Non potrei girare le riprese in un dannato luogo e in un periodo migliore di dove sono nata già incazzata, poi scazzata e artista. È un mezzogiorno di fuoco e fa caldo, si sta in balia di quel silenzioso e spietato solleone da frontiera, nel sonnolento west, e tutto pare lento e nascosto. I serpenti a sonagli smuovono pigri la sabbia, più vicini alle oche di quanto loro stesse credano. Dalle pietre aride che sudano polvere si levano banchi di aria tremolante, mentre la residua umidità si raccoglie nei cactus spinosi, sotto il pelo lucido dei cavalli che trasudano all’ombra delle stalle chiuse, sui rigidi vestitini della domenica di paperini accaldati. Evanescenti sentori, quelli dell’alcool mattutino che i mandriani hanno già consumato nel saloon del vicino paese, impreziosiscono l’atmosfera. Io sto nel cesso della scuola, sempre che si possa chiamare scuola questa catapecchia, e non potrei stare in nessun altro luogo.
Tutto suda e si impregna di quella polvere che a me comunque non infastidisce. Dalla finestra rotta riprendo il panorama, sempre uguale, da alcuni giorni disabitato. Ormai sono quindici mezzogiorni che vivo qui. Me ne andrei, che so, in un bagno di qualche bordello se non fosse che sono nata con un’ala più piccola e volare mi è faticoso. D’altronde non mi occorre muovermi più di tanto, non posso certo sognare di viaggiare, dal mio handicap è conseguito l’habitat. I piccoli, prima della sospensione estiva, hanno evacuato tanta colazione qui, nella fogna a cielo aperto. Una cacca che profuma di fermenti lattici e la maestrina Clarabella, come tutte le mucche, nel defecare non ha rivali.
Già immagino qualche ignorante che mi dice “Beata te che sai volare!”. Ma che ne sanno loro? Volare è quello che fanno le farfalle, col librare elegante, con la colorata livrea in bella mostra, posate su fiori variopinti, inebriandosi del prezioso polline. Roba da Amelie e annessi nani da giardino che viaggiano e spediscono cartoline. Non so volare così e non sono una regista romantica. Quand’anche non avessi l’handicap, il mio sarebbe un correre e precipitare nervoso, uno sguazzare su acqua calda e melmosa che mi tocca per natura, roba da Spaghetti western, neorealismo e cinema fetish assieme. E poi sono proprio brutta.
– Vorrei essere una mosca per ascoltare quelli lì - diceva una paperina alla compagna parlando di due studenti che tra loro provavano una simpatia sospetta. Non tengono conto che a me non frega una mazza di ciò che oche e anatre si starnazzano tra loro, dei loro innamoramenti. Diciamocelo, avrei ben altro a cui pensare. Ma ho firmato un contratto con la Disney e devo onorarlo. Come faccio la mosca io non ci riesce nessun’altra.
- Signora…ehm…! Non c’è un altro posto dove discutere dei termini? –
No. Non c’è. Sono la migliore nel campo e se mi vogliono scritturare stanno qui, nel gabinetto.
- Vogliamo un format nuovo, qualcosa di diverso da X Paper, un nuovo reality con riprese crude, speciali e che spacchi. Vogliamo riprese “volanti” tipo Candid Camera. I protagonisti non dovranno accorgersi di essere filmati. Dobbiamo tenere incollati gli spettatori davanti al teleschermo. Ci attendiamo scene di vita vera. –
Quello che non hanno considerato nell’ingaggiarmi è che sono una regista ispirata al neorealismo. E quale ambiente potrebbe eccellere se non quello dove sono nata? Si, certo, dal mondo fantasioso dei paperi si aspettano che mischi epici scontri tra oche stupide e oche più stupide, non vogliono “veramente” un nuovo format. Ma io sono l’artista del trash, mi hanno dato mano libera e so dove pescare il sordido. Il copione sarà basato su fatti reali a cui ho assistito due giorni fa. Le riprese rasentano l’incredibile. Nonostante il mio handicap sono riuscita a piazzarmi indisturbata in ogni dove, filmando tutti i particolari. Diventerà un successone.
Sarò la prima ad aver diretto le riprese e solo dopo sceneggiato lo storyboard, innovativa come sempre. Con la troupe mi sono portata nell’aula dove abbiamo girato le sequenze, io seduta sulla sedia da regista, lo Steadycam Quentin Calabro per le riprese più ardite e ravvicinate, e Zanza Fassbinder, operatore di macchina.
