Il giorno del mio decimo San Silvestro mi avevano regalato un abito elegante: ora potevo partecipare al veglione di fine anno che si teneva nella villa dei nonni, dove passavamo le feste. Da quanto aspettavo quel momento, e il vestito era fa-vo-lo-so!
Ma facendo parte fin da allora del ramo eccentrico e ruvido della famiglia, rifiutai:
«Il vestito non l’ha fatto zia Angela e l’anno nuovo arriva lo stesso anche se io vado a letto alle nove. Ah, dimenticavo: d’ora in poi il mio compleanno è oggi.»
Sono nata a marzo e quella sera declassai il vestito a pigiama.
Verso mezzanotte la zia venne in camera mia: sapeva di trovarmi sveglia e pentita per quella boutade, ma non disse nulla. Aveva con sé una grossa scatola, rivestita di stoffa robusta, con dentro un gomitolo di spago, dei bastoncini di ceralacca e un piccolo timbro, su cui era inciso un nodo.
«Qui dentro, ogni fine anno, in un momento solo tuo, chiudi per bene una cosa che ti ricordi un bel momento, ma anche uno buio che è passato, una paura da vincere, un sogno. Anno dopo anno, apri la scatola e mettici dell’altro, ma non togliere nulla: sarà il tuo passato e quello che ti ha fatto soffrire... beh sarà passato.»
Usò altre parole, più semplici, avevo solo dieci anni, ma il fatto di associare un momento a un oggetto mi piacque.
Col tempo lei inventò nuove storie solo per noi e io non partecipai mai a un veglione.
Nella scatola avevo messo un fiocco tolto a quel vestito.
Casa Glicine, 31 dic. 2023
Oggi è il mio compleanno: avevo sfidato tante volte il destino che non pensavo di arrivare ai settantatré anni intera e, per fortuna, con la testa a posto!
Perciò mi sono fatta un regalo: un bel volo, in solitaria, là dove le colline si fanno montagna, splendide dopo la copiosa nevicata dei giorni scorsi che aveva reso il paesaggio morbido e pulito.
È stato un momento magico: un cielo così azzurro e sgombro non lo si vedeva da giorni, e pareva litigarsi la scena con lo scintillio della neve e il profilo dei boschi. Devo essermi distratta un attimo perché un’improvvisa folata di vento mi ha colto impreparata ed è stato in quel preciso momento che ho capito che era finito il tempo della temerarietà e delle sfide: era ora di appendere il brevetto al chiodo. Non era paura, ma la percezione netta dei miei limiti. I miei nuovi limiti.
In biblioteca, su un tavolino davanti alla vetrata che dà sui prati, accanto a una foto di mia zia, ho già sistemato quella scatola, ammaccata e scolorita: Angela sembra sul punto di uscire dalla cornice per curiosare sotto il coperchio.
«Lo so che ti piacerebbe frugare qua dentro, ma conosci le regole. E comunque, zia, ‘sta storia di metterci dentro tu sai cosa così muoiono soffocati è una gran cazzata, sappilo. I brutti momenti a volte tornano e fanno male.»
“Si vede che qualche volta non hai chiuso bene la scatola.” Mi pare quasi di sentire la sua risata squillante e coinvolgente.
Mi capita sempre più spesso di parlare con lei, e ci litigo pure: tra noi c’era sintonia, ci capivamo al volo, anche con mezze parole.
«Perché questa foto è incollata sul coperchio?» mi chiederesti, e io ti risponderei che è perché l’ho scattata il giorno in cui decisi del mio futuro, anche un po’ per colpa tua.
Quel giorno mia madre, al temine di un brutto litigio, se n’era uscita con un “Sei come l’Angela!”, che poi era sua sorella, al che avevo replicato: “Magari sono sua figlia, e sarebbe meglio”. Partì un ceffone, l’unico che ricordi: a tredici anni si può essere molto crudeli.
Ero corsa nella rimessa, una sorta di rifugio dove smaltivo i malumori.
Avevo con me la polaroid e, quasi per caso, fotografai la finestra che dall’alto dava luce al locale: l’intelaiatura ricordava molto le sbarre di una cella, racchiudendo spicchi di cielo. Proprio in quel momento due aerei incrociarono le loro scie e i miei pensieri.
Prigioniera, ero prigioniera: non sapevo dare un nome a quei lacciuoli che sentivo attorno a me, ma a quell’età… Ci pensai a lungo, ma non mi veniva in mente niente di preciso, eppure qualcosa doveva esserci, per star così male.
