Qualcuno una volta m'ha detto che quando fa freddo si ghiaccia la pipì mentre la stai facendo. Certo, oggi si gela, ma anche se sulle ciglia mi si è fermato un nevischio leggero, tipo una polverina come quella sulle ali delle farfalle, non sono sicuro che la pipì ghiaccerebbe.
Comunque non ho freddo, sto camminando da un po' e muovermi mi tiene caldo.
La slitta con la legna ha lasciato due solchi profondi nella neve fresca. Mr. Lincoln agita la coda mozza e alza sbuffi di ghiaccio vaporizzato. È un cane grande, ma molto magro e lascia orme superficiali, così che subito la neve le riempie. Io invece sono grosso e pesante e quando incappo in fossi dove lo strato di neve è spesso sprofondo fino alle ginocchia. Certo, con un cavallo sarebbe tutto più facile, invece mi tocca trainarla a mano, questa lista.
A casa mi spoglio dal grande cappotto di pelliccia e appendo sul muro il lungo fucile ad avancarica, di fianco alle medaglie e alle mostrine d’argento di papà. Riattizzo il fuoco e metto a scaldare l'acqua per fargli il bagno. Lui è in camera che dorme. Quando tutto è pronto vado a svegliarlo. Lo bacio sulla fronte, lo spoglio, lo trasporto di peso fino alla vasca. È così leggero, è sempre più magro. Di solito mugugna, mastica qualche parola incomprensibile con le gengive scoperte, invece oggi è silenzioso. Tiene gli occhi rivolti al soffitto e anche quando lo immergo nella vasca continua a tenere lo sguardo in alto. Canticchio mentre lo lavo. Con un pettine di corno gli sistemo per bene i capelli, fino a coprire la cicatrice sulla nuca.
«Stai davvero bene gli dico, «con i capelli tutti tirati indietro.»
Lui piega un poco la testa di lato, come fa Mr. Lincoln. L’acqua è ancora calda, ne approfitto e lo rado per bene.
Lo asciugo e lo faccio sedere vicino al fuoco, mentre preparo il pranzo.
Ho appena iniziato a imboccarlo quando sento Mr. Lincoln abbaiare.
Sul piazzale davanti casa, lo sceriffo Lee mi saluta da cavallo toccandosi il cappello. Io devo inchinarmi per uscire e andargli incontro, perché la porta è troppo bassa.
«Sceriffo» urlo, per farmi capire bene nel silenziatore della nevicata, «porti il cavallo al riparo ed entri, le preparo il caffè.»
«Grazie, ragazzo» risponde. Lui non urla, anzi quasi sussurra e la sua voce arriva come se stesse parlando con un cuscino pressato in viso.
Quando entra in casa lo fa seguito da un po' di gelo e da un mucchietto di neve che presto si scioglie. Si mette a sedere con le spalle al fuoco e rimane scuro, una sagoma in controluce. Eppure riesco lo stesso a seguire i suoi occhi tristi che cercano papà ogni tanto e poi, pieni di vergogna, tornano veloci a scrutare le mani raccolte in grembo.
Sono stati molto intimi, lui e papà, quando entrambi servivano come mercenari per l'esercito unionista. Quella volta che lo sceriffo me ne aveva parlato, durante il funerale di mamma, mi aveva detto che papà in realtà non lo aveva fatto per i soldi, ma perché ci credeva. Ci aveva sempre creduto, fin da ragazzo, a cose come la libertà, la dignità, la lotta ai pregiudizi. Era un idealista. In verità questa parola, idealista, lo sceriffo Lee me la disse con un po' di disprezzo, come fosse un insulto. Come fosse il motivo per cui lo avevano ferito.
«Come va, Bud?» chiede lo sceriffo.
«Ci sono momenti sì e momenti no» dico. Ho versato il caffè in una tazza e l’ho porta allo sceriffo. Lui la prende e ci guarda dentro, nel liquido scuro.
Intanto papà ha aperto la bocca, come volesse dire qualcosa, invece rimane fermo e un rivolo di bava gli scende lungo il mento. Lo pulisco e gli chiudo la bocca.
«Oggi è un momento no» dico.