Protagonisti inconsapevoli erano un banchiere e un meticcio mascherato. Il primo era un papero che profumava di vecchiume all’acqua di colonia, con le basette folte e sudate, occhiali misteriosamente non appannati dal calore che saliva dalle piume. Nascondeva bene, sotto la finanziera rossa e blu, una moneta a cui era particolarmente affezionato, la “Numero Uno”, e una Henry Deringer, piccola pistola da donna a colpo singolo. Esibiva una cultura formale, quasi giuridica, un linguaggio forbito formatosi su strade equivoche. L’altro era un mezzo indiano, fuggito dal mondo degli umani perché, si dice, Maga Magò si era invaghita di lui. Poco credibile. Altre voci, più probabili, raccontano che sia scappato dai cacciatori di taglie. Lo inseguivano per essere stato il capo della banda di cowboys razziatori, quelli della sparatoria dell’Ok Corral dove morirono agenti federali. Sfuggente, magro e scattante, portava come sempre, sopra il vestito scuro, una maschera nera che nascondeva il volto sfigurato dal vaiolo, nemico sconfitto le cui ferite restano in eterno. Ricattando un senatore di PaperWhashington è riuscito a farsi nominare agente indiano presso la riserva degli Ocawa.
- Perché siamo qui, in questa scuola chiusa? – chiese il meticcio, annoiato.
Il papero studiava quella figura seduta con le gambe stese e la sedia che faceva dondolare senza cadere, con in mano una bottiglia di tequila che aveva rubato nel saloon del paese vicino o dalla scorta che sarebbe toccata agli indiani paperi. Ne ammirava la perfida calma, il suo umano e stravaccato agire diretto, era l’uomo giusto che gli avrebbe fatto guadagnare una montagna di soldi.
- Signor Macchianera, prima che inizi questa mia proposta di lavoro deve firmare questo documento che l’impegna al rigoroso riserbo su quanto andrò a… -
Macchianera prese il foglio, nemmeno lo lesse e lo strappò platealmente, si calò il cappello a larghe falde a coprirsi meglio l’unica parte visibile del volto, i suoi occhi di ghiaccio. Allungò ancora di più le gambe snelle in direzione della botte dietro alla quale sedeva composto il banchiere, le incrociò facendo tintinnare gli speroni a rotella degli stivali e sbadigliò fingendo di schiacciare un pisolino. Paperon de Paperoni era preparato, non si diventa ricchissimi senza valutare in anticipo ogni variabile di una contrattazione. Pensò che la scelta della scuola chiusa per quell’incontro riservato, e di domenica, si era rivelata astuta: nessuno l’aveva visto arrivare sul luogo. Non gli era sufficiente. Dalla finanziera trasse la pistola, la mise in vista e pronta, e da una borsa di cuoio, che sudava anche quella, cavò un’altra copia della dichiarazione di riservatezza con una mazzetta di banconote, una bella mazzetta. Macchianera si ricompose, prese quel foglio, lo lesse, pesò con lo sguardo i bigliettoni, tese la mano e aspettò. Paperon de Paperoni si strappò una piuma dal sedere, la intinse in un calamaio e la porse all’interlocutore che firmò.
- Bene, Sig. Macchianera. Ora mi ascolti bene… -
Si distrasse, gli sembrò di aver sentito un frullo d’ali di uccello. Poteva essere, quella scuola aveva fessure tra le travi da cui avrebbero potuto entrare anche i cani randagi. Proseguì.
- La mia banca, di cui sono presidente e unico azionista, ha deciso di fare una donazione alla scuola. Sostituiremo questa botte con un tavolo più utile alla maestra Clarabella e regaleremo a tutti i paperini indiani e ai bianchi che non possono permetterselo il testo sacro dei paperi dove potranno imparare a leggere e apprendere i sani valori della nostra fede. Gli daremo anche penne e inchiostro per scrivere. –
- Perché questo dovrebbe interessarmi, papero? Giungi al dunque –
Paperone si infastidì.
- Intanto mi dia del “lei” e mi chiami “Dottore”. Ecco…vorrei che della distribuzione se ne occupasse lei. La comunità indiana non si fida di me, ho provato a convincerla a traslocare la tribù a dieci chilometri più a sud, dove c’è pascolo e terra fertile, ma il loro stregone Paperoga ha detto al suo popolo che la riserva non deve spostarsi perché il Grande Manitoca gli è comparso in sogno, e ciance varie. –
Macchianera era pensoso, qualcosa gli suonava strano.
- Tu sei famoso per la taccagneria, non faresti mai una donazione se non pensassi di ottenere qualcosa in cambio. Cosa mi nascondi? –
Il vecchio papero aveva fatto sondare di nascosto quel terreno, dopo che era emersa una pozza scura e maleodorante che gli indigeni usavano come combustibile lento, e già fantasticava su trivelle e barili colmi di oro nero. Purtroppo per lui, anche il banchiere rivale, Cuordipietra Famedoro, aveva puntato gli occhi su quell’affare e doveva anticiparlo. Rovistò ancora nella borsa e ne estrasse una seconda mazzetta di banconote.
- Mi dà del “lei” o devo prendere i soldi e andarmene?
- Vada avanti Dott. De Paperoni, i suoi argomenti per ora sono convincenti. –
- Bene. Vedo che c’intendiamo. –
Ancora un battito di ali risuonò da qualche parte in quello spazio chiuso e quasi vuoto.
- E ora, veniamo alla parte tecnica. La fornitura del materiale sarà compito mio, dovrà procurare ai paperini esclusivamente le penne e le boccette d’inchiostro che le perverranno presto. Saranno calamai come questo. –
Mise sulla botte la boccetta nera, senza etichetta. Macchianera si sporse per prenderla e Paperon de Paperoni, spaventatissimo, urlò.
