«Scrivi» mi ha detto il mese scorso il dottor Parenti «ti servirà, vedrai».
Lo psicologo da cui mi avevano mandato contro la mia volontà; mia madre aveva tanto insistito che avevo infine ceduto.
«Spesso non riusciamo a tirare fuori tutto quello che abbiamo dentro perché ci fa male, ci fa soffrire e non vogliamo essere in difficoltà, mi viene da dire in inferiorità, nei confronti di chi ci sta davanti» aveva continuato.
«Invece, se scrivi, sei tu e il foglio e tutta la rabbia che hai dentro la rivolgi a lui; puoi anche semplicemente riempirlo di parolacce se pensi che in quel momento è ciò che ti serve a stare meglio» aveva concluso.
Come sempre ho annuito, la mia mente vagava altrove attendendo la fine dell’ora di “trattamento” come la chiamo io.
Naturalmente non l’ho fatto, mi sembrava una cosa così stupida!
Come se scrivere due parolacce su un foglio potesse bastare a dimenticare, a farmi ritrovare il sonno perso, a farli tornare in vita…
L’altro giorno è arrivata questa incredibile notizia: il cielo di Castelmagno è stato inserito nel percorso per il riconoscimento quale Patrimonio dell’Unesco: sarebbe il primo cielo al mondo a riceverlo.
La mia prima reazione, ancora una volta, è stata di rabbia; proprio quel cielo che avevo imparato a odiare veniva candidato a uno dei massimi riconoscimenti universali!
Ho pensato che fosse una presa in giro e ho gettato lontano il giornale.
Eppure la notizia ha smosso qualcosa dentro di me, per un giorno intero ho sentito un pugno che mi stringeva lo stomaco in un groviglio di sentimenti negativi impedendomi di dormire e di mangiare; a tavola ho visto lo scambio di sguardi dei miei genitori, il loro parlare silenzioso per non urtare la mia suscettibilità.
Ormai hanno imparato quali sono i momenti in cui possono parlarmi, magari anche confortarmi a loro modo e quando, invece, è meglio lasciar andare limitando allo scambio di sguardi il loro dialogo.
Quante volte in questo anno ho sentito un vero senso di colpa per aver portato tanti silenzi durante i nostri pranzi e le nostre cene, per aver portato tanto grigio anche nelle loro vite, quasi che la mia rabbia sia contagiosa e possa inquinare anche le loro giornate.
«Non ti preoccupare per noi, tesoro, sappiamo come ti senti» amano ripetermi nei momenti in cui ho bisogno di rifugiarmi in loro.
Oppure ancora: «passerà, ci vuole tempo, ma un po’ alla volta passerà e comincerai a stare meglio anche se non dimenticherai, questo purtroppo lo sai anche tu, non è possibile».
A volte mi spingono con più energia: «esci con gli amici, non rimanere sempre chiuso in quella stanza!»; «studia, amore, non vorrai perdere l’anno!»; insomma mi sommergono di amore.
Sono passati tre giorni e nel frattempo ieri c’è stata la seduta dallo psicologo; gli ho detto che ho cominciato a scrivere e lui «molto bene» mi ha detto solamente come se la notizia non lo avesse sorpreso: quasi lo sapesse fin dal primo momento che prima o poi sarebbe successo.
Gli ho detto della notizia dell’UNESCO e lui ancora una volta mi ha ripetuto che io so benissimo che il cielo non c’entra nulla ma che ho bisogno di odiarlo per dare la colpa a qualcosa e così facendo dare anche un senso a quanto accaduto.
Stavolta ho reagito: «certo che è colpa del cielo, dottore; siamo saliti per vedere le stelle, siamo saliti per quello stupido arcobaleno, il cielo ci ha chiamati lassù e poi ci ha traditi!» ho gridato tutto d’un fiato accasciandomi sulla sedia.
Temevo una sua reazione e invece ancora una volta mi ha guardato con i suoi occhi buoni; non ha detto nulla per un po’ poi ha ripreso il discorso da dove lo avevo interrotto: «il cielo è lassù, non prende decisioni per noi, non può chiamarci e non può tradirci ma ora tu hai ancora bisogno che sia così e io non posso farti cambiare idea; forse non sarebbe nemmeno giusto, io non c’ero su quella macchina».
Ieri sera, dopo una giornata difficile, ho avuto la tentazione di uscire nel cortile di casa per vedere le stelle ma quando ho messo la mano sulla maniglia della porta non ce l’ho fatta.
È difficile spiegare quello che mi succede, fisicamente è come se il cuore accelerasse improvvisamente e il corpo sembra svuotarsi di ogni energia; mi viene un “groppo” in gola che non riesce a sciogliersi, come forse sarebbe opportuno, in lacrime.
Sono andato a sedermi sul divano sconfitto una volta di più, mia mamma mi ha raggiunto dopo pochi secondi, mi ha preso la mano tra le sue senza dire nulla, semplicemente mi ha tenuto con lei.
«Come mai non mi chiede di portarle ciò che scrivo in modo che possa leggerlo?» ho chiesto ieri al Parenti.
«Tu vuoi che legga quello che scrivi?» ha risposto lui con una domanda alla mia domanda.
«Pensavo servisse alla terapia, altrimenti perché mi ha detto di scrivere?» gli ho chiesto io di rimando.
«Se tu ritieni che io debba leggere quello che scrivi portamelo pure, lo farò con piacere. Scrivere serve a te, non a me» ha concluso con un sorriso pieno di tanti “non detto”.
Per quanto attacchi, la palla torna sempre nella mia metà campo.
Mi sono accorto che da qualche settimana, comunque, i nostri incontri non sono più monologhi del dottore o lunghi silenzi ma sempre più spesso dei dialoghi o, almeno, dei botta e risposta.
Quando l’ho salutato mi ha ricordato che ora non ci vedremo per un paio di settimane perché lui va in vacanza.
Lo sapevo ma ugualmente mi ha colto impreparato: «proprio adesso, dottore… settimana prossima…» non riuscivo a tradurre le mie paure in parole sensate.
«Lo so, ma penso che tu ce la possa fare. È il momento perfetto per fare una pausa; ripensa a quello che ci siamo detti e a tutto quello che non ci siamo detti in questi mesi e poi scrivi quello che provi.
Tra due settimane mi porterai tutto quello che hai scritto se lo riterrai importante».
Mi ha stretto la mano sulla porta ma non è stata la solita stretta, c’era qualcosa in più che ho percepito; può sembrare assurdo ma in quella mano che ha trattenuto per una frazione di secondo più del solito la mia, ho sentito fiducia.
Da due giorni guardo il notes, prendo la penna ma poi non riesco a scrivere nulla.
È come se avessi paura di perdere il carico di emozioni dell’altra notte mettendolo nero su bianco.
Potrei scrivere domani.
Stasera ho chiesto a mio papà se domani pomeriggio mi porta lassù.
Non ha detto niente, mi è venuto vicino e mi ha stretto in un abbraccio; quando mi ha lasciato aveva gli occhi lucidi, mi ha fissato per un attimo, le labbra appena piegate in un impercettibile sorriso.
Si è girato e se ne è andato.
Ce la posso fare, dottore!
Siamo in macchina, è voluta venire anche mamma con noi.
Sono seduto dietro, aggrappato al sedile, notes e penna in mano con cui sto scrivendo, accanto a me una torcia nel caso sentissi il bisogno di scrivere anche più tardi quando sarò completamente al buio.
I miei non hanno voluto sentire ragioni: «ti