«Be', almeno, dopo quello che ha passato, è vivo...» mugugna lo sceriffo.
Certo, è vivo.
Papà muove un attimo la testa e ci guarda, negli occhi ha una patina lattea, come nebbia.
È vivo, più che altro non è ancora morto. Quello sguardo, quel velo umido, quella disperazione, vuol dire che lui lo sa. Sa che è ancora vivo.
«Era davvero in gamba» dice lo sceriffo, che forse parla tra sé, «era il migliore a muoversi nei boschi e sui monti, un esploratore come se ne vedevano pochi che non fosse indiano. Andare per le foreste, cavalcare libero era tutta la sua vita...»
Finisce con un sussurro ed è come si fosse spento, non capisco le ultime frasi. Poi riprende.
«Tyler, sono qua per conto della signorina Marr» dice, non ha ancora toccato il caffè, «vorrebbe che tornassi a scuola e vorrebbe fare il tuo nome per la borsa di studio statale.»
«Papà ha bisogno di me» dico.
«Sono qui anche per questo. La comunità mi ha pregato di offrirti un piccolo aiuto, una persona verrà a stare qua, le mattine che non potrai esserci. Ti prego di accettare.»
«La scuola è lontana e io non ho un cavallo. Starei lontano tante ore.»
«Tranquillo, rimarrà quanto dovrà rimanere. Anche se l'ideale sarebbe che veniste a vivere in città.»
«Certo, sarebbe bello, ma non potremmo permettercelo, la pensione che ci dà l'esercito è una miseria» dico, ed è la verità. Settanta dollari al mese, meno di dieci dollari per pallottola, visto che papà se n'è prese nove, su tutta la schiena, dalla nuca fino all'anca.
«Tornerai a scuola? Bud lo vorrebbe.»
Anche questo è vero. Papà sapeva a malapena leggere, ma gli sarebbe piaciuto vedermi laureato. I suoi sogni in fondo erano semplici: un figlio istruito, una moglie felice e cavalcare tra le montagne per il resto della vita. Cosa gli restava di tutto ciò? Solo io.
«Tornerò» dico. Cerco papà con lo sguardo, per avere la sua approvazione, ma ha gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Dorme.
Seguo la lezione dall'ultimo banco, con le gambe larghe perché sono troppo grosso per infilarle sotto. Tutto piegato sul libro sembro gobbo e il pennino è troppo piccolo per le mie dita e spesso mi sporco d'inchiostro.
Durante la pausa la signorina Marr si avvicina a salutarmi, io arrossisco ed evito di guardarla in viso. Oggi è la prima a rivolgermi la parola. Ai miei compagni interessa poco se ci sono o no, sono solo ingombrante per la vista, di solito sto zitto, studio e basta. A me sta bene, hanno l'abitudine di chiamarmi bufalo e questo mi infastidisce, così mi piace stare solo.
Quando la signorina Marr va via, con un laconico: le cose si sistemeranno, scendo in biblioteca. La signora Fanny, la bibliotecaria, è felice di vedermi, passo molto tempo là e mi conosce bene. Inoltre la aiuto spesso a sistemare i libri su in alto, dove arriva solo con la scala.
Fuori c'è una nevicata furiosa, i grossi fiocchi sbattono sui vetri delle finestre, come tanti pugni di qualcuno che vorrebbe entrare.
Sotto le finestre, nei banchi per la lettura, vedo Jodie e mi blocco. Come sempre legge muovendo le labbra, muta, con una mano a tenere una ciocca di capelli rossi dietro l'orecchio e l'altra a seguire le parole. Batte il piede, sotto al banco, come se tenesse il ritmo di una canzone.
Non so se le faccia piacere essere disturbata, quindi penso di non salutarla, ma allo stesso tempo guardarla mi fa stare bene e quindi non riesco neppure ad andare via e rimango per un po' così, immobile, fino a quando non è lei ad alzare il viso e a salutarmi.
«Vieni qua, omaccione» dice e ride, arricciando il naso e mischiando le lentiggini.
«Ciao» bisbiglio, sedendomi.
