attraccare con la sua barchetta, dal giorno successivo al passaggio delle consegne tra il comandante della base navale dell'Adour e l’omologo delegato spagnolo della base navale di Hondarribia.
Così, ogni primo di febbraio, da quarant’anni ormai, si recava su quell’isoletta di neanche duecento metri di lunghezza, a mettere in ordine il giardino che contornava il monumento in memoria del trattato. Riordinava quel piccolo appezzamento che a fatica si era conquistato uno spazio tra la fitta vegetazione, ripulendolo dalle erbacce, rasando il prato e piantando qualche vaso di primule o camelie. Poi, dopo un saluto impettito alla bandiera spagnola, tornava al suo negozio di fiori a Irun.
Allo stesso modo, al 30 luglio, vi tornava, a riprendere le sue pianticelle e, più di una volta, a lasciare un bisognino non lontano da dove i cugini avrebbero dovuto alzare la bandiera rossa, bianca e blu.
Così, passava i sei mesi successivi rodendosi il fegato, nella speranza che qualcosa potesse incrinare uno status quo che si perpetrava da ormai quasi tre secoli.
Estate ‘40
Il 30 luglio del 1940 il fioraio, guardava l’isola accarezzata dal lento scorrere del fiume, ma un dubbio lo assillava: che bandiera avrebbe sventolato al primo agosto e nei mesi a seguire? Il trattato era da considerarsi ancora valido ora che Irun non confinava più con il paese che lo aveva sottoscritto, ma con un paese occupato, e quindi a tutti gli effetti tedesco? E in effetti, nei mesi a venire, nessuna bandiera venne issata sull’isolotto.
L’occasione che David Luis attendeva arrivò su un piatto d’argento, servito nel piccolo borgo di Hendaye, giusto alla foce del Bidasoa. Il 23 ottobre, alla stazione ferroviaria, il Caudillo de España, Francisco Franco e il Führer, Adolf Hitler, si erano incontrati per trattare l’unione della Spagna alle Potenze dell'Asse.
Il Generalissimo, certo non timido e impacciato come il suo predecessore di fronte al Mazzarino, aveva snocciolato una serie di richieste, a cominciare dalla consegna di Gibilterra, una volta sconfitti gli inglesi ovviamente, fino alla cessione del Marocco francese e di parte dell'Algeria: il tutto a fronte di un vago impegno ad entrare in guerra in un prossimo indefinito futuro.
Francisco Franco non aveva fatto riferimenti all’Isola dei Fagiani tra le sue richieste: troppo piccola per far parte di un negoziato di tale importanza, ma chi avrebbe potuto dire qualche cosa se la Spagna, approfittando della situazione, ne avesse preso il pieno possesso?
E così, il 31 dicembre dello stesso anno, approfittando dei seppur dimessi festeggiamenti per il nuovo anno, qualche minuto prima della mezzanotte, David Luis caricò la sua barca con una bandiera spagnola, una tromba in ottone scintillante e un moschetto, più pericoloso per chi l’avesse maneggiato che non per chi se lo fosse trovato puntato addosso.
Al primo gennaio i francesi, udito uno squillo, si affacciarono sulla riva per vedere, non appena un pallido sole aveva sollevato la bruma mattutina, un vecchio imbracciare un fucile e una enorme bandiera rossa e gialla con un’aquila al centro sventolare alle sue spalle.
Una rogna così, Karl Hotz, il tedesco sindaco reggente di Hendaye, non l’avrebbe augurata a nessuno, tantomeno al primo dell’anno nuovo. Che fare? Lasciare quell’inutile isolotto in mano spagnola? Ma come l’avrebbe presa il maresciallo di Francia, Philippe Pétain, l’ottantaquattrenne presidente del consiglio dello stato di Vichy?
Non gli restava che telefonare a Joachim von Ribbentrop, Ministro degli Affari Esteri, che il precedente 23 ottobre aveva conosciuto di persona.
