In The Closet
Ispirato al brano: "I Was Made For Lovin' You" (Kiss, 1979, etichetta Casablanca)
Stava sorseggiando il suo tè seduta in salone, sorpresa di sentire quel silenzio intorno. Un suono che aveva quasi dimenticato.
Marito e figli erano partiti per le vacanze con qualche giorno di anticipo. Era la prima volta che accadeva, ma nulla di strano: l’impegno che lei aveva da tempo programmato non poteva rappresentare un buon motivo per sacrificare il resto della famiglia. Li avrebbe raggiunti nel fine settimana.
L’aroma del liquido scuro veniva su, insieme a un sottile filo di fumo, portando con sé immagini e pensieri. Quello rappresentava per Patti un momento sacro, perfino mistico. Una sensazione tanto forte da farle credere che le idee dei grandi pensatori fossero nate proprio davanti a un tè fumante, allorché la meditazione viene stimolata dal penetrante odore e, soprattutto, dalla promessa di un gusto vellutato. Parlava talvolta di questo anche con suo marito:
“Benoît, bere il tè non è un rito fine a sé stesso. Rappresenta l’attimo fuggente, il momento della rivelazione…”.
Allora Benoît sorrideva, conoscendo a memoria la bizzarra teoria e soprattutto il finale, che spesso ripeteva con lei a mo’ di presa in giro:
“… le gocce miste a polvere, che restano sul fondo, sono come lo specchio magico della Regina Cattiva: non ci restituiscono che la verità nuda e cruda.”
Patti iniziò a bere, osservando un corridoio che mai le era apparso così vuoto. Aveva dedicato la sua vita a prendersi cura della famiglia e della casa - in fin dei conti, due facce della stessa medaglia -. Con lo sguardo, intanto, vagava da un punto all’altro dell’abitazione, finendo sempre per tornare sulle chiome degli alberi, appena al di là della grande vetrata. Mandò infine giù l’ultimo sorso, finché non comparvero i rimasugli sul fondo. Rimase immobile qualche secondo a studiarli, quindi voltò la testa di scatto, come ispirata da qualcosa, e si diresse decisa verso la sua stanza. In pochi istanti, il letto nuziale fu ricoperto da una miriade di indumenti, trucchi, perfino una parrucca, riversati in fretta e furia da vecchie scatole, che teneva dentro l’armadio. Quelle cose che lei, una volta raggiunta la sufficiente intimità con l’allora giovane marito, aveva immaginato di utilizzare quando l’atmosfera si fosse tinta di dolci colori. Per poi scoprire, con indescrivibile tristezza, che lui non apprezzava, anzi manifestava un certo disagio. Era un brav’uomo, anche premuroso, ma la fantasia, in “quel” campo, non era mai stata il suo forte. Aveva allora relegato quegli oggetti nell’angolo più remoto del mobile, alla stregua di ciò che la mente fa con i pensieri repressi. E le rare volte che succedeva di parlarne con lui, vi si riferiva come ai segreti “in the closet”. Non senza una nascosta frustrazione, ancor più accentuata dalla doppia allusione, che Benoît non aveva mai colto. (1)
Un riflesso inaspettato brillò nei suoi occhi…
Étienne se la vide sbucare sulla rampa delle scale, mentre attendeva l’ascensore. Era appena tornato dal lavoro e incontrandola aveva sentito un brivido lungo l’addome, come sempre gli accadeva quando si trovavano vicini.
“Patti: sei tu! Mi era sembrato di vedere un angelo" disse, con quel trasporto spontaneo che lo contraddistingueva, spesso fonte di preoccupazioni, quando la lingua si spingeva troppo in là.
"Étienne, siamo grandi per credere agli angeli” rispose lei sorridendo mentre, con astuzia tutta femminile, dissimulava la soddisfazione di ricevere quel complimento e il piacere che il suo sguardo appassionato le procurava.
Abitavano uno sull'altra in appartamenti identici, divisi da un piano. Di tanto in tanto le due famiglie si incontravano, nelle tipiche occasioni condominiali o anche solo per qualche pomeriggio, quel poco che bastava a mantenere i rapporti di buon vicinato. Étienne e Camille non avevano figli; anche per questo, le due coppie si osservavano con curiosità quasi cercando, nei brevi faccia a faccia, di entrare l’una nel mondo dell’altra per scoprire, o ritrovare, certi sapori.
