Daniele mi trovò nei pressi di un fossato. Ero piccolo, nero e avevo le sembianze di un Border Collie col pelo lungo. Attratto dai miei guaiti, il ragazzino mi tirò fuori dal fango e mi condusse con sé verso la sua abitazione.
Mi trovai davanti una villa che conservava lo stile con cui era stata costruita parecchi anni prima. Le facciate erano abbellite con stucchi, come pure le finestre e il portone d’ingresso. Il tempo pareva essersi fermato, quello che stupiva di più erano le decorazioni che manifestavano una ricchezza che si mostrava in tutto il suo splendore.
Mi portò in braccio per una imponente scalinata e con l’aiuto di uno dei domestici mi lavò e mi disinfettò i graffi sulla zampa. Tolto il fango che mi ricopriva, il mio pelo rivelò il colore bianco e lucido che si alternava con quello nero. Daniele soddisfatto del mio aspetto mi portò a conoscere sua madre.
«Non vorrai tenere quel piccolo sgorbio cencioso!» lo apostrofò la donna. Avrei voluto rispondere per le rime, ma sapevo che nel loro mondo i cani non parlavano.
«Mamma ti prego. È piccolo! Lo terrò nello sgabuzzino in fondo al corridoio, nel piano della servitù. Fuori c’è una bufera, e quasi certamente fra poco nevicherà.»
«Già, ma gli animali non sentono mica il freddo come noi.»
Dopo numerose insistenze, Daniele ottenne dai suoi il permesso di tenermi con sé. Lo sgabuzzino, stretto e poco arioso, sarebbe diventata la mia casa, ma per me andava bene. Dopo un poco, il ragazzino mi portò una pallina per giocare e le crocchette per pranzo.
A malincuore annusai il cibo, ma quando lo assaggiai lo trovai squisito.
Intorno a me era pieno di cianfrusaglie e di scatoloni colmi di oggetti inusati. Quando rimasi da solo rovistai dappertutto. C’erano scope, strofinacci, giocattoli vecchi, ma non trovai niente che potesse essermi utile.
Avevo per letto uno scatolo vuoto rivestito con una vecchia coperta. Mi rifugiai là dentro, chiedendomi in che modo avrei dovuto compiere la mia missione.
Quando il giorno dopo Daniele aprì la porta, ero già sveglio. Lo vidi accostarsi a me e mettermi un collare. Cominciai a guaire per mostrare il mio disappunto, non mi piaceva per niente essere un giocattolo da manovrare.
«Blach, non aver paura! Voglio solo portarti con me sul prato sotto casa.»
Che dolce mi aveva dato persino un nome…
Capii che Daniele si sentiva molto solo. Lo seguii nel giardino, abbellito da aiuole di bergenie e ortensie. Si divertì un mondo con me, mi lanciava gli oggetti e io glieli riportavo. Poi iniziò a correre con la bici e mi incitò a raggiungerlo.
«Forza Black, dobbiamo raggiungere il traguardo, accanto a cancello d’entrata, in cinque minuti.»
Io abbaiai in segno d’intesa. Avevo trovato un amico.
Lo sgabuzzino in cui mi avevano relegato aveva una porta che rimaneva chiusa, però senza chiave. Mettendo in opera le mie capacità riuscii ad aprirla e a gironzolare nella villa. Era davvero maestosa, le finestre accoglievano la luce solare e le stanze rifinite con affreschi ricche di colori tenui con rappresentazioni che ricordavano la delicatezza della natura.
La madre di Daniele trovandomi a curiosare per le stanze lanciò un urlo.
Una domestica accorse per vedere cosa fosse successo.
«Il cane… il cane è uscito dallo sgabuzzino. Riportalo subito là dentro!»
La donna mi raccolse con grazia e allungò persino una carezza sulla mia testa mentre mi riportava nella mia casa - prigione. Era bello sentirsi coccolati.
Il giorno dopo Daniele tornò con lo stesso collare del giorno prima.
«Allora, sei pronto per scendere a giocare con me?» disse con la voce stridula, che non riusciva a contenere il suo entusiasmo.
Io mi ero acquattato a terra e non volevo smuovermi, nonostante lui insistesse tirandomi per il collare.
«Ti prego!» disse alla fine, non sapendo più che fare.