Quest’ultimo non gli lasciò scelta: riconquistare l’isola. Il Führer, infatti, non era partito molto soddisfatto dall’incontro con Francisco Franco, anzi, si riferiva che pochi giorni dopo, in Germania avesse detto a Mussolini: “Preferisco farmi estrarre tre o quattro denti piuttosto che parlare di nuovo con quell'uomo!”. Era quindi l’occasione giusta per una piccola vendetta nei confronti di quell’arrogante di Franco, anche se a farne le spese sarebbe stato un povero vecchietto, sicuramente un discendente di Don Quijote.
Ma un altro rebus assillava il povero Karl Hotz: quale bandiera avrebbe dovuto sventolare, una volta ripreso il possesso dell’isola? Decise quindi di attendere a sferrare l’attacco il 31 gennaio, ultimo giorno di dominio francese, conquistandosi il diritto di tergiversare per i successivi sei mesi che spettavano di diritto alla Spagna. Appena calata la sera sul Golfo di Biscaglia dell’ultimo giorno utile, un drappello di dodici uomini perfettamente addestrati, accompagnati da tre cani pastore, si accingeva a salpare alla cattura del ribelle che aveva invaso quel simbolico territorio.
Estate ‘42
Dopo due anni passati in prigione, David Luis Martins Oliveira stava ancora aspettando che qualcuno gli chiarisse quale sarebbe stato il suo destino.
Gli avvocati avevano speso il primo anno solamente per definire secondo quale legge l’imputato avrebbe dovuto essere giudicato, sentenziando infine che occorreva seguire il Codice Penale Francese del 1810, essendo il crimine stato perpetrato su suolo francese, seppur occupato da forze tedesche, seppur commesso da un cittadino spagnolo.
L’anno seguente era trascorso tra dibattimenti per decidere la pena da applicare, oscillando tra i lavori forzati, la deportazione… ma dove?, la marchiatura a fuoco e, aimè, l’esecuzione capitale per ghigliottinamento.
Ma quando i giudici stabilirono la pena, toccò di nuovo a Herr Hotz sbrigare quella spiacevole formalità, informando David Luis che sarebbe stato decapitato il primo agosto del ’43, proprio sull’isola dei Fagiani, non appena questa fosse tornata sotto il dominio francese.
Il 31 luglio, finito da poco di cenare, seduto nel salotto gustandosi un buon sigaro accompagnato da un bicchiere di Cognac, Karl Hort ricevette un telegramma dal Ministero degli Affari Esteri di Berlino.
David Luis Martins Oliveira non deve essere giustiziato STOP
Preparare messinscena per finta decapitazione STOP
Tenere il prigioniero in luogo segreto ed isolato STOP
Fino a nuovo ordine STOP
Non divulgare ad altri che al capo esecutore testamentario STOP
Solo alcune settimane dopo, durante un colloquio telefonico con Joachim von Ribbentrop, il sindaco venne a sapere che il Generalissimo Franco, ritenendosi in qualche modo responsabile per la sorte del povero fioraio, aveva telefonato di persona a Adolf Hitler, scusandosi per i toni usati nell’incontro a Hendaye e chiedendo la grazia per il vecchietto. Non potendo, o meglio non volendo, cancellare una sentenza sulla quale non aveva competenza, il leader tedesco rispose che il prigioniero avrebbe avuto la vita, ma non la grazia.
Karl Hotz chiamò quindi immediatamente Jules-Henri Desfourneaux, capo esecutore testamentario, il boia in poche parole, per cercare una soluzione su come procedere.
Il Desfourneaux, discendente da una famiglia di macellai dal centro della Francia, non ebbe alcun dubbio.
