«Stupidi insetti» bisbigliò tra i denti, quindi entrò nella clinica.
«Buongiorno, signora» la salutò Giuliano da dietro la scrivania.
Elena fissò il portiere, cercando di camuffare il ribrezzo. Alcune briciole del cornetto che l’uomo stava divorando erano rimaste intrappolate nei peli della barba fluente. Stava sorridendo, gli occhi furtivi che la squadravano dietro le lenti degli occhiali, la camicia bianca ben chiusa sul collo, tanto da rischiare di fargli esplodere il doppio mento.
«Buongiorno» rispose lei, portando avanti il piccolo rituale di ogni mattino.
Elena e Giuliano si scambiavano sempre qualche parola, poche battute dette senza trasporto, che consentivano all’uomo di poterla squadrare e immaginare senza i vestiti, mentre la donna aveva l’occasione per imparare a odiarlo per bene, nutrendo l’istintiva antipatia che provava per quell’essere viscido.
«Ci sono novità sulla strage?» chiese Elena, indicando il giornale. Oramai da tre giorni la prima pagina del Secolo XIX apriva con l’attentato alla stazione di Bologna.
«Nulla di particolare ancora, ma se vuole la mia opinione questa è opera dei fascisti. Estrema destra, sissignora. Non ne possono più di stare all’ombra delle Brigate Rosse.»
«Ah, è una specie di gara quindi, a chi ne uccide di più.»
«Già, ha afferrato il punto, signora.»
La donna stabilì che per quel giorno ne aveva avuto abbastanza, così salutò il portiere. S’incamminò lungo il corridoio lastricato di piastrelle bianche e nere, sentendosi gli occhi del grassone sul fondoschiena e le lunghe gambe snelle. Le comode ballerine color panna le permettevano di camminare sicura, consentendole di dissimulare in maniera convincente la leggera zoppia che l’accompagnava dal giorno dell’incidente. Appena raggiunse le scale che conducevano ai piani superiori si voltò verso Giuliano: la stava ancora fissando. Elena gli regalò un’occhiata carica di disprezzo, poi si aggrappò al corrimano e cominciò a salire i gradini
La stanza in cui era ricoverato Roberto si trovava al secondo piano della villa, riconvertita nell’ultimo decennio a centro di cura per cardiopatici. Elena entrò nella camera che il marito divideva con gli altri malati. Varcare quella soglia le metteva addosso sempre una grande tristezza. L’uomo pieno di vita e sicuro di sé, capace di ottenere sempre ciò che voleva, giaceva inerme nel grande letto ferroso, apatico e inutile come una marionetta dismessa. L’aveva odiato per ciò che aveva fatto, ma non riusciva a smettere di amarlo. Le aveva tolto tanto, forse tutto, ma non poteva sopportare l’idea che potesse morire.
«Ci sono miglioramenti?» domandò al medico che le veniva incontro.
Il cardiologo allargò le braccia, quasi in segno di resa. «Mi dispiace signora, suo marito è sempre più debole e non risponde alle cure. Il cuore è troppo affaticato, ha sofferto troppo.»
Elena strinse i manici della borsa con tutta la forza delle mani, come se da quella stretta dipendesse l’attaccamento alla vita del suo compagno.
«Mi dica la verità, quante speranze ci sono?»
Il dottore corrugò la fronte, cercando le parole giuste da utilizzare.
«Quante?» urlò dopo un po' la donna. Il silenzio dell’uomo stava rimbalzando da troppo tempo dentro la sua testa e lei si sentiva sull’orlo di una crisi di nervi.
«Sono sincero, continueremo a fare tutto quello che è nelle nostre possibilità, ma a questo punto servirebbe un miracolo.» Il dottore posò delicatamente la mano sull’esile spalla femminile e la strinse con delicatezza. «Qualche volta i miracoli accadono» concluse con scarsa convinzione.
Elena raggiunse il capezzale del marito, certa che quegli uomini aspettassero solo il momento per poter liberare il suo letto. Guardò il viso di Roberto, scarno, emaciato, scolpito nella sofferenza. Aveva perso tanti chili e anche i capelli si erano diradati sulla testa. L’uomo che aveva sposato, esteriormente non esisteva più. Si sedette sul letto e gli strinse la mano sinistra, quella dove mancavano il mignolo e l’anulare. Il contatto imperfetto le fece ricordare il giorno del loro incontro. Sorrise con amarezza: era impossibile non ricordare.