- Non si azzardi ad aprirla davanti a me! –
L’Agente indiano immediatamente capì.
- Ascolti, Dott. De Paperoni. L’idea di scatenare una pandemia di vaiolo nella comunità indiana è già stata usata dalla Bonelli Editore con Tex Willer. Lì hanno usato coperte contaminate, ma la tecnica è quella. Avrà problemi legali con la Bonelli, l’accuseranno di plagio.
- Cosa ne vuol capire lei di problemi legali? Questi sono affari miei, non faccia mai, mai speculazioni su come risolvo le mie faccende. Non la pago per pensare, lei deve agire.
- No, guarda…guardi, un ultimo pensiero voglio farlo. Insieme ai paperini indiani si ammaleranno e moriranno anche i paperini bianchi e mi risulta che questa scuola sia frequentata dai suoi nipoti Qui, Quo e Qua. –
- Si, lo so. Sono danni collaterali. Le ripeto, non sono affari suoi! –
Macchianera si alzò, si guardò intorno, sorrise perfido e…
- Partner, vieni fuori. –
Il frullo d’ali stavolta si avvertì forte e nitido. Iago Pappagallo, dal volto sfregiato, sbucò dal nascondiglio coi suoi occhi acuminati e il becco storto.
- Hai sentito tutto? –
- Si, capo. Se vuoi ripeto ogni parola, per filo e per segno. –
L’umano sorrise e si rivolse al banchiere.
- Bene, papero. Ho firmato il documento di riservatezza. Ma Iago non l’ha firmato. Mi sa che queste banconote sono troppo poche. Lo sai, vero?
- Non si azzardi mai più a chiamarmi “papero”! Le ho detto che mi deve chiamare “Dottore”!
Prese la pistola e sparò a Iago. Il pappagallo cadde a terra ferito, annaspando nel suo stesso sangue. Paperone cavò dalla borsa altre due mazzette di banconote, e così erano quattro sopra la botte.
- Sono centomila paperdollari. Altri centomila li riceverà al termine del lavoro. –
Poi guardò Iago ferito, con cure appropriate non avrebbe più volato ma sarebbe sopravvissuto.
- Solo che ora, Sig. Macchianera, abbiamo un problema e a me non piacciono i problemi. –
- Nessun problema, Sig. Dott. De Paperoni. –
Prese un coltello nascosto nello stivale e si avvicinò a Iago…
- Niente di personale, partner. Sono affari. –
E dopo avergli tagliato il collo si rivolse ancora a Paperone.
- Non che poi m’importi tanto, a me basta che mi paghi bene e la chiamo “Dottore”, ma come può essere così cinico, Sig. Dott. De Paperoni? –
Il vecchio papero tirò fuori dal panciotto la “numero uno”, la sua prima moneta ottenuta con l’oro fuso che aveva scavato nelle miniere. La guardò. Pensò a come l’aveva guadagnata. Ricordò gli anni trascorsi tra gli uomini, quando poverissimo inseguiva il sogno nella corsa all’oro e rovinava le zampe picconando le cave, quando setacciava dall’alba al tramonto le sabbie del fiume che scorreva lungo il Klondike. Rammentò come vennero trattati gli emigranti come lui: “Papero, sbrigati, cantaci il ballo del qua qua” e gli sparavano vicino ai piedi per farlo saltare. “Negro, è vero che almeno il buco del culo lo avete bianco?” e lo spogliavano nudo, lo legavano a un albero e “controllavano” a modo loro. Così venivano trattati dai bianchi umani. Aveva imparato a essere cinico dai civili cercatori d’oro, da gente non dissimile da Macchianera. Ma ora era ricco, ora erano loro disposti a saltare per lui. Ripose via la “numero uno”. Lo guardò schifato e decise di non rispondere alla sua domanda, ma proseguì:
- Quando arriverà la merce da consegnare la contatterò. E…ancora una cosa. –
Prese dalla borsa un altro foglio e lo porse al bandito. Prese in mano le quattro mazzette, gliele avvicinò di più.
- Dovrà imparare a memoria queste parole. –
Macchianera lesse il foglio, era il testo de “Il ballo del qua qua”.
- Una canzone? E per quale motivo? –
- Dovrà cantarla ai paperini mentre gli consegnerà il materiale scolastico. –
- Non ci penso nemmeno, vecchio papero. –
Paperone prese una mazzetta, ne trasse una banconota, gli diede fuoco e con quella si accese un sigaro.
- Ma certamente, Dott. Sig. De Paperoni. La imparerò a memoria. - Prese il foglio, le mazzette, mise tutto in tasca e se ne andò.
Paperone finì il sigaro, sembrava non pensare a niente. Poi si alzò e andò in gabinetto, nel mio regno. Fece quello che fanno tutti al cesso, ne fece proprio tanta. Pensai di tuffarmici a capofitto ma poi realizzai che sono una artista con un che di neorealista. Mi posai sulle sue penne calde e sudate per le ultime riprese cinematografiche.