Patti non ci aveva messo molto a individuare il solco profondo che divideva i due: Camille era una vera arpia, ambiziosa oltre ogni limite nel proprio lavoro e incapace di allontanarsi a più di qualche millimetro dal suo ego… figurarsi a letto. Mentre Étienne sembrava un astro solitario, stella senza pianeti, una sorgente di energia inesorabilmente dispersa nel vuoto cosmico, tanto che bastava stargli vicino per sentirne il calore. Con il passare degli anni, lei aveva preso coscienza dei suoi sguardi e del modo in cui lui le rivolgeva la parola. Soprattutto, udiva ormai distintamente il grido disperato dei loro corpi che si cercavano senza ritegno, a dispetto di ogni sforzo contrario dei legittimi proprietari. Lo stesso che, nelle lunghe albe solitarie, diventata un tamburo martellante, allorché Benoît dormiva di piombo e lei non aveva altro sfogo se non carezzare il proprio corpo, torturandosi le labbra a forza di morsi, gli occhi fissi sul soffitto che la separava dagli stessi gemiti disperati di Étienne… perché era certa di averli uditi. E quando quel desiderio carnale trovava infine soddisfazione, Patti piangeva pensando a suo marito, ai figli, alla casa. Le sembrava di aver tradito tutto e tutti. Poi tornava con la mente a quando era bambina, ai rimproveri dei genitori, degli insegnanti, perfino del parroco, che non mancava mai di metterla in guardia dal diavolo. Quest’ultimo era il ricordo che la faceva disperare di più, quello che rendeva le sue lacrime salate oltre ogni immaginazione, poiché il cuore le sussurrava, senza tregua, che l’azione del Maligno non si concentra sul far nascere i desideri: piuttosto, nel non farli mai incontrare.
“Se i cuscini potessero parlare!”, diceva talvolta sconsolata a Benoît. E lui sorrideva.
Étienne quasi dubitò dei suoi sensi quando, dopo i convenevoli di prassi, Patti lo invitò per un tè, con tale nonchalance da non precisare il “quando”. E lui si guardò bene dal chiederlo, anche perché sentiva la gola più arida del suolo marziano. Si salutarono quindi amichevolmente, come avevano sempre fatto.
Dopo una notte agitata, lui si presentò all’appuntamento. Patti lo fece accomodare in salone e continuò a parlargli dalla cucina, dove aveva iniziato la preparazione di un profumato Darjeeling. Finalmente furono uno di fronte all’altra. Le parole si fecero spezzate e quasi artificiali, poiché la ragione stava già abdicando in favore dei corpi, che reclamavano il loro dominio. Lui a un certo punto stette in silenzio, guardandola come si farebbe con l’opera d’arte più bella di tutti i tempi. L’ultimo movimento volontario che riuscì a compiere fu osservare il fondo del liquido appena bevuto. Di colpo tutto divenne chiaro e piantò i suoi occhi in quelli di lei.
Patti allora si alzò e, posizionandosi dietro le sue spalle, gli premette dolcemente il seno contro la schiena, accostando la bocca al suo orecchio:
“Ti piace giocare?”
Étienne si sentì morire e un “sì” lungo, rauco, di quelli che non rappresentano solo un’intenzione ma uno stato dell’anima, emerse dalle profondità abissali.
“Tira via la maglia...” disse Patti mentre si allontanava, lasciandolo quasi stordito. Lui non fece in tempo a riprendersi che, dopo qualche secondo, si trovò a torso nudo, con il capo interamente avvolto da un involucro di carta simile a quella usata per contenere il pane, sul quale erano stati creati due fori in corrispondenza degli occhi. La pellicola cominciò a gonfiarsi e rientrare ritmicamente, di pari passo con il respiro. Lei lo fece alzare, sospingendolo verso il piccolo bagno di servizio che occupava un’estremità del corridoio.
“Togli i pantaloni e inginocchiati qui di spalle: ti fidi di me, vero?"
Lui in tutta risposta emise un gemito lungo. Era un messaggio di complicità modulato sulle frequenze del cuore, di quelli che lei sognava di ascoltare ogni giorno della sua vita. Étienne ubbidì e, una volta piegato, portò spontaneamente le mani dietro la schiena come farebbe un carcerato da ammanettare. Dopo qualche minuto sentì il rumore di tacchi, seguito da un certo tramestio. Finalmente lei gli disse di voltarsi.
Étienne quasi non riconobbe la sua bionda vicina nella figura femminile che, all’altra estremità dello stretto corridoio, stava ritta a braccia aperte, le mani che premevano forte sulle pareti. Aveva i capelli corti nero corvino e un body con la trama a rete, che lasciava intravedere il seno generoso. Delle preziose calze velate esaltavano le gambe affusolate, slanciate da décolleté di vernice blu scuro su tacchi pericolosamente alti. La vide indietreggiare di qualche passo e manovrare un dispositivo fuori dalla sua visuale. Si udì di colpo il suono insistito del basso, subito seguito dalla batteria. Quindi partì la chitarra elettrica e, finalmente, la voce del cantante, accompagnata dopo qualche secondo dal coro del gruppo, che fece esplodere la musica a tutto volume. Patti sentì un brivido pervaderle il corpo mentre il suo pezzo preferito, celebre successo dei Kiss(2), inondava senza ritegno ogni centimetro dell’appartamento. Étienne rimase senza respiro: lei era scandalosamente bella e sexy, più di quanto lui la ricordasse nei suoi sogni più spinti. E il rossetto nero le conferiva un’aria cattiva, per lui irresistibile.
