Seduto sulla panca dello spogliatoio nel seminterrato della palestra, osservavo gli spessi fili di pioggia attraverso il vetro appannato della finestrella rettangolare a livello della strada. Pioveva ininterrottamente dalla mattina e, ora che stavo per uscire, speravo proprio che non si trasformasse in una feroce “bomba d’acqua”.
Indossai la vecchia cerata gialla sui vestiti, sistemando lo zaino sul petto in modo che restasse al coperto, e mi issai sulla sedia a rotelle, già pronto mentalmente a godermi, grazie alla pioggia, una delle mie giornate ideali.
Il montascale mi depositò al pianterreno. Le porte si aprirono col loro sbuffo e il viale semideserto mi dette il benvenuto: sulla strada verso casa avrei potuto correre e piroettare quanto avessi voluto, senza i soliti ostacoli, senza il via vai di gente che sempre ingombrava il marciapiede e mi costringeva a un continuo e lento zig-zag fra gambe, cani e monopattini. E pazienza per la doccia supplementare che mi sarei dovuto sorbire lungo la via.
Con un mezzo giro della ruota destra mi voltai a salutare il mio istruttore e mi lanciai avanti, con la piccola soddisfazione di essere io, una volta tanto, a far scansare i rari pedoni stretti negli impermeabili e acquattati sotto lugubri ombrelli neri.
Complici il cielo coperto e l’autunno ormai avanzato, il buio già mi circondava, appena rischiarato dai lampioni che faticavano a far filtrare una luce fioca e frastagliata attraverso le chiome degli ippocastani. Ma potevo sempre contare sul buon numero di vetrine che affiancavano il mio percorso, alcune delle quali erano diventate una specie di fermata obbligatoria: la libreria che esponeva le ultime novità, per esempio, oppure la galleria d’arte moderna, o ancora la bottega di un rigattiere che non esitava a spacciare per antiquariato della paccottiglia impolverata da svuota-soffitte.
Fu proprio di fronte a quel negozio che decisi di frenare la mia corsa, accostandomi al vetro con una leggera derapata delle ruote posteriori sul lastrico bagnato. Sotto la pioggia che tamburellava senza sosta sulla cerata, mi ritrovai a osservare la mia immagine riflessa. O meglio, solo ciò che della mia immagine riusciva a superare il bordo inferiore della vetrina: le spalle ampie, grazie al lavoro in palestra, e la faccia un po’ a metà fra il buffo e il grottesco, incassata com’era in fondo al cappuccio. Mi fece pensare, strappandomi un sorriso, al personaggio di Igor in Frankenstein Junior.
Ma l’attenzione venne presto dirottata verso l’interno del negozio, dove colsi una serie di movimenti inconsueti. Quasi fossi di fronte allo schermo di una TV col volume azzerato, mi trovai ad assistere a una scena da thriller che mi fece sgranare gli occhi e trattenere il fiato. Due tizi con addosso dei pesanti giacconi zuppi d’acqua inseguivano goffamente un terzo, un tipo smilzo in un logoro spolverino azzurro. Ostacolati dal bancone e dal ciarpame che ingombrava i corridoi, i due apparivano frustrati, incapaci di raggiungerlo. Finché uno dei due inseguitori, passando dalla frustrazione alla rabbia, estrasse da sotto il giaccone un’automatica ed esplose due colpi all’indirizzo del fuggitivo.
Impietrito e con le mani che facevano tutt’uno con i braccioli della sedia, percepii solo due schiocchi, attutiti dal vetro spesso e dal rumore della pioggia. Due tonfi leggeri, come di un’arma ad aria compressa, ma non altrettanto innocui. Raggiunto dai proiettili, il poveretto venne sbattuto con violenza contro la parete verso la quale stava correndo e cominciò a scivolare giù, uno straccio al quale abbia ceduto il gancio, lasciando un’impressionante striatura rossa sul muro.
Attraverso il velo di pioggia che ormai mi scorreva dappertutto, vidi i killer precipitarsi sul corpo inerte, del quale ora scorgevo solo i piedi e parte delle gambe. Si inginocchiarono, per rialzarsi quasi immediatamente. Uno aveva l’espressione furente e cominciò a inveire nei confronti dell’altro che aveva sparato. E quest’ultimo sembrava rattrappirsi sotto la raffica di rimproveri che gli piovevano addosso. Forse proprio nel tentativo di scansare la valanga che lo stava investendo, quello si voltò e incrociò i miei occhi spalancati che lo fissavano al di là del vetro.
Appena incontrai lo sguardo dell’uomo, mi resi conto di essere in guai seri. Un testimone, specie se di un omicidio, ha vita breve. E reagii di conseguenza. Girai la sedia e spinsi le ruote a tutta forza, ben consapevole che, in un eventuale inseguimento, sarei andato poco lontano. Impossibile gareggiare in velocità contro un proiettile.
Era indispensabile che facessi perdere subito le mie tracce.
Un vicolo si apriva alla mia destra, così stretto e buio che quasi lo oltrepassavo sullo slancio. Filando accanto all’angolo del fabbricato notai il tubo della grondaia e lo afferrai al volo per riuscire a curvare in velocità. Feci ritagliare alla sedia un angolo retto e sparii nell’oscurità.
Il vicolo era occupato per quasi la metà da un’impalcatura sgocciolante che si alzava fino al primo piano, sorretta da una serie di pali. Oltrepassato il primo, sfruttai l’inerzia che ancora spingeva la sedia per aggrapparmi al secondo con una sorta di piccolo balzo e un tentativo di movimento rotatorio che speravo mi avrebbe risparmiato un impatto troppo violento col metallo. La botta contro la fronte e il torace, protetto appena dallo zaino, fu forte, ma riuscii a rimanere avvinghiato al palo e ad arrampicarmi fino a un’intercapedine coperta che mi riparava dalla pioggia e soprattutto dalla vista dei miei inseguitori.
Le due sagome apparvero all’inizio del vicolo: probabilmente avevano perso del tempo prezioso – per me – per riuscire a capire quale direzione avessi preso. Un ultimo sforzo e mi distesi nello stretto spazio fra le assi dell’impalcatura, strisciando fra i detriti di cemento e mattoni che vi si erano accumulati. Nonostante l’insensibilità delle gambe, il rumore degli strappi della stoffa non lasciava dubbi sul numero di graffi che mi stavo procurando.
Stavano passando proprio sotto di me, diretti verso la sedia che aveva interrotto la propria corsa contro un cassonetto lì vicino. Adesso entrambi impugnavano la pistola e, appena raggiunta la carrozzella, vidi uno di loro tirar su la cerata che vi era rimasta impigliata e scaraventarla a terra con rabbia.
«Qui non c’è!»
«Un fottuto finto paralitico. Ecco cos’era. Se l’è filata appena fuori vista.»
«Bastardo! Se riesco a mettergli le mani addosso...»
Rinfoderarono le armi e si allontanarono sotto la pioggia, continuando a borbottare fra loro. Da quelle poche battute, era chiaro che mi avevano scambiato per un impostore. Significava che, almeno per il momento, ero salvo. E compresi anche che i due davvero non brillavano per intelligenza: se fossi stato un “finto paralitico” non avrei certo perso tempo a scappare spingendo una sedia a rotelle.
Attesi ancora un po’ e strisciai fuori dal nascondiglio facendo forza sui gomiti. Mi aggrappai al palo e mi lasciai scivolare giù. Ero stanchissimo per l’arrampicata, bagnato fradicio, inzaccherato, ma la mia unica possibilità era cercare di raggiungere la sedia, sperando che non si fosse rovinata troppo nell’urto. Così mi spinsi fin là, trascinandomi a forza di braccia sull’asfalto sporco e viscido di pioggia.
La sedia a rotelle non si era danneggiata, ma nell’urto era scattato il fermo e si era parzialmente chiusa. Distesi alla meglio la seduta, mi ci arrampicai sopra e, ormai incurante degli abiti zuppi e strappati, cominciai a frugare nello zainetto alla ricerca del cellulare. La cosa che stringevo fra le dita era un ammasso scuro, accartocciato e con il display che sembrava una ragnatela: la botta contro il palo e l’avanzata stile marine avevano mietuto la loro vittima.
In un moto di rabbia lo scagliai via. Raccolsi la cerata e mi spinsi per tornare verso il viale, sperando di incontrare qualcuno a cui chiedere aiuto senza dover per forza entrare nel negozio a cercare un telefono e affrontare la vista che mi si sarebbe parata davanti.
E qualcuno c’era davvero.
«Non temere, se ne sono andati.»
La voce femminile mi esplose nelle orecchie, trapassando il buio e lo scroscio ininterrotto, e mi fece sobbalzare.
La ragazza, stretta in un’impermeabile e senza ombrello, mi aspettava all’angolo del viale, cercando di sondare il buio con gli occhi spalancati sui quali a tratti brillava la luce distante dei lampioni. E l’espressione con la quale mi accolse appena mi avvicinai la diceva lunga sullo stato in cui mi ero ridotto per sfuggire a quei due.
«Ma come ti sei…?»
«Non badare a me. C’è da chiamare subito la polizia.» E d’un fiato le raccontai ciò che avevo visto affacciandomi alla vetrina del rigattiere. «Gli hanno sparato a quel poveraccio!»
Due secondi e già stava parlando al cellulare.
«Andrea, sono io… Sì… Ascolta, c’è stato un omicidio. No, no, io sto bene. Vieni subito a questo indirizzo...»
Chiuse la telefonata e poi, colta dal tipico impaccio che spesso assale i cosiddetti normali in presenza di un disabile, rimase ferma, lì accanto a me, imbarazzata e senza sapere bene cosa fare. Ormai ero un esperto nella decodifica di mezzi sorrisi, di occhi vacui, di dita intrecciate. E, indicando le maniglie della sedia, la sollecitai.
«Dai, aiutami. Andiamo ad aspettare i tuoi amici al negozio. E magarti cerchiamo di non affogare...» Non che avessi molta voglia di fare dello spirito, ma mi sembrava più scossa di me. Lei scrollò le spalle e i capelli inzuppati e afferrò le manopole sulla spalliera.
«Ah, sì. Ok. Li aspettiamo là. Ma intanto potremmo anche fare un po’ di presentazioni, no?», mi disse, iniziando a spingere la sedia.
«Giusto. Mi chiamo Sam. Be’, no. Samuele. Ma tutti mi chiamano così.»
«Io sono Arianna, ex poliziotta che al momento si barcamena come investigatrice privata», e allungò la destra aperta. Con una mezza torsione risposi alla stretta.
«Ed eri qui per caso o per lavoro?»
«Per lavoro, diciamo. Un lavoro che ho accettato quasi controvoglia e che non avrei mai pensato potesse farmi trovare di fronte a un delitto.»
Sotto al misero riparo del tendone bucherellato e scolorito della bottega, mi spiegò che i genitori di una sua amica l’avevano contattata perché da diversi giorni non avevano più notizie della loro figlia. E si erano convinti che fosse stata rapita dopo che la madre aveva ricevuto una strana telefonata: una voce contraffatta che gli ordinava di avallare una certa legge al consiglio regionale, se non voleva ricevere brutte notizie.
«Dato che la mia amica non era nuova a sparizioni improvvise, avevo preso la faccenda un po’ sottogamba. Ma, dopo quello che è successo oggi, tutto cambia.»
Arianna aveva fatto appena in tempo a finire il suo racconto che erano arrivati poliziotti e agenti della scientifica, preceduti dal suono delle sirene e dalle luci azzurre dei lampeggianti. Sotto la pioggia che ancora non accennava a diminuire, alcuni sistemarono il nastro per delimitare la zona e altri montarono una specie di gazebo per agevolare il lavoro delle tute bianche. Quasi tutti entrarono nella bottega e iniziarono a fare foto e rilievi, parlando fitto fitto con Andrea, che, a quanto pare, era il più alto in grado nella stanza. Poi arrivò il medico, che rimase un bel po’ inginocchiato accanto al cadavere.
Finalmente, anche Arianna e io fummo autorizzati a entrare, ma ci lasciarono in un angolo, da soli, avvolti da capo a piedi in un paio di coperte luccicanti che sembravamo una coppia di profughi appena sbarcati da un gommone; con la sola differenza che noi non eravamo inzuppati di acqua di mare.
Un agente ascoltò il mio racconto e lo riferì ad Andrea, che si affrettò a interpellare anche Arianna.
Dal loro scambio di battute e dalle loro espressioni sempre più rassegnate capii che qualcosa non andava; che qualcosa doveva essersi inceppato nel meccanismo del rapimento; che, con la morte del rigattiere, probabile custode temporaneo della rapita, sarebbe diventato molto difficile, se non impossibile, riuscire a trovare la ragazza sequestrata in tempi ragionevoli. La sua vita stessa era in pericolo, a quel punto. Arianna, il viso tra le mani, scoppiò in un pianto irrefrenabile che mi fece sentire ancora più impotente.
Avrei dato non so cosa per aiutarla, per aiutarli, ma purtroppo non ero riuscito ad afferrare nemmeno una parola del dialogo concitato che c’era stato fra i due killer e il rigattiere e tutto ciò che avevo visto si limitava a un inseguimento finito in tragedia. Una scena che avevo già passato e ripassato mille volte in testa, senza che venisse fuori niente di utile.
Mi ritrovai anche a maledire quella giornata che solo poche ore prima avevo definito “ideale”. Se non ci fosse stata la pioggia; se, come al solito, avessi dovuto farmi largo fra i pedoni; se… se… se… Mi sarei affibbiato volentieri dei bei pugni in testa.
Intanto il negozio si stava svuotando; il cadavere era stato rimosso e pavimento, tavoli e scaffali erano pieni dei cartellini numerati lasciati dagli agenti.
Arianna sembrò scuotersi e si diresse verso di me, cercando di dissimulare l’amarezza dietro un pallido sorriso, e prese a spingere la sedia per accompagnarmi fuori. Con Andrea al seguito facevamo proprio un bel terzetto: tre figure tristi con i capelli fradici appiccicati sulla testa, perfettamente in tono con l’ambiente, più lugubre che mai, e con la pioggia uggiosa che, lì fuori, non aveva ancora smesso un attimo di cadere.
Mentre passavamo accanto al bancone, cominciai a guardarmi intorno. Volevo imprimermi bene in mente tutti i particolari.
Poi, notai una cosa. E tutto mi sembrò più chiaro.
Bloccai la sedia.
«Ehi, ma quella non è una porta?»
«Sì», mi rispose Andrea. «Credo sia l’uscita di sicurezza che…»
Ma ormai non lo stavo più ascoltando. C’era un’uscita lì, a portata di mano. E quello correva verso la parete?
«Correva verso la parete!»
Andrea e Arianna mi guardarono come se fossi improvvisamente impazzito, ma insistetti, gridando quasi.
«Correva verso la parete! Ma non capite? Quei due annaspavano fra le cianfrusaglie. Lui aveva un’uscita a due passi e ha preferito fuggire verso un muro.»
«Oh cazzo, che idioti!»
Andrea richiamò immediatamente gli agenti e si tuffò verso il rettangolo di muro macchiato di sangue. C’era da verificare se la mia intuizione era giusta, se davvero la parete nascondeva un’apertura, una stanza segreta nella quale il rigattiere avrebbe voluto trovare riparo.
Qualcuno batteva con le nocche centimetro per centimetro, altri scandagliavano attentamente le mensole alla ricerca di un possibile meccanismo di apertura. E infatti un pulsante mascherato da bullone, proprio sul fianco dello scaffale accanto, sbloccò la porta nascosta.
Al centro della stanza, appena illuminata dalla luce proveniente dalla bottega, scorgemmo, imbavagliata e legata a una sedia, una donna che guardava verso di noi con gli occhi sgranati e segnati dalla disperazione. Arianna batté tutti sul tempo e si precipitò a liberare l’amica, che si sciolse in un pianto liberatorio stretta fra le sue braccia.
In preda alla commozione, non riuscivo a staccar loro gli occhi di dosso. Che strana giornata, mi dissi. Brutta, uggiosa di pioggia, tragica e anche lieta. Alla fine, potrei anche pensare di rivalutarla…
Un’intensa occhiata di Arianna mi distrasse.
«Be’? Che c’è?», le chiesi. «Sta finendo tutto bene, no? A parte per quel poveretto.»
«Sì, sì. Certo. Solo che... Stavo pensando… Sai che avrei proprio bisogno di un assistente?»