«Anche oggi la specialità della casa è: paesaggi desolanti» borbotta, indicando fuori dalla finestra, dove tutto è grigio e bianco. Non le posso certo dire che a me piace, quindi mi stringo un poco nelle spalle e annuisco.
«Finalmente sei tornato» dice, chiudendo il libro, «come sta tuo padre?»
Per un po' parliamo, mi fa piacere raccontarle le mie cose perché so che le interessano davvero. Anche io mi informo su di lei, sentirla non mi stanca e poi da così vicino riesco a sentire il buon odore dei suoi capelli.
«Per ora stiamo così» dico, «ci potrebbe aiutare tanto avere un cavallo, ma ne servirebbe uno bello robusto, perché deve muoversi nella neve alta e poi trasportare me.»
«Se fosse abbastanza grande trasporterebbe te e tuo padre insieme, così potrebbe scendere in città anche lui.»
«Certo. E lo porterei in giro per la foresta, sono sicuro che questa è la cosa che più gli manca.»
Jodie ride e mi dà un colpetto sul braccio.
«Sei proprio una brava persona, Ty. Ti voglio bene.»
Devo fare una faccia davvero stupita, perché lei abbassa il viso e nasconde le mani sotto al banco.
«A proposito di cavalli grossi» dice, ancora con la testa bassa, «ho sentito da mio padre che Alfred Smith vende il suo stallone pezzato. Magari quello è abbastanza grosso.»
«Lo stallone...» mugugno. Certo, quello sì che sarebbe un cavallo adatto.
«Chissà quanti soldi vorrà? Non abbiamo quasi nulla da parte» dico.
Jodie rialza la testa, è contenta, forse perché è riuscita a darmi un'idea, forse perché abbiamo cambiato discorso.
«Questa nazione si sta costruendo sulle pallottole, sulla violenza e sui prestiti bancari» dice, gonfiando le guance.
«Mi stai consigliando di rubarlo?»
«Ma no, scemo, ti sto consigliando di chiedere un prestito alla banca.»
Ride ancora. Chissà, magari tornare a scuola non è stata una cattiva idea.
«Bufalo!» sento urlare e poi una pacca sulla spalla, molto forte.
«Ciao Johnny» dice Jodie. La vedo arrossire.
«Finalmente ti ho trovata» le dice John Krum. Sembra apparso dal nulla, inaspettato come le peggiori disgrazie. «Molla il bovino e vieni con me, ci aspettano per mangiare un boccone.»
Jodie mi guarda, sorrido e le faccio cenno di andare.
«Ciao, Bufalo» dice John. Mi dà un’altra manata sulla spalla. Potrei spezzarlo solo con un pugno, lo so io e la sa lui. Ma lui sa anche che non lo farei mai, soprattutto con Jodie presente. Quindi mi limito ad alzare la mano, per salutare. Vanno via insieme, lui deve dire qualcosa di spiritoso, perché li sento ridere, mentre si allontanano. Scuoto la testa e mi concentro sulla finestra. La nevicata si sta placando, se rimane così potrò andare alla Wells Fargo a chiedere un prestito, dopo la scuola. Comprerò quello stallone. Potrò arrivare a lezione più in fretta, diplomarmi senza trascurare papà, ottenere la borsa di studio, convincere Jodie a venire all’est con me, al college. Verrà con noi anche papà e là riusciremo a trovare dei bravi dottori che potranno curarlo.
Intanto fuori ancora nevica, ma sempre più piano.
La Wells Fargo si trova sulla Main Street, ma data l’ora tarda il signor Quentin mi fa fare il giro dalla Pacific e mi fa entrare dal retro, direttamente nel suo ufficio.
«Sei il figlio di Bud Trevis, vero?» chiede, dopo avermi fatto accomodare in una poltrona imbottita.
«Sì, signore» rispondo, «sono Tyler Trevis.»
Il signor Quentin è un uomo magro, con piccoli baffetti curati e una sigaretta lunga e stretta in equilibrio sul labbro inferiore. Gli racconto cosa ci faccio là e lui mi ascolta con gli occhi socchiusi per il fumo.
«Cosa ne dice?» chiedo.
