Quando si dice: un colpo di fortuna.
È quello che pensava il giovane Vincent Simon mentre, in quella fresca giornata d’inizio novembre, percorreva a passo svelto la strada che lo portava dallo studio del notaio Aristide Rodin in Rue de Valois, in direzione dell’appartamento al numero 27 della vicina Rue d’Aboukir.
Un ragazzetto, vestito in modo dimesso, gli offrì una copia del Figaro. Rifiutò l’offerta, ma ebbe il tempo di notare i titoli di prima pagina che annunciavano il crollo, avvenuto negli ultimi giorni, alla Borsa di New York. Il sottotitolo era: “Allarme sulle borse europee”.
Se c’era una cosa su cui non aveva bisogno di spiegazioni e di avvisi era proprio il rischio di una crisi economica e occupazionale. Da alcuni giorni era stato licenziato dal posto di commesso in un negozio di articoli di abbigliamento per uomo. Era un negozio che vendeva stoffe pregiate per sartoria, oltre ad altri articoli per uomo piuttosto costosi. La crisi incombente aveva causato una riduzione drastica delle vendite e Vincent, che era il più giovane commesso, era stato licenziato per primo.
Era uscito dallo studio del notaio con il morale alle stelle, riportando con sé due oggetti, uno abbastanza ingombrante e impegnativo, l’altro molto meno. Capiva perfettamente lo stato d’animo di un vincitore della lotteria nazionale che da povero cristo si fosse ritrovato improvvisamente milionario. Non sarebbe stato proprio milionario ma la sua vita nell’immediato futuro avrebbe assunto tutto un altro sapore, tutto un altro profumo. Certo… c’era quella condizione, quell’incognita… ma non gli pareva gran cosa.
È quello che pensava il giovane Vincent Simon mentre, in quella fresca giornata d’inizio novembre, percorreva a passo svelto la strada che lo portava dallo studio del notaio Aristide Rodin in Rue de Valois, in direzione dell’appartamento al numero 27 della vicina Rue d’Aboukir.
Un ragazzetto, vestito in modo dimesso, gli offrì una copia del Figaro. Rifiutò l’offerta, ma ebbe il tempo di notare i titoli di prima pagina che annunciavano il crollo, avvenuto negli ultimi giorni, alla Borsa di New York. Il sottotitolo era: “Allarme sulle borse europee”.
Se c’era una cosa su cui non aveva bisogno di spiegazioni e di avvisi era proprio il rischio di una crisi economica e occupazionale. Da alcuni giorni era stato licenziato dal posto di commesso in un negozio di articoli di abbigliamento per uomo. Era un negozio che vendeva stoffe pregiate per sartoria, oltre ad altri articoli per uomo piuttosto costosi. La crisi incombente aveva causato una riduzione drastica delle vendite e Vincent, che era il più giovane commesso, era stato licenziato per primo.
Era uscito dallo studio del notaio con il morale alle stelle, riportando con sé due oggetti, uno abbastanza ingombrante e impegnativo, l’altro molto meno. Capiva perfettamente lo stato d’animo di un vincitore della lotteria nazionale che da povero cristo si fosse ritrovato improvvisamente milionario. Non sarebbe stato proprio milionario ma la sua vita nell’immediato futuro avrebbe assunto tutto un altro sapore, tutto un altro profumo. Certo… c’era quella condizione, quell’incognita… ma non gli pareva gran cosa.
Era convinto che quella convocazione dal notaio nascondesse guai in arrivo. Per questo aveva salito i gradini dell’ampia scala con animo incerto.
«Buongiorno signor Simon, si accomodi», lo accolse cordialmente il notaio.
«Che è successo?» Chiese con malcelata preoccupazione.
Aristide Rodin era un uomo di una certa età, elegante e di bella presenza. Era l’opposto dell’immagine di notaio che si era prefigurata: quella di un vecchietto decrepito e cadente. Anche l’ufficio, seppure austero, non mostrava quell’atmosfera polverosa e stantìa che si sarebbe aspettato di trovare. L’unica cosa che lo colpì e che gli parve veramente fuori contesto, fu invece un grosso oggetto rotondeggiante, appoggiato su un tavolinetto a tre zampe e coperto da un telo colorato di trama abbastanza spessa.
«Che è successo?» Chiese con malcelata preoccupazione.