Quando mio padre venne a cercarmi vide la foto. Gli piacque.
«Papà, voglio andare in cielo.»
«Vuoi morire per un litigio? Magari aspetta che capiti qualcosa di più sostanzioso per cui ne valga la pena.»
«Ma che morire e morire! No, voglio fare il pilota, andarmene lontano, volare… essere libera.»
«Eh, la libertà! A volte si può essere prigionieri anche della propria libertà, ricordalo. Dai, andiamo, domani ne parliamo.»
Non chiesi mai scusa a mia madre per quella frase, né lei a me per il ceffone.
«E vogliamo parlare di Ray, il pilota tuo amico, quello che ogni tanto capitava nel piccolo aeroporto fuori città? Gli confezionavi camicie perfette, e cucivi bene i bottoni, che di solito... Secondo me c’era del tenero tra voi, vista la facilità con cui lo convincesti a farmi provare a volare.»
Il primo volo fu su un aliante. Ricordo ancora quel pomeriggio con la stessa emozione: volare nel silenzio, sentendo solo una sorta di fruscio, avere il cielo a portata di mano, un azzurro così intenso e compatto che immaginai si sarebbero formate delle pieghe se lo avessi sfiorato, come fosse una seta delle più fini. Mi sentivo leggera, libera, senza pensieri e al contempo frastornata da tutte quelle sensazioni cui non sapevo dare un nome.
A dire il vero ero anche un po’ preoccupata: Ray era ben piantato e mi chiesi se non saremmo piombati giù, una volta sganciati. Tipo Willy il coyote.
Qualche tempo dopo mi portò su un piccolo aereo da turismo: tutta un’altra storia. Quel giorno c’era vento e un temporale in arrivo, ma me ne guardai bene dal chiedergli di rimandare.
Coraggiosa, salii sull’aereo baldanzosa, come fosse una cosa normale e Ray si divertì un sacco con qualche manovra non proprio da turista. Una sorta di battesimo dell’aria. Quando scesi, eccoti lì, pronta con la macchina fotografia.
«Te la ricordi, vero questa? Un tempismo! Non stavo baciando la terra, come un papa in pellegrinaggio: stavo vomitando. E voi due a ridere… Sì che s’era stato qualcosa tra voi! Sembravate fatti l’uno per l’altro.»
Fu proprio Ray a darmi una grossa mano per ottenere il brevetto di volo: economicamente non era stata una passeggiata per i miei ma alla fine portai a termine il corso e le superiori, con un bel sessanta/sessantesimi. Il resto è storia, ma una storia irta di difficoltà: una donna pilota era ancora una novità, mettevamo in pericolo la supremazia degli uomini, le ore di volo che servivano per la carriera erano difficili da accumulare. Ma il mondo è grande e trovai di che mantenermi volando per piccole compagnie o al servizio di famosi documentaristi. Ma anche di gente che partiva con valigie piene di denaro e tornava senza.
Rompo il sigillo, taglio lo spago e sollevo il coperchio: arriva, inaspettato, un profumo; era già capitato altre volte, ma era sempre un profumo lieve che svaniva in pochi secondi. Un’idea di profumo.
Oggi è forte, persistente, quasi fastidioso: rovescio sul tappeto il mio passato e un affanno improvviso mi trascina dentro un pianto silenzioso, che fa male allo stomaco, che toglie ritmo al respiro… mi sembra di non riuscire più a prendere aria, di soffocare, non ho neanche la forza di alzarmi. Che sia così quando si muore?
Panico. È solo una crisi di panico. Pian piano passa, ma mi sento strana e la sicurezza di un paio d’ore fa sembra svanire. Anche il cielo ha ora un colore strano, indeciso. Triste.
“Sarà inevitabile chiudere qui dentro anche un sogno che non potrai realizzare, delusioni e qualche fallimento: non moriranno, ma faranno meno male. Anche le bugie saranno meno bugie.”
Avevo fallito su tutto. Ecco il pensiero che mi stava facendo male.
Tutto. Andare per il mondo, quasi a cercare di toccare il cielo con un dito, perché lì pensavo di trovare, tangibile, la mia libertà, volare fin dove nasceva l’arcobaleno, ma là in fondo non c’era nessuna pentola colma d’oro, solo un po’ di altro tempo vissuto, di occasioni perse, non il segnale che stavo facendo la cosa giusta.