E così, il mattino seguente, il sindaco, accompagnato solamente dal boia e dal condannato, raggiunse lo spiazzo dove era stata collocata la ghigliottina. Al posto del condannato, un maiale, portato là nottetempo in gran segreto, prese posto sulla tavola basculante della mefistofelica macchina. Opportunamente infagottato in un bianco tessuto, con una deliziosa cuffietta a nascondere il capo, avrebbe confuso i numerosi curiosi che dai due lati del fiume osservano la raccapricciante scena. Dopo pochi secondi, la pesante lama separò di netto la testa dal corpo, facendola cadere nel secchio predisposto.
Tornati sull’altra riva del fiume, mentre il maiale chiuso in una bara spoglia veniva condotto al vicino camposanto, David Louis veniva accompagnato nel luogo che lo avrebbe “ospitato” sintanto che qualcuno non avesse deciso che fare di lui.
Karl Hotz, suo malgrado coinvolto in questa surreale pantomima, aveva deciso di tenere il “graziato” condannato nella piccola cantina della villetta di cui aveva preso possesso per adempiere al compito di sindaco al quale il Reich l’aveva destinato. Occupazione a titolo gratuito, ovviamente.
Dopotutto era la scelta più corretta: dato che Dame Hotz non aveva voluto seguire il marito in terra francese, nella casetta, situata in zona piuttosto isolata ai margini del paese, Herr Hotz vi abitava insieme a un solo domestico, per giunta sordomuto.
Alla cantina si accedeva da una piccola porta, scendendo una lunga rampa di scale, per arrivare in un piccolo locale con pareti in pietra, diviso in due strette navate con soffitti a botte. Uno sfiato permetteva una corretta areazione e una tenue illuminazione, lasciando l’ambiente in una scura penombra.
La decisione non era stata comunque indolore: amante del bere bene e del buon cibo, quella piccola cantina era stata opportunamente attrezzarla per conservare fino alla bisogna il frutto delle sue ricerche culinarie. Lungo le pareti, alloggiavano Champagne di ogni genere, bottiglie di Cognac e Armagnac, anche se la sua vera passione era per i rossi di Bordeaux, tra i quali poteva vantare anche alcune pregiate magnum di Premier Grand Cru Classé della zona di St-Emilion. Dal soffitto pendevano cosce intere di Jamon de Bayonne, formaggi dalle diverse stagionature, conserve di ogni genere e, non ultimo, vasetti di caviale d’Aquitania.
Con Martins Oliveira era stato chiaro: il suo domestico avrebbe avuto cura di portargli ogni giorno il cibo per la giornata, lo avrebbe accompagnato nel locale di servizio per lavarsi e per i propri bisogni… ma guai se avesse solamente toccato uno di quei prodotti impilati e catalogati ai lati delle pareti.
Estate ‘44
Il sindaco di Hendaye non aveva perso l’abitudine, ogni sera dopo cena, di assaporare un liquore fumandosi un sigaro, ma aveva accompagnato questo rituale con l’ascolto della radio che, contravvenendo alle istruzioni del Führer, teneva sintonizzata su Radio Londra. Le informazioni ufficiali che riceveva dal suo comando non lo convincevano, e voleva verificarne la veridicità anche sentendo l’altra campana.
Quanto ascoltava non lo lasciava affatto tranquillo. Aveva preparato tutto con tale scrupolo che, neanche qualche ora dopo che le truppe alleate erano entrate a Parigi e moti di giubilo si erano scatenati in tutta la Francia, Karl Hotz, in abiti civili, abbandonata con dolore sul retro la Mercedes 700K, lasciava la sua abitazione a bordo di una Citroën Traction Avant, da diverse settimane pronta ad ogni evenienza. Alla guida il fedele domestico.
Aveva ormai passato Bordeaux, quando gli venne in mente di David Luis Martins Oliveira.
«Si è ricordato di aprire la porta della cantina prima di partire?» domandò al domestico.
“Che stupido” pensò, “non mi può rispondere “… e neppure sentire.”
“Beh, prima o poi lo troveranno: per un bel po' ha sicuramente di che sopravvivere!”
E fece cenno di premere sull’acceleratore.