Aristide Rodin era un uomo di una certa età, elegante e di bella presenza. Era l’opposto dell’immagine di notaio che si era prefigurata: quella di un vecchietto decrepito e cadente. Anche l’ufficio, seppure austero, non mostrava quell’atmosfera polverosa e stantìa che si sarebbe aspettato di trovare. L’unica cosa che lo colpì e che gli parve veramente fuori contesto, fu invece un grosso oggetto rotondeggiante, appoggiato su un tavolinetto a tre zampe e coperto da un telo colorato di trama abbastanza spessa.
«Purtroppo, devo darle una brutta notizia».
«Ecco, lo sapevo», pensò….
«Devo comunicarle il decesso improvviso di sua zia».
«Mia… zia?» La mente stentò un bel po’ prima di mettersi in movimento.
«Sì, sua zia Marie Delacroix, la sorella di sua madre, buon’anima. Ma sì, capisco. Immagino che in casa abbiate parlato sempre poco di lei. Per una famiglia della piccola borghesia parigina, come la sua, mi rendo conto che l’esistenza di Marie doveva creare qualche imbarazzo».
Uno spiraglio di luce illuminò la mente confusa di Vincent. Ma certo! Sua madre aveva una sorella, un tipo ribelle che se n’era andata di casa molto presto. In famiglia gli avevano sempre detto che di lei si erano perse le tracce. Qualcuno aveva riferito che la ragazza era partita per le Americhe e non si era più fatta viva.
«Forse, Nini Sauvage, il suo nome d’arte, le dirà qualcosa in più».
«Come? Nini Sauvage? Un momento… ricordo questo nome. Era su una vecchia locandina che ho visto esposta al Moulin Rouge, una delle poche volte che mi sono potuto permettere di andarci… Vuol dire che Nini Sauvage era zia Marie?», chiese esterrefatto Vincent.
«Sì, proprio lei. Gran bella donna. Le confesso che io stesso andavo al Moulin Rouge tutte le volte che c’era un suo spettacolo, solo per vedere lei. Tutti andavano lì per vedere Mistinguett e io invece ci andavo soltanto le sere in cui si esibiva Nini. Era una bravissima ballerina, con una voce stupenda. Mistinguett era la regina del Moulin Rouge e Marie non trovava lo spazio che meritava e così preferì esibirsi in tutti gli altri locali di Parigi. Credo di averli girati tutti in quegli anni. Creda a me, all’epoca ci fu gente che si rovinò per lei. Questo spiega anche l’entità del suo patrimonio. Lei mi capisce… Chi avrebbe mai pensato che sarebbe morta così prematuramente. Quante rose rosse le ho mandato a fine spettacolo. Beh… acqua passata. Ma veniamo a noi».
«È incredibile», mormorò Vincent, con un filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto. «come avrei potuto collegare quel nome a lei…»
«Dunque, Signor Vincent… Marie, sebbene a distanza, ha sempre seguito le vicende della famiglia ed era a conoscenza che lei era l’unico parente che le era rimasto, dopo la perdita dei suoi genitori. Così ha deciso di lasciare proprio a lei l’abitazione di Rue d’Aboukir, oltre a una cospicua rendita annua prodotta dal suo patrimonio finanziario che le consentirà di vivere tranquillamente. Ecco, questa è la chiave dell’appartamento. Lei dovrà soltanto firmare per accettazione questo documento che contiene un vincolo, un impegno preciso, senza il quale non mi sarà possibile dare seguito alle volontà testamentarie».
Vincent sentiva la testa che gli scoppiava. Troppe cose insieme nello stesso giorno. Cercava di raccogliere le idee ma sembrava che qualcuno o qualcosa interrompesse ogni suo sforzo, come una mano che cancella su una lavagna una frase appena iniziata, prima che assuma un senso compiuto.
«Mi scusi signor notaio, ma… quale sarebbe il vincolo, l’impegno?»
A questo punto Rodin si alzò dalla poltrona, si diresse con passo lento verso il tavolinetto a tre zampe e sollevò di scatto, con un gesto da prestigiatore, il telo che copriva “l’oggetto”. «Questo!»
Un grido acuto risuonò nella stanza e una voce quasi umana esclamò: “Can-can! Buongiorno!”.
Vincent saltò dalla sedia: «Un pappagallo?»