Oggi vedo in ogni oggetto nella scatola un frammento del mio spirito che non ho toccato: eppure era lì, a portata di mano. Irraggiungibile.
È strano come un oggetto possa avere significati tanto diversi, un po’ come le due facce di una medaglia: una nascita da un lato è gioia, dall’altro ansia per un nuovo futuro; un lutto è dolore ma anche il sollievo per una vita che ormai non è più vita. In quel mucchietto di cose c’eran anche momenti che altri avevano condiviso con me: una lettera, una foto, un invito. Nonostante tutto. Nonostante me. Ma a senso unico.
La famiglia negli anni si era come sgretolata: separazioni, liti, incomprensioni, gelosie; eredità che avevano diviso fratelli. Riappacificazioni sofferte.
E io, egoisticamente, per non essere coinvolta e dovermi schierare, stavo alla larga da tutto questo: ogni scusa era buona per non esserci, per rimandare un viaggio. Per non soffrire.
Dopo un po’ nessuno aveva più insistito.
Volare era il mio rifugio quando i sensi di colpa arrivavano, improvvisi: tra le nuvole o saziandomi di azzurro, di notti stellate, di bufere di neve o di sabbia, lasciavo che quel malessere che mi stringeva si sciogliesse in lacrime, in urla a volte furibonde.
Non c’ero quando i miei genitori morirono: da tempo non ci parlavamo, senza una ragione precisa. Riuscii solo a prendere qualche fiore dalla corona di mia madre: sono ormai ridotti in briciole, dentro un sacchetto di tela.
C’ero invece quando mancò la zia, mi riconobbe e mai un sorriso mi scaldò il cuore come quello che mi regalò prima di spirare. Lei mi aveva sempre letto come un libro aperto.
Ma le lacrime di quei momenti bui non potevo metterle in una scatola, troppi i fazzoletti e le maniche che avevano asciugato il moccio. Ci sarebbe voluto un armadio.
E adesso era tutto lì, tanti anni per quel mucchietto di cianfrusaglie che parevano uscire dal cassetto dei miracoli e non dai tanti viaggi in cui avevo sepolto le mie fragilità.
Ma alcune cose erano davvero preziose.
«Sai cosa c’è in questo flaconcino? Un po’ delle tue ceneri. Se sapessero che al cimitero c’è della sabbia, apriti cielo! Mi farebbero scomunicare. Il resto l’ho portato in Islanda, là dove avevo scattato le foto dell’aurora boreale che ti erano piaciute tanto. Ci ho volato in mezzo, proprio per lasciarti andare tra quei meravigliosi colori. Ho aperto il finestrino giusto per far passare il sacchetto: là in alto è uno spettacolo pazzesco, sai? Affascina e terrorizza allo stesso tempo, con quei colori incredibili, che cambiano continuamente e che sembrano mantelli pronti ad avvilupparti… ti senti immensamente piccolo, piccolo e inutile come il tentativo di toccare quelle onde impalpabili.
Un volo non facile, lo confesso. Ho avuto paura. Paura che quel cielo mi crollasse addosso, si sfaldasse, e gli altri mi vedessero com’ero veramente. Fragile anche quando vivevo momenti di gioia.
Anche adesso mi sento fragile: vecchia, fragile e con troppi ricordi inutili.
«Tutto a posto, zia?» mia nipote Joy è sulla porta.
«Da quanto tempo sei lì?»
«Oh, due secondi, ti ho sentito parlare e pensavo avessi una visita.»
«Pensavo a voce alta.»
«Okeeey. Ti preparo del tè?»
«No, rimani pure, ormai ho quasi finito.»
«Scusa, ma la telecamera a cosa serve?»
«Mi sono filmata, sai la solita cerimonia. Metterò la chiavetta qua dentro: quest’anno è stato così noioso che non saprei che altro metterci e mi pareva una buona idea. Un video demenziale, ma tant’è. Li dentro non farà danni a qualche debole neurone.» Spero che creda alla mia allegria e mi invento anche dell’altro:
«Magari mi rivedo prima e prendo qualche appunto su cosa è successo, così, per vedere se ancora so scrivere qualcosa di decente, ma senza impegno né riletture. Solo per noi. Pazienza se vedrò arrivare il nuovo anno!»
«A proposito, avrei un regalo per il tuo compleanno, e niente proteste. Vieni.»
Ci sediamo sul tappeto, lei prende il portatile e inserisce una pen drive: è un filmato che ha fatto durante la sua ultima missione nello spazio. Non avevo mai visto un cielo così luminoso, eppure era di un nero assoluto. Si intravedevano vagamente alcune stelle, ma era la Terra che mi lasciò senza fiato. Foreste, città che parevano pagliuzze d’oro, oceani dalle mille sfumature di blu, le spaventose spirali di un uragano, l’ocra dei deserti e il bianco dei poli... Un meraviglioso mappamondo che respirava. Rimaniamo per un po’ in silenzio, la telecamera ci immortala mentre ci prendiamo per mano, commosse.
«Se nasco un’altra volta, voglio fare l’astronauta», le dico tirando su col naso, «almeno su un razzo sarò una supposta perfetta.»
«Una supposta?»
«Deve essercene una lì in mezzo.»
Joy prende i piccoli oggetti rimasti: un ciondolo, un gattino di vetro… è delicata, c’è del rispetto nel suo modo di toccare e osservare quelle cose.
Dal retro di una foto si stacca un piccolo involucro di carta stagnola.
«Eccola, è ancora bella soda.»
«Bene, fa proprio al caso tuo. Ora ti spiego, sennò pensi che sia una svampita.»
Quando diventerai pilota - non se, mi disse Angela, ma quando - voglio essere la prima in famiglia a volare con te.
L’accontentai: il giorno del mio primo volo senza istruttore e con tutta la famiglia schierata, lei era già sul piccolo biposto che avevo noleggiato. Indossava una vecchia tuta da aviatore, con un berretto foderato di pelliccia e degli occhialoni da volo che chissà dove aveva trovato.
Solo lei avrebbe avuto il coraggio di presentarsi così.
Quando arrivammo in prossimità di alcune nuvole che parevano di cotone mi chiese di entrarci e dopo qualche minuto mi chiese:
«Sai cosa succede a una persona quando muore?» ovviamente non attese risposta.
«Il corpo va sottoterra e lì è una faccenda disgustosa. L’anima, se ce l’aveva, andrà in paradiso ad annoiarsi o all’inferno a divertirsi. Ma il suo spirito, la sua essenza, andrà a sedersi su una nuvola, si metterà comodo e finalmente sarà in pace, libero da tutto il peso che portava. E si godrà lo spettacolo dei poveri umani alle prese con la vita.»
Ricordo che aveva una voce strana, malinconica.
«Quindi stai attenta quando entri nelle nuvole, potresti diventare la supposta di qualcuno.»
Ridemmo talmente tanto che da far pensare che avessimo incontrato qualche vuoto d’aria.
Joy si sta rotolando sul tappeto dal ridere e tra tutte e due non abbiamo uno straccio di fazzoletto per asciugarci le lacrime.
«Secondo te, zia, quando partirò per prossima missione, riuscirò a star seria? Nuvole di solito non ce ne sono, ma se capitasse… Non ci voglio pensare!»
«Come astronauta sarai una supposta migliore di me, di sicuro più aerodinamica.»
Il sole sta tramontando: un tramonto splendido, dove il blu del cielo su cui già si intravedono le stelle si mescola col giallo, l’arancione e il viola che colora nuvole leggere che paiono di lanuggine. Ma il sole si prende la scena, le ultime battute del giorno le colora di un rosso che nessun pittore riuscirà mai a uguaglare, su cui spiccano nette le sagome delle case oltre il giardino e i grandi alberi del parco.
«E tu, hai preparato tutto, tesoro?» chiedo a Joy mentre il nuovo sigillo si rapprende.
La storia si è ripetuta: il giorno in cui compì dodici anni le avevo regalato la sua scatola e il nostro segreto. Io ero per lei quello che la zia era stata per me, e viceversa.
Anche le nostre madri, stessa gelosia.
«Sì, è tutto pronto. Quasi: aspetto una copia dei tuoi appunti.»
L’anno nuovo è arrivato da qualche ora, per una volta ho brindato, ma solo perché mi ci voleva un aiutino per superare l’ultimo compleanno vecchia maniera.
Cercando nel cassetto della scrivania una busta per metterci questa specie di racconto, trovo una scatola, rivestita di una stoffa molto elegante: dentro c’è un biglietto.
“Per gli anni a venire. Non aprire più quell’altra, il passato è passato. D’ora in poi solo bei ricordi. Ricordati che ti voglio bene.
P.s. se nasco un’altra volta, ti rivoglio come zia.”