Patti seguì le prime note con un movimento rallentato del capo, saltando un tempo. E solo quando partirono i primi versi si coordinò con il resto del corpo: le braccia di nuovo tese contro le pareti, la testa ondeggiante ritmicamente in tutte le direzioni e i fianchi che, come un metronomo, davano un colpo di frusta ciascuno alla gamba opposta, facendola allargare e avanzare, per puntarsi contro il pavimento e ricominciare. Erano lontani i tempi del corso di danza, che aveva frequentato con appassionato impegno per lunghi anni fino al matrimonio, e al primo passo falso se ne rese conto. Ma certe cose non si dimenticano così continuò convinta, “aggiustando il tiro” quel tanto che bastava. Étienne, dal canto suo, fu talmente rapito da quella scena da perdere l’equilibrio. Si risollevò, un po’ goffamente, con una macchia di saliva che traspariva dal “cappuccio di carta” giusto all’altezza della bocca. E questo senza mai distogliere lo sguardo da lei che, nel frattempo, aveva iniziato ad abbassarsi progressivamente fino a procedere carponi, ondeggiando il capo in modo che i capelli spazzassero il viso da una parte all’altra. Le labbra di Patti mimavano le frasi del brano: “…and tonight, I want to lay it at your feet…”. Lui sentì il cuore scoppiare e per un attimo ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a una bestia selvaggia, una tigre che, dopo una lunga attesa, era uscita allo scoperto per catturare la sua preda. Ma lei gli fu presto davanti: sentì l’odore della sua pelle e d’istinto lo morse sul petto, con tutta la forza che aveva. Étienne emise un verso incomprensibile e le si buttò addosso. Erano ormai dentro una valanga inarrestabile di emozioni, avvolti da una musica che martellava senza pietà, come la voce virile del cantante: “…and tonight, we're gonna make it all come true…”. Patti leccò il piccolo rivolo di sangue che il morso aveva provocato, poi avvicinò le sue labbra a quelle di Étienne. Le bocche si cercarono avidamente e la carta dell’involucro cedette quasi subito: l’estremità di quello che a lui sembrò un serpente gli devastò il palato, fino a raggiungere le profondità più sensibili, facendolo impazzire. Ma lei non si accontentò e, avvinghiandogli la lingua coi denti, la tirò indietro con forza. Poco mancò che lui svenisse dal dolore, o dal piacere, finché non poté più resistere: con un gesto repentino strappò la sua prigione di carta e si avventò con la bocca sul collo di lei che, istintivamente, fece lo stesso. Come predatore e preda che lottano per sopravvivere, si alzarono e in quella posizione mossero, impacciati ma inarrestabili, verso la stanza attigua baciandosi dappertutto, e dappertutto mordendosi. Senza staccare i corpi, si ritrovarono sul grande letto. Il potente pezzo musicale ripeteva il ritornello fino allo stremo: “And I can't get enough / No, I can't get enough…”. L’ultima immagine cosciente che impresse la mente di lei fu quella del soffitto: per una volta, senza lacrime.
Era una giornata limpida e il mare sembrava una tavola. Benoît giocava con i figli lungo la riva, mentre Patti aveva preferito restare sotto l’ombrellone. Il suo non era un semplice osservare: piuttosto, sembrava che l’orizzonte avesse rapito il suo sguardo per carpirle i pensieri. Di tanto in tanto le urla gioiose dei suoi bimbi la riportavano lì dove era il suo posto naturale, con loro, per loro. Ma d’improvviso una lunga striscia nera sembrò materializzarsi in lontananza dal nulla. Lei si sollevò e così fecero tutti sulla spiaggia, avvicinandosi istintivamente al bagnasciuga. Benoît rassicurò lei e i ragazzi, mentre quella che presto si rivelò essere un’onda anomala si gonfiava sempre più. Varie ipotesi rimbalzarono lungo la spiaggia, ma per quei motivi imperscrutabili, così tipici dell’umana natura, nessuno si mosse cercando scampo da quello che appariva come un serio pericolo imminente. A qualche centinaio di metri l’onda nera si era fatta gigantesca e l’emozione elettrizzava la pelle di ciascun presente: l’immane forza della natura era capace di impaurire e stregare allo stesso tempo. Ma il muro d’acqua perse di colpo lo slancio, terminando con uno scroscio d’acqua che invase la spiaggia per una decina di metri.
Le emozioni provate provocarono una esclamazione generale. Tutti corsero verso le loro cose per salvare il salvabile. Patti recuperò il suo telefonino che, chiuso in un astuccio di plastica, sembrava salvo. Aprendolo notò un messaggio. Era di Étienne, era come Étienne:
“Je t’aime”.
(1) Closet: armadio, ma anche gabinetto (forma abbreviata di “water closet”)
(2) “I Was Made for Lovin’ You” (Kiss, 1979, etichetta Casablanca)
Ultima modifica di Rasalgethi il Mar Ago 31, 2021 5:29 pm - modificato 6 volte. (Motivazione : Applicazione suggerimenti consigliati)