«Va bene, vengo! Però toglimi questo affare dal collo. Non lo sopporto!» esclamai.
Spalancò gli occhi.
«Cosa? non è possibile! Tu, parli.»
«Voglio dirti la verità, Daniele. Io non sono un terrestre e nemmeno un simpatico cagnolino. Questo è solo il mio aspetto per poter stare qui senza spaventarti. Vengo da Argos, un pianeta molto lontano da qui.
Daniele si stropicciò gli occhi credendo di sognare.
«È straordinario, nessuno mi crederà…» disse strabiliato.
«Non devi pensare neanche lontanamente a rivelarlo a qualcuno. Sarà il segreto che sancirà la nostra amicizia. È importante che noi due possiamo comunicare per il periodo che resterò su questo pianeta.»
Daniele promise di rimanere zitto, ma si vedeva che era confuso. Come tutti i bambini subiva il fascino del mistero e avere come amico un cane parlante che diceva di provenire da un altro pianeta, per lui era una gran cosa. Era orgoglioso di quel segreto che avrebbe spifferato volentieri, ma per indole era fedele alle promesse. Di certo non avrebbe rivelato la mia identità.
Ora che avevo una casa e la fiducia delle persone che ci vivevano, dovevo creare una piccola base per poter comunicare con i miei superiori. Non avendo a disposizione gli strumenti che usavamo su Argos, avevo bisogno di alcuni oggetti che comunque mi avrebbero permesso di stabilire un contatto.
Quando Daniele venne a prendermi per portarmi con sé, per il solito appuntamento al giardino, gli dissi che mi occorreva uno specchio, un pennarello e una torcia. Mi guardò meravigliato, poi sorrise e mi disse che mi avrebbe accontentato, ma prima ci aspettavano le nostre scorribande sul prato.
Dopo aver corso a lungo Daniele mi venne vicino e mi accarezzò.
«Bravo Black! Ora ti procuro quello che mi hai chiesto. Adesso torniamo dentro e tu mi aspetti nello sgabuzzino.»
Tornai nel mio rifugio. Daniele accostò la porta senza chiuderla. Quando tornò mi preparai per stabilire il collegamento. Daniele volle essere presente. Per lui era una cosa talmente affascinante che non riuscii a mandarlo via. Non avevo troppo tempo a disposizione, dovevo conoscere il motivo per cui ero stato mandato su questo pianeta.
Accesi la torcia dirigendo un fascio di luce sullo specchio, col pennarello scrissi una frase dopo l’altra nella mia lingua madre.
Daniel affascinato vide le parole scritte scomparire e al loro posto venire sostituite da altre di un colore diverso, ma tutte indecifrabili, perché formate da quelli che ai suoi occhi sembravano strani segni.
Dopo che ebbi scambiato alcune istruzioni con i comandanti della mia stazione spaziale, Daniele mi chiese cosa mi era stato ordinato di fare.
«Non posso rivelarti nulla! Però mi hanno detto che posso restare con te ancora per un poco.»
«Ma come? Ti metti in contatto con esseri di un altro pianeta e non vuoi dirmi niente, sto morendo dalla curiosità.»
«Loro mi hanno rivelato quello che è il mio compito. Posso solo dirti che ti proteggerò.»
«Accadrà qualcosa di brutto?»
A quel punto mi cucii la bocca e cominciai a guaire e a ululare come l’animale di cui avevo preso le sembianze.
«Ho capito, amico mio. Quando avrai voglia di parlare me lo dirai» disse il ragazzo andando via.
“Chissà quanti sogni misteriosi, avrebbe fatto quella sera” pensai, mentre riaccendevo la torcia, collegandomi con la sede del terzo dipartimento, BZ234, di cui facevo parte.
Particella 34 la tua missione si avvicina.
Presto troverai la capsula perduta cento anni or sono durante una missione del comandante Kover. Lì sono conservate le preziose scoperte sull’accelerazione delle particelle elettromagnetiche che aveva fatto e che non sono riuscite ad arrivare fino a noi.
Il giorno 23 novembre 1980 l’umano Daniele si recerà sul posto portandoti con sé. Dovrai aspettare solo l’evolvere degli eventi. Comandante Alden.
Risposi immediatamente:
Ricevuto Particella 34, nome umano Black.