«Un “ara gialloblù” o “ara ararauna”, per l’esattezza», precisò impassibile il notaio. «Si chiama Javert, sa… come l’ispettore de “I Miserabili”. Fu un dono di un ammiratore di sua zia. Lei gli era molto affezionata e quando si ammalò volle assicurarsi che alla sua dipartita Javert trovasse un nuovo padrone attento e premuroso. E qui sta appunto il vincolo».
«Credo di aver capito, signor notaio; la condizione di questo lascito consiste nell’adottare Javert».
«Beh… in realtà c’è qualcosa in più. Sua zia ha posto la condizione che la disponibilità della casa e della rendita annua cessino al momento in cui Javert venisse a mancare, per qualunque ragione. Se si verificasse questo infausto evento, tutto il patrimonio e la relativa rendita dovranno essere donati in beneficienza all’ospedale Hôtel-Dieu di Parigi. Sarà mio compito verificare periodicamente il buon stato di salute e la permanenza in vita di Javert».
Sentendo il suo nome l’animale si mise di nuovo a strillare: «Javert! Javert! Moulin Rouge! Buongiorno! Come stai?», fino a che il notaio non ricoprì con il telo la grossa gabbia.
«Mi spieghi meglio», bisbigliò Vincent, come imbambolato, «dunque se ho capito bene se, per una sfortunata circostanza, Javert morisse o… volasse via, perderei immediatamente ogni beneficio…»
«Proprio così», sentenziò il notaio, «ma non si preoccupi, Javert è abbastanza giovane e questa razza di pappagalli può raggiungere anche i settanta anni d’età. Vedrà che, se lo accudirà come si deve, avrete ancora molti anni da passare felicemente insieme».
«Mia… zia?» La mente stentò un bel po’ prima di mettersi in movimento.
«Sì, sua zia Marie Delacroix, la sorella di sua madre, buon’anima. Ma sì, capisco. Immagino che in casa abbiate parlato sempre poco di lei. Per una famiglia della piccola borghesia parigina, come la sua, mi rendo conto che l’esistenza di Marie doveva creare qualche imbarazzo».
Uno spiraglio di luce illuminò la mente confusa di Vincent. Ma certo! Sua madre aveva una sorella, un tipo ribelle che se n’era andata di casa molto presto. In famiglia gli avevano sempre detto che di lei si erano perse le tracce. Qualcuno aveva riferito che la ragazza era partita per le Americhe e non si era più fatta viva.
«Forse, Nini Sauvage, il suo nome d’arte, le dirà qualcosa in più».
«Come? Nini Sauvage? Un momento… ricordo questo nome. Era su una vecchia locandina che ho visto esposta al Moulin Rouge, una delle poche volte che mi sono potuto permettere di andarci… Vuol dire che Nini Sauvage era zia Marie?», chiese esterrefatto Vincent.
«Sì, proprio lei. Gran bella donna. Le confesso che io stesso andavo al Moulin Rouge tutte le volte che c’era un suo spettacolo, solo per vedere lei. Tutti andavano lì per vedere Mistinguett e io invece ci andavo soltanto le sere in cui si esibiva Nini. Era una bravissima ballerina, con una voce stupenda. Mistinguett era la regina del Moulin Rouge e Marie non trovava lo spazio che meritava e così preferì esibirsi in tutti gli altri locali di Parigi. Credo di averli girati tutti in quegli anni. Creda a me, all’epoca ci fu gente che si rovinò per lei. Questo spiega anche l’entità del suo patrimonio. Lei mi capisce… Chi avrebbe mai pensato che sarebbe morta così prematuramente. Quante rose rosse le ho mandato a fine spettacolo. Beh… acqua passata. Ma veniamo a noi».
«È incredibile», mormorò Vincent, con un filo di voce e lo sguardo perso nel vuoto. «come avrei potuto collegare quel nome a lei…»
«Dunque, Signor Vincent… Marie, sebbene a distanza, ha sempre seguito le vicende della famiglia ed era a conoscenza che lei era l’unico parente che le era rimasto, dopo la perdita dei suoi genitori. Così ha deciso di lasciare proprio a lei l’abitazione di Rue d’Aboukir, oltre a una cospicua rendita annua prodotta dal suo patrimonio finanziario che le consentirà di vivere tranquillamente. Ecco, questa è la chiave dell’appartamento. Lei dovrà soltanto firmare per accettazione questo documento che contiene un vincolo, un impegno preciso, senza il quale non mi sarà possibile dare seguito alle volontà testamentarie».