Quando l’uomo l’affianca all’uscita del Moulin Rouge, lei lo riconosce subito. Nelle ultime due settimane non si è perso uno spettacolo, sempre allo stesso tavolo sotto il palco, gli occhi solo per lei. Elena guarda l’ora: l’una è passata da un pezzo. Alza una mano per fermare un taxi di passaggio, ma lui lo fa subito ripartire.
«Scusi, perché lo ha fatto?» dice con tono infastidito.
«Ho la macchina, non mi va di farle sperperare i suoi franchi»
risponde Roberto, aprendosi in un sorriso disarmante. «Dove vuole che l’accompagni?»
Elena guarda la distesa di denti bianchi, piccoli tasti di pianoforte capaci d’incantare senza emettere alcun suono. Dentro di lei sa già che farà fatica a resistere a quell’uomo, ma è intenzionata a dargli del filo da torcere.
«Ma che diavolo si è messo in testa? Io in macchina con lei? Ma se neppure la conosco.»
«Se è solo per questo rimediamo subito» ribatte prontamente l’altro. «Mi chiamo Roberto Canepa, sono originario di Albenga, in Liguria. Benestante di famiglia, sono pianista per diletto…»
Sul pianista Elena si lascia scappare un sorriso.
«Che c’è di divertente?»
«Niente. È che non ha proprio la faccia del pianista.» Elena prende fra le sue mani quelle di Roberto: sono forti, robuste, dalle dita lunghissime.
Roberto si libera delicatamente dalla presa e le carezza il viso con una dolcezza infinita.
«Dimmi qualcosa di te adesso. E diamoci del tu, che non siamo più due perfetti sconosciuti.»
Quell’uomo l’affascina e la fa sentire sicura. Protetta.
«Il mio nome è Elisa De Ponti. Sono nata vicino a Milano, ad Assago per la precisione. Faccio la ballerina, questo già lo sai. Quello che non sai è che avrei preferito esibirmi alla Scala, non qua» dice indicando il locale alle loro spalle. Le luci sono ancora accese e riversano sulla strada bagnata una marea di riflessi gialli, rossi e arancio. Le pale del mulino si muovono placide, come sospinte da un vento invisibile.
«Io adoro questo posto e adoro vederti ballare. E sopra ogni cosa adoro le tue gambe.»
Elena sorride e comincia a tormentarsi una ciocca di capelli.
«Roberto Canepa, per caso ci stai provando?»
«Forse. Andiamo a bere qualcosa? È troppo presto per tornare a casa.»
Roberto l’accompagna al Café de l’Est, un locale aperto fino a tardi, dove parlano e bevono champagne sino alle quattro. Elena pensa che è strano, è come se si conoscessero da una vita: le parole escono dalle loro bocche con fluidità, senza freni e ostacoli. Poi lui le fa quella domanda e la testa inizia a girare. Non è per via del vino che ha bevuto, il fatto è che si sarebbe aspettata tutto tranne quella richiesta.
«Elena, mi vuoi sposare?»
Lo stordimento è totale. Le parole che solo qualche istante prima sono uscite senza fatica, ora sono bloccate in gola, prigioniere di una soluzione appiccicosa fatta di remore e dubbi.
«Ti ho lasciata di stucco, eh?» dice Roberto, senza scomporsi. Il viso si è fatto più serio, ma il tono della voce è sempre pacato e rilassato, privo d’insicurezza. «Lo so, la mia richiesta potrà sembrarti prematura, folle per certi versi, ma io non posso stare senza di te. È quasi un mese che ti seguo su quel palco e quando non sono là a guardarti, la tua immagine passeggia di continuo nella mia mente. La verità è che mi sei entrata dentro e io non ho più difese. Sarei disposto a rinunciare alla mia musica, ma non a te. Non potrei mai rinunciare a te. Mai.»
«Roberto… Ci siamo appena conosciuti.»
«E con questo? C’è un’affinità particolare tra noi. Possibile che l’ho notata solo io?»
Elena pensa che Roberto abbia ragione, eppure la voce le si blocca ancora una volta.
«E poi non ci dobbiamo mica sposare domani. Più avanti, con la bella stagione. Elena, dimmi di sì.»