«Cosa vuoi che dica, figliolo» un po’ di cenere cade sulla robusta scrivania, ma lui non ci bada, «purtroppo non posso accordare nessun prestito.»
«Ma signore, quel cavallo…»
«A quanto ammonta il vitalizio di tuo padre?»
«Settanta dollari, signore.»
Lui apre le braccia, come a dire: ecco, c’è bisogno di continuare a discutere?
«Perché non era un effettivo dell’esercito, signore, lui era pagato per…»
«Conosco la storia. Tutti conoscono la storia di tuo padre e a tutti dispiace» prende tra le dita la sigaretta e ne scuote la testa sul posacenere di pietra, «ma da dispiacersi a prestargli dei soldi che non potrà mai restituire, be’, ce ne corre.»
«Li sta prestando a me, non a lui.»
Il signor Quentin sorride e si rimette la sigaretta in bocca, fa un tiro e le braci si illuminano.
«Devo chiudere ora, scusami.»
Si alza e fa il giro della scrivania, fino a piazzarsi davanti a me; mi porge la mano. La osservo per un po’, noto le macchioline gialle tra indice e medio, due anelli d’oro all’anulare.
«La prego» sussurro.
Lui scuote la testa, il braccio ancora teso. I rintocchi del pendolo sul muro sono come le martellate di un fabbro.
«La prego» insisto e scatto in piedi. Lo spazio tra me e lui è ridotto e io sono così grosso e così goffo. Lo urto con le spalle protese in avanti e vedo la sigaretta che compie un mezzo arco nell’aria, prima di finire sul tappeto. Il signor Quentin emette uno sbuffo, mentre cerca l’equilibrio mulinando le braccia, ma non ci riesce e cade. La sua testa fa un rumore secco quando colpisce l’angolo della scrivania. Poi s’accascia, con la bocca aperta e gli occhi riversi.
Io mi precipito su di lui, lo scuoto, ma sembra essere disarticolato. Sulle mani sento caldo, sono piene di sangue. Al signor Quentin si è aperta la nuca, gli si è rotta la testa come un uovo. Il sangue esce abbondante e una grande macchia gli si allarga intorno. Indietreggio, mi pulisco la mano sul tappeto, mi rivesto, sporcandomi il cappotto e i guanti, spengo le luci e fuggo via.
Mentre scappo, smette di nevicare. Le lacrime si sono gelate in viso e il sangue nei guanti si è cristallizzato.
Non so ancora bene cosa farò, dovrò scappare, ma a piedi è impossibile e poi come potrò portare papà con me? Sulle spalle?
Faccio il giro dalla Pacific, per non incontrare nessuno e mi ricordo che sul finire di quella strada ci sono le stalle degli Smith. Passo dal retro, tra le montagne di biada e sterco, sento gli Smith discutere, nella loro casa, riuniti per cena. I cavalli nitriscono quando mi vedono, ma si calmano subito, sono delle ottime bestie. Lo stallone pezzato è nell'ultimo box. Immenso e placido, si fa mettere i finimenti senza muovere un muscolo. Gli tremano le narici mentre lo porto fuori dalle stalle e agita le orecchie mentre cavalchiamo verso casa.
Certo, ora ho il cavallo, potrei provare a fuggire lontano, ma dove? L’aria fredda sul viso mi riporta alla realtà. Potrei dire che è stato un incidente, che ho rubato lo stallone preso dal panico… qualcosa dovrò pagare lo stesso, certo, ma cosa penserà Jodie? E cosa sarà di papà se non potrò più stare con lui?
Fermo il cavallo in uno spiazzo prima dei boschi, una radura circolare con la neve bassa. L’aria è di ghiaccio, non si sentono rumori.
Grido. Urlo fino a lacerare la gola, urlo come non sono riuscito a fare in tutta la mia vita. La voce viene assorbita dal manto bianco e un attimo dopo è di nuovo il silenzio.
Papà dorme e lo sveglio con cautela, per non farlo agitare. Non gli dico nulla, lo vesto con due enormi cappotti di pelliccia e lo porto fuori sulla sedia a rotelle. Quando vede lo stallone legato davanti casa strabuzza gli occhi, borbotta qualcosa, ma non capisco nulla. Monto a cavallo e mi chino per afferrarlo. Lo sollevo con facilità e lo faccio sedere davanti a me. Per sicurezza ci leghiamo insieme con una corda.