Ecco mi diceva quando, ma non mi diceva come. Si avvicinava il giorno fatidico. Daniele aveva ricevuto l’invito a passare la domenica con i nonni, naturalmente sarebbe andata tutta la famiglia.
Nonostante le insistenze del bambino, i genitori non vollero che andassi con loro. Avevo promesso a Daniele di stargli accanto e anche la mia missione prevedeva che io fossi con lui. Prima che andasse via gli andai incontro scodinzolando e mi feci rivelare il nome del posto dove sarebbe andato. Era un paese che si chiamava Lioni e con l’auto ci voleva circa un’ora dalla villa. I nonni abitavano nella piazza principale, accanto al palazzo del comune.
Non gli dissi che sarei andato anch’io. Mi sarei smaterializzato e in attimo avrei raggiunto il posto.
Rimasto da solo andai nello sgabuzzino e mi collegai col comandante Alden, chiedendogli tutti i dati possibili sulla posizione della capsula perduta che dovevo ritrovare.
All’ora stabilita raggiunsi Daniele e la sua famiglia. Abbaiai sotto la finestra, con la speranza di farli affacciare.
Nonostante la finestra chiusa, Daniele mi sentì e corse giù per le scale.
«Black sei arrivato!» esclamò, abbracciandomi.
«Presto! Devi attirare i tuoi in strada, non posso dirti perché. Grida, dici che ti sei fatto male, ma falli scendere!»
Il ragazzo che si fidava di me citofonò ai suoi e gridando disse di essere caduto e che gli faceva male un piede.
«Aiuto! Venite tutti giù. Non riesco a muovermi!» ripeteva agitato.
I genitori e la nonna scesero di corsa, il nonno che era più anziano e poco agile, rimase sulla sua poltrona.
Improvvisamente le mura cominciarono a oscillare, le serrande dei negozi chiusi a sbattere furiosamente. Tutto durò pochi minuti. Le mura crollavano, le persone scappavano, restando al centro strada per paura dei calcinacci. Daniele, i genitori e la nonna trovarono riparo in un campo vicino, dove avevano parcheggiato la loro auto. Il nonno rimase sotto le macerie delle casa crollata.
Volevo cercarlo, ma dovevo portare a termine la mia missione. Accanto a quello che era stato il palazzo comunale, tra cumuli di calcinacci e i detriti, intravidi una specie di galleria. La imboccai. Grazie alle mie dimensioni modeste riuscii a percorrerla, fino a che un cumulo di pietre sbarrò il mio cammino. Con le zampe cominciai a scavare, la polvere riempiva tutto intorno sollevandosi, rendendo difficile ogni azione, ma a un tratto urtai qualcosa di metallico. Avevo trovato la capsula. Cominciai a scavare con maggior foga, fino a che non riuscii a trovare lo sportello d’entrata che si apriva con un codice che avevo memorizzato. Fu allora che sentii lì vicino un lamento.
Qualcuno era sepolto sotto le macerie. Determinata la direzione dalla quale provenivano accorsi immediatamente. Afferrai la mano di una persona e scavando con le zampe riuscii a fare in modo che uscisse dal cumulo sotto il quale era stata sepolta.
I volontari giunti per i soccorsi erano appena arrivati.
«Bravo, cane!» disse qualcuno e mi sorrise con gli occhi lucidi.
Avrei voluto salvare tutte le persone rimaste sotto i detriti, ma non potevo, dovevo compiere la mia missione.
Ritornai alla capsula e digitai il codice per poter entrare. Lo sportello si aprì e saltai dentro la capsula.
In pochi istanti la navicella mi portò nello spazio. Accesi la radio e contattai il mio comandante.
Particella 34 a rapporto. Missione compiuta.
Arrivato alla base ritornai nel mio aspetto di sempre. Mi portarono nel laboratorio del nostro dipartimento dove un dottore mi avrebbe sottoposto a un trattamento particolare per la perdita della memoria.
«I terrestri sono molto emotivi e potrebbero averti contaminato» aveva detto il comandante Alden.
Pensai a quante carezze e sorrisi avevo ricevuto, agli abbracci di Daniele. Da quel momento non avrei potuto ricordare più nulla di quanto avvenuto durante il mio viaggio sulla Terra.