Vincent sentiva la testa che gli scoppiava. Troppe cose insieme nello stesso giorno. Cercava di raccogliere le idee ma sembrava che qualcuno o qualcosa interrompesse ogni suo sforzo, come una mano che cancella su una lavagna una frase appena iniziata, prima che assuma un senso compiuto.
«Mi scusi signor notaio, ma… quale sarebbe il vincolo, l’impegno?»
A questo punto Rodin si alzò dalla poltrona, si diresse con passo lento verso il tavolinetto a tre zampe e sollevò di scatto, con un gesto da prestigiatore, il telo che copriva “l’oggetto”. «Questo!»
Un grido acuto risuonò nella stanza e una voce quasi umana esclamò: “Can-can! Buongiorno!”.
Vincent saltò dalla sedia: «Un pappagallo?»
«Un “ara gialloblù” o “ara ararauna”, per l’esattezza», precisò impassibile il notaio. «Si chiama Javert, sa… come l’ispettore de “I Miserabili”. Fu un dono di un ammiratore di sua zia. Lei gli era molto affezionata e quando si ammalò volle assicurarsi che alla sua dipartita Javert trovasse un nuovo padrone attento e premuroso. E qui sta appunto il vincolo».
«Credo di aver capito, signor notaio; la condizione di questo lascito consiste nell’adottare Javert».
«Beh… in realtà c’è qualcosa in più. Sua zia ha posto la condizione che la disponibilità della casa e della rendita annua cessino al momento in cui Javert venisse a mancare, per qualunque ragione. Se si verificasse questo infausto evento, tutto il patrimonio e la relativa rendita dovranno essere donati in beneficienza all’ospedale Hôtel-Dieu di Parigi. Sarà mio compito verificare periodicamente il buon stato di salute e la permanenza in vita di Javert».
Sentendo il suo nome l’animale si mise di nuovo a strillare: «Javert! Javert! Moulin Rouge! Buongiorno! Come stai?», fino a che il notaio non ricoprì con il telo la grossa gabbia.
«Mi spieghi meglio», bisbigliò Vincent, come imbambolato, «dunque se ho capito bene se, per una sfortunata circostanza, Javert morisse o… volasse via, perderei immediatamente ogni beneficio…»
«Proprio così», sentenziò il notaio, «ma non si preoccupi, Javert è abbastanza giovane e questa razza di pappagalli può raggiungere anche i settanta anni d’età. Vedrà che, se lo accudirà come si deve, avrete ancora molti anni da passare felicemente insieme».
Vincent proseguiva velocemente verso Rue d’Abukir, tenendo stretta nella mano sinistra la chiave dell’abitazione di zia Marie e con la destra il gancio della gabbia che manteneva accuratamente coperta dal telo, per nascondere alla curiosità della gente quell’esotico compagno di viaggio, ma soprattutto per evitare che l’animale si esibisse di nuovo nel suo repertorio di urla scatenate che gli avrebbero procurato un certo imbarazzo.
Il dolore alle dita, causato dal gancio passò di colpo quando Vincent arrivo all’altezza del numero 27. Si aspettava di trovare un appartamentino di modeste dimensioni nel centro storico, come ci si poteva aspettare per una donna che viveva sola e rimase invece stupito nel constatare che la casa della zia era un bellissimo villino a due piani in stile “art nouveau”, di costruzione abbastanza recente. Aprendo la porta d’ingresso vide che anche l’interno era arredato con mobili di pregio, sempre nello stesso stile che ormai imperversava in quegli anni.
La prima cosa che fece fu quella di appoggiare a terra la gabbia e cercare di riattivare la circolazione alle dita della mano che non davano più segni di vita. Il telo scivolò verso il basso e non aveva ancora toccato terra che Javert, alla vista della luce, si mise di nuovo a gridare come un ossesso: “Buonanotte Marie!!! Galop! Galop! Avanti signori!...” oltre a una sequela di suoni gutturali che Vincent non fu in grado di decifrare.
«Zitto! Zitto!», gridava Vincent disperato, tappandosi le orecchie. Si guardò intorno e vide in fondo all’ingresso, accanto alla porta che conduceva alla sala, una porticina. L’aprì. Era uno sgabuzzino senza finestre, usato probabilmente come ripostiglio. Con un balzo prese la gabbia e l’appoggiò sul pavimento dello stanzino, richiudendo rapidamente la porta. Solo allora le grida di Javert si fermarono.