Elena scuote la testa, non sa cosa dire, è confusa. Roberto allora rompe gli indugi, si sfila la sciarpa di seta bianca che porta al collo e la posiziona con cura sopra il tavolo. La sua mano quindi scompare pochi secondi dentro la tasca del cappotto abbandonato sulla sedia e riappare stringendo un coltello a serramanico.
«Che hai intenzione di fare?» Elena lo guarda sbalordita.
«Te l’ho detto, preferisco rinunciare alla musica, non a te. Questo è il mio sacrificio. Allora, mi vuoi sposare?»
«Non lo so, io…» balbetta la donna sempre più confusa.
Roberto estrae la lama del coltello, quindi appoggia il palmo della mano sinistra sulla seta candida. La lama non è molto lunga, però è incredibilmente spessa. Il pianista la posiziona sul mignolo, a metà strada tra la falangina e la falangetta, poi esercita la giusta pressione. Metà mignolo si stacca di netto col rumore di un ramoscello spezzato.
Elena, incredula, lancia un urlo che si propaga per tutto il caffè. Nel locale non c’è più nessuno, a parte loro e i camerieri. Roberto invece non emette un solo lamento, serra la bocca in una smorfia di dolore e il viso gli diventa paonazzo.
«Te lo chiedo di nuovo, vuoi sposarmi?» ripete dopo un po' di tempo.
Intanto due cameriere sono accorse al grido di Elena e assistono a quella scena macabra con malcelato raccapriccio.
Elena è nel pallone, vede la sciarpa colorata di sangue, il dito solitario e gli occhi stralunati di Roberto. Non sa che dire.
«Roberto, non lo so cazzo, non lo so.»
L’uomo appoggia la lama sulla metà dell’anulare ed esegue la stessa operazione. Il risultato è identico al precedente.
«Per l’amor di Dio, Elena, mi rimangono solo tre dita nella mano sinistra. Vuoi sposarmi?»
Elena è confusa, distrutta, sfinita. È spaventata da quell’uomo, ma non riesce a vedere in lui una vera minaccia. Nessuno è mai arrivato al punto di ferirsi per ottenere il suo amore. Una serie di pensieri incoerenti le affollano il cervello, ma quando la lama si appoggia sul medio riesce a destarsi da quella sorta di torpore. Con un gesto rapido evita che quel disperato possa infliggersi una nuova amputazione, poi d’istinto prende la sciarpa e prova a tamponare l’emorragia.
«Va bene Roberto, ti sposo, te lo prometto.»
Qualche giorno dopo, quando ripensa a quella strana nottata, scopre con sorpresa che non ha fatto quella promessa solo per bloccare la furia autodistruttiva di Roberto. No, la questione è un’altra: forse si è innamorata davvero di quel folle.
Elena uscì dalla stanza con gli occhi lucidi. Roberto aveva dormito tutto il tempo e non le aveva regalato un sorriso e nemmeno una parola. Niente. In quella stanza colma di dolore, aveva compreso che il miracolo di cui aveva parlato con scetticismo il professore non si sarebbe mai verificato. Cominciò a singhiozzare senza controllo, con le lacrime copiose che le deformavano la visuale. Doveva abituarsi a vivere senza di lui, non c’erano scorciatoie. All’improvviso sentì delle voci in avvicinamento e il panico affondò i denti ancor più in profondità. Non voleva farsi vedere in quello stato, così iniziò a correre per il corridoio, finché trovò una piccola porta ed entrò. Accese la luce e si ritrovò davanti a un plotone di secchi, scope e detersivi. Singhiozzò ancora più forte, col mondo che le vorticava attorno in maniera scomposta e lei dentro l’occhio del ciclone delle sue emozioni. Alla fine si accucciò per terra, di fianco alle scatole di cartone di Spic & Span e ai flaconi di candeggina. Si cinse le ginocchia con le braccia e iniziò a tremare, indecisa se resistere o prendere le sue pillole: era un po' che non le prendeva e non a caso nell’ultimo periodo era diventata più instabile e irascibile. Però da quando aveva smesso si sentiva anche più lucida. E soprattutto più viva. Nel tentativo di sciogliere quell’enigma cominciò a dondolare la testa, avanti e indietro, avanti e indietro, con gli occhi chiusi e la bocca aperta a immagazzinare aria. Magari era il caso di cercare un po' di conforto nelle nebbie della clozapina, così trafficò nella borsa con dita nervose, alla ricerca delle compresse.
«Lascia stare quella merda.»
Elena sussultò e alzò lo sguardo. Conosceva bene quella voce, le aveva fatto compagnia per tutta l’infanzia e gran parte dell’adolescenza, dopo che i suoi genitori si erano separati.
«Miao?» sussurrò con un groppo in gola.
Il gatto se ne stava innaturalmente accucciato sopra un’asta porta flebo, l’occhio destro che gli sporgeva fuori dall’orbita, come dopo l’investimento nella strada sotto casa.
«Che c’è? Ti sono mancato?» disse il felino, poi si leccò una zampa e agitò rapidamente la coda.
Era passato quasi un anno dall’ultima volta che si erano incontrati, dopo l’incidente che aveva decretato la fine della sua vita da ballerina e prima che cominciasse a seguire le prescrizioni dello psichiatra che l’aveva presa in cura. Il professor Galanti diceva che quella era soltanto una proiezione della sua mente, eppure sembrava tutto così reale.
«Non è stata colpa mia, hanno detto che non sei reale, che sei soltanto una fantasia.»
«Eppure io sono qua e ti sto parlando. Magari se avessi evitato di buttare giù tutte quelle pillole ora sapresti riconoscere la verità.»
Elena corrugò la fronte, senza comprendere.
«Non capisci, vero? Mi riferisco all’incidente.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che forse non è stato un incidente. Magari Roberto è andato a sbattere di proposito, perché era geloso e non voleva più che mostrassi le gambe agli altri. Sai come sono fatti gli uomini.»
«Stronzate! L’ho maledetto per la sua imprudenza, ma è stata solo una leggerezza, una fatalità. Quel giorno saremmo potuti morire.»
«Morire. E credi che sarebbe stato un problema così insormontabile per uno disposto ad amputarsi a una a una le dita della mano?»
«No, è stata una sventura, una disgrazia ti ho detto.»
«Mettila come vuoi, ma io so che non è così, e lo sai anche tu» disse Miao, leccandosi la zampina e passandosela sotto l’occhio sano.
«Ma perché? Lui mi amava…Diceva di amarmi.»
«Perché è così che va il mondo, il tiranno dell’insoddisfazione perpetua è sempre all’erta. Le soddisfazioni e la gloria sono soltanto per chi si è venduto l’anima, per gli altri ci sono solo le briciole.»
«Basta, non ho più voglia di starti a sentire. BASTA! BASTA!» gridò Elena, in preda a una rabbia incontrollabile. Uscì dallo sgabuzzino e corse lungo il corridoio, le mani strette a pugno attorno ai manici della borsa. Sempre correndo scese le scale e quando si trovò di fronte al portiere gli gettò in faccia le sue pillole.
«Queste sono per te. Mi raccomando, ficcatele tutte su per il culo.»
Finalmente si ritrovò all’aria aperta, lontano dall’oppressione di quelle mura velenose. Oltrepassò il cancello in ferro battuto e percorse il marciapiede per una ventina di metri, sino al cartellone pubblicitario del Cynar, dove qualche artista aveva disegnato un cazzo enorme accanto alla bottiglia d’amaro. Girò a destra e imboccò il passaggio che conduceva alla spiaggia. In fondo alla stradina, le schiene appoggiate al muro di cinta della villa, due anime infelici si stavano passando una siringa; Elena le osservò di sfuggita, pensando che la vita era per tutti una merda. Quando affondò le inutili gambe nella sabbia, camminando con difficoltà sulla superficie irregolare, si girò verso la finestra della stanza di Roberto e realizzò che la loro, sin dall’inizio, era stata una relazione infetta, capace di minare le menti e i cuori di entrambi. Si sedette sulla battigia, sfinita, il cuore ancora gonfio di tristezza e rabbia. Guardò il mare: all’orizzonte i fulmini si tuffavano in quell’oscurità liquida, rimbrottati con vigore dalla voce del tuono. Sentiva dentro di sé una smania irrefrenabile, un’energia dilagante che sbatteva contro le pareti del corpo in cerca di una via di fuga. Sopra di lei il cielo brontolò ancora, liberando finalmente la pioggia ristoratrice. Elena accolse le gocce come un segnale, si spogliò, prese una breve rincorsa e si tuffò in acqua. I fulmini erano ancora là, al largo, lontani, ma lei voleva vederli più da vicino. Magari anche toccarli.