Papà si volta e dice qualcosa che stavolta capisco. Dice:
«Grazie.»
Riprende a nevicare, lieve, e i fiocchi che gli si posano in viso si sciolgono subito a contatto della pelle ancora calda di letto. Ma è l’ultima spruzzata, perché il cielo si apre e una enorme luna appena sorta illumina tutta la foresta.
Mentre passiamo sotto ai rami bassi degli abeti a volte li sfioriamo e la neve ci cade addosso, bagnandoci i copricapi di pelo. Raggiungiamo il ruscello, a valle, e ci fermiamo a guardarlo scorrere tra i sassi, con i riflessi lunari sull’acqua e i cristalli di ghiaccio sui rami bassi a ridosso della riva. Ci arrampichiamo verso nord, dove gli arbusti si fanno più fitti.
Papà si agita, lo sento, corpo contro corpo, ma sono solo risate. Gli accarezzo il capo, le guance, mi levo un guanto per sentirlo sotto le dita, il mio papà tornato bambino. Ha il viso umido e non solo per la neve, piange e ride e agita le braccia e indica, nel chiarore della luna piena, prima un gufo nascosto tra le fronde e poi una volpe bianca che scompare in un attimo. Mr. Lincoln le abbaia dietro, ma non la insegue.
Rimaniamo in giro per tante ore, chissà quante, così tante che quando torniamo a casa sta sorgendo il sole. Il cielo è sgombro dalle nubi, forse oggi non nevicherà. Porto il cavallo sul retro, al riparo, e gli do da mangiare. Quando il signor Smith lo troverà non voglio certo si lamenti per come è stato trattato.
Accendo il fuoco, metto a scaldare l'acqua. Intanto che bolle io e papà ci sediamo di fronte alle fiamme. Lui ha il viso arrossato dal freddo, il naso che cola e un sorriso sbilenco.
«È finita, papà» dico.
Regolo bene la temperatura dell’acqua prima di immergerlo nella vasca. Lui ha ancora gli occhi lucidi, prova a muovere le braccia, ma i suoi movimenti sono scoordinati, gli afferro i polsi, deglutisco. Con il rasoio traccio due linee parallele sulla sua pelle. Lui inclina la testa, si lascia andare all’indietro, si rilassa; forse capisce e forse non aspettava altro da moltissimo tempo. Incido anche l’altro braccio e lo immergo in acqua, che cambia velocemente colore, prima rosa, poi rossa.
Papà posa piano il capo sulla mia spalla e chiude gli occhi. Passa del tempo, non so quanto, perché sono distratto dal vorticare di alcune particelle di polvere sospese nel fascio di luce della finestrella. Sono così eleganti che sembrano danzare. Passa altro tempo e papà non respira più. L'acqua si è sfreddata e ora lui pare immerso nel vino. Gli scosto la testa dalla spalla e lo sistemo dritto, così da poterlo pettinare, perché quando lo troveranno dovrà essere bello.
Mi viene da pisciare ma non posso farlo nella latrina, proprio davanti a lui.
Prima di uscire di casa porto con me il fucile ad avancarica. Mr. Lincoln mi gira intorno e io lo scaccio con il calcio del fucile. Mi calo le braghe e urino su un mucchietto di neve. Come avevo previsto la mia pipì non si congela, nonostante il freddo. Anzi, scioglie la neve ed emana vapori caldi, fa un rumore come se friggesse. Vai e fidati di cosa ti racconta la gente, la maggior parte delle cose che ti dice sono bugie. Tipo: tranquillo, le cose si sistemeranno, ti voglio bene, la pipì congela quando fa tanto freddo. Cose così, frottole.
Passa del tempo, poi finalmente li sento, rumore di zoccoli salire su per la collina, lievi colpi sulla neve eppure così pesanti. Prima che escano allo scoperto mi infilo la canna del fucile in bocca e chiudo gli occhi.
Il gelo mi anestetizza il palato.