Fu in quel momento che si rese conto con assoluta certezza che quella convivenza sarebbe stata problematica. Provava una profonda avversione nei confronti di quel suo variopinto “vincolo testamentario”. Da quel momento avrebbe dedicato tutte le energie alla causa della liberazione da quell’impiccio che percepiva come il suo persecutore e lui, Vincent, si sentiva proprio come il Jean Valjean della situazione.
Soltanto ora riusciva a interpretare quel lieve ghigno di soddisfazione sul volto del notaio Rodin quando si era congedato, portandosi via quel pesante fardello.
Nei giorni che seguirono Vincent dovette affrontare il trasloco e tutte le incombenze del caso. In casa aveva trovato una specie di trespolo di legno con un porta-ciotola e una larga base fornita di rotelle. Una volta estratto Javert dalla gabbia lo aveva sistemato nell’ingresso di casa sul trespolo, rifornendolo di tutto il cibo necessario, secondo un menu preciso che gli era stato consegnato dal notaio.
Fino dai primi giorni si era reso conto che l’animale, pur facendosi ritrovare disciplinatamente sempre al proprio posto al suo rientro in casa, durante la sua assenza svolazzava tranquillamente un po’ovunque, lasciando dappertutto tracce consistenti del proprio passaggio. Per limitare i danni lo aveva dotato di una catenella metallica che aveva fermato a una zampa e a un occhiello di ferro avvitato sul trespolo. Un’imbottitura di vecchi giornali alla base del trespolo agevolava le pulizie giornaliere.
Inutile dire che quello sgabuzzino era l’ancora di salvezza di Vincent. Appena rientrava in casa e il pappagallo cominciava a squarciagola a sciorinare il suo repertorio, apriva la porticina e lo chiudeva là dentro.
L’animale aveva imparato ben presto il nome del nuovo padrone e lo intercalava spesso nell’elenco delle sue parole preferite: “Can-can! Merda! Galop! Buongiorno Maria! Vincent! Buonanotte, signori!” Non solo, ma Vincent si rese presto conto che Javert era anche in grado di collegare quelle parole con una certa logica.
Se ne se rese conto nel modo più diretto, personale e inconfutabile quella volta in cui, ritornato a casa, si precipitò, come sempre, a spostare il trespolo verso lo sgabuzzino. Javert che già stava strillando, cambiò registro: “Vincent! Vincent! Merda!!! Merda!!!”
A quel punto risultò evidente che l’antipatia era reciproca.
Nonostante le difficoltà di convivenza, nelle settimane seguenti tutto si svolse con regolarità, con la stessa regolarità del flusso mensile della rendita e niente faceva presagire il dramma incombente.
Era la metà di dicembre e Vincent uscì di buon’ora, approfittando del timido sole. Fece una lunga passeggiata fino alle Halles, godendosi quell’inaspettato tepore quasi primaverile. Poi incontrò alcuni amici che appartenevano a facoltose famiglie borghesi di Parigi. La sua nuova situazione economica gli aveva fatto allargare la propria cerchia di conoscenze fra le famiglie influenti della città. Con loro pranzò in un locale alla moda sul Lungosenna e tutti insieme bighellonarono in giro per tutto il pomeriggio.
Decisero poi di andare al Moulin Rouge a passare la serata, per assistere al nuovo spettacolo in programmazione.
Rientrò in casa alle due di notte, aprì la porta e girò l’interruttore. La luce illuminò l’ingresso e stavolta, per la prima volta, non sentì le solite grida di Javert. In un attimo si rese conto della situazione. Uscendo assonnato alle prime ore del mattino si era completamente dimenticato dell’ospite dello sgabuzzino e lo aveva lasciato per tutto il giorno chiuso là dentro.
Si precipitò ad aprire la porta dello stanzino e lo spettacolo che gli si parò davanti fu terrificante. Il corpo senza vita del povero Javert pendeva dal trespolo, appeso alla catenella che gli era rimasta attorcigliata attorno al collo. Il pappagallo, con la lingua fuori dal becco, sembrava guardare con gli occhi sbarrati in direzione di Vincent, con un’espressione nella quale al giovane parve leggere biasimo e rimprovero. Ovunque piume gialle e blu.
Inutile dire che quello sgabuzzino era l’ancora di salvezza di Vincent. Appena rientrava in casa e il pappagallo cominciava a squarciagola a sciorinare il suo repertorio, apriva la porticina e lo chiudeva là dentro.
L’animale aveva imparato ben presto il nome del nuovo padrone e lo intercalava spesso nell’elenco delle sue parole preferite: “Can-can! Merda! Galop! Buongiorno Maria! Vincent! Buonanotte, signori!” Non solo, ma Vincent si rese presto conto che Javert era anche in grado di collegare quelle parole con una certa logica.
Se ne se rese conto nel modo più diretto, personale e inconfutabile quella volta in cui, ritornato a casa, si precipitò, come sempre, a spostare il trespolo verso lo sgabuzzino. Javert che già stava strillando, cambiò registro: “Vincent! Vincent! Merda!!! Merda!!!”
A quel punto risultò evidente che l’antipatia era reciproca.
Nonostante le difficoltà di convivenza, nelle settimane seguenti tutto si svolse con regolarità, con la stessa regolarità del flusso mensile della rendita e niente faceva presagire il dramma incombente.
Era la metà di dicembre e Vincent uscì di buon’ora, approfittando del timido sole. Fece una lunga passeggiata fino alle Halles, godendosi quell’inaspettato tepore quasi primaverile. Poi incontrò alcuni amici che appartenevano a facoltose famiglie borghesi di Parigi. La sua nuova situazione economica gli aveva fatto allargare la propria cerchia di conoscenze fra le famiglie influenti della città. Con loro pranzò in un locale alla moda sul Lungosenna e tutti insieme bighellonarono in giro per tutto il pomeriggio.
Decisero poi di andare al Moulin Rouge a passare la serata, per assistere al nuovo spettacolo in programmazione.
Rientrò in casa alle due di notte, aprì la porta e girò l’interruttore. La luce illuminò l’ingresso e stavolta, per la prima volta, non sentì le solite grida di Javert. In un attimo si rese conto della situazione. Uscendo assonnato alle prime ore del mattino si era completamente dimenticato dell’ospite dello sgabuzzino e lo aveva lasciato per tutto il giorno chiuso là dentro.
Si precipitò ad aprire la porta dello stanzino e lo spettacolo che gli si parò davanti fu terrificante. Il corpo senza vita del povero Javert pendeva dal trespolo, appeso alla catenella che gli era rimasta attorcigliata attorno al collo. Il pappagallo, con la lingua fuori dal becco, sembrava guardare con gli occhi sbarrati in direzione di Vincent, con un’espressione nella quale al giovane parve leggere biasimo e rimprovero. Ovunque piume gialle e blu.
Il fatto, come prevedibile, segnò profondamente la vita del giovane Vincent. La mattina dell’ultimo dell’anno ricevette questa scarna comunicazione:
Parigi, 30 dicembre 1929
Egregio Signor Vincent Simon,
mi duole comunicarLe che, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie della defunta Signorina Marie Delacroix, stante il decesso accertato del pappagallo Ara, meglio conosciuto con il nome di Javert, dal prossimo mese di gennaio 1930 cesserà l’erogazione della rendita mensile a Suo favore. A partire dallo stesso mese il villino al numero 27 di Rue d’Abukir dovrà essere lasciato libero da persone e cose non costituenti il corredo originario dell’immobile.
Deferenti ossequi,
Aristide Rodin, Notaio a Parigi
mi duole comunicarLe che, in ottemperanza alle disposizioni testamentarie della defunta Signorina Marie Delacroix, stante il decesso accertato del pappagallo Ara, meglio conosciuto con il nome di Javert, dal prossimo mese di gennaio 1930 cesserà l’erogazione della rendita mensile a Suo favore. A partire dallo stesso mese il villino al numero 27 di Rue d’Abukir dovrà essere lasciato libero da persone e cose non costituenti il corredo originario dell’immobile.
Deferenti ossequi,
Aristide Rodin, Notaio a Parigi
Negli anni successivi Vincent ebbe modo di rimuginare sull’accaduto, su quelle poche settimane di benessere di cui aveva goduto, sul rapporto conflittuale con Javert e aveva maturato nel tempo, una convinzione che si era trasformata in certezza e che nessuno gli avrebbe mai potuto togliere dalla mente: l’animale lo odiava e, consapevole delle conseguenze, e proprio per questo, aveva scelto il suicidio.