Volevo attraversare le nuvole.
Un’ultima volta.
Non posso andare in aereo, la malattia che mi sta rubando tutto non me lo consente più.
Niente più gambe per scarpinare sui sentieri, le braccia per cingere il tronco di un vecchio albero sono così pesanti... ma le mani per sentire quel niente che le nuvole lasciano sulla pelle ancora funzionano.
Volevo andare là in cima, un’ultima volta.
Prima che un letto mi prenda prigioniera per il poco tempo che mi è rimasto, per sentire le goccioline fresche e leggere sul viso, asciugate da un vento gentile, che profuma del bosco che ha attraversato.
Ti ho chiesto di andarci stamattina, che era nuvoloso.
Erano belle le nuvole! Non saranno state quelle soffici e cotonose in cui si tuffano gli aerei per i viaggi che non farò più, ma mi avrebbero nascosto il mondo da cui tu mi vuoi nascondere, un mondo che non potrò più esplorare e che chissà, forse, si sarebbe mostrato un’ultima volta quando le nuvole si fossero dissolte, per un ultimo saluto.
Ma tu ti vergogni di me, ora. Prima ero bella, solare, un bel trofeo da mostrare agli amici, orgoglioso del mio sorriso che – dicevi - illumina le foto, come mi avessi creata tu, ma non della mia anima che calpestavi ogni giorno.
Ora non valgo più uno scatto, neanche uno che poi con un clic cancelli: il mio sorriso è diventato una smorfia, la sedia a rotelle non è fotogenica, i pantaloni hanno preso il posto delle gonne colorate.
No, bisognava andarci ora, col sole, perché il paesaggio lui sì che è fotogenico, da mostrare soddisfatto agli amici, prima gita dopo tanto tempo chiuso in casa.
A farmi da badante. Ti ho sentito mentre ti lamentavi della disgrazia, cioè io, che era capitata, immeritatamente, proprio a te.
Maschio insicuro ed egoista, non uomo disposto a sacrificarsi per qualche mese, perché lo so che è quello il poco che mi rimane.
Sai, non ci è voluto molto a capire che con qualche euro hai convinto l’addetto a dirmi che io non potevo salire sulla cabina, con la carrozzina… la piccola bombola di ossigeno era pericolosa… ci sono tempi da rispettare per far salire e scendere la gente, quella sana.
Un intralcio.
Eppure, il regolamento che ora sto leggendo, perché ci vedo ancora bene, non dice nulla in proposito.
Sai chi è stato più uomo di te? Un bambino di otto anni, che quando ha visto le mie lacrime di frustrazione ha chiesto ai suoi genitori di aspettare: “Saliamo dopo, facciamo un po’ compagnia a questa signora, che piange perché non può salire nella cabina. Tanto c’è tempo, dai papà, andiamo dopo.” Mi ha anche regalato un pupazzetto, un piccolo gnomo di stoffa.
Ora sono qui con me, mi accompagneranno loro a casa.
Perfetti sconosciuti.
Quando l’addetto alla funivia ha ricevuto l’allarme per la cabina che è precipitata, mi hanno portato via. Da qui non si vedeva nulla, neanche la polvere sollevata da vostro precipitare… nessun suono di metallo, nessun urlo. Neanche il silenzio assordante che ci sarà, ma mi hanno portato via, per proteggermi. Perfetti sconosciuti mi proteggono, come avresti dovuto fare tu.
O forse è il modo con cui vogliono ringraziarmi, perché è per farmi compagnia che sono vivi, che stasera dormiranno abbracciati al loro bambino, tutti assieme nel lettone. Vivi.
Troveranno la tua amata macchina fotografica, con gli ultimi scatti, così studiati, che avranno riempito i tuoi ultimi pensieri, in cui per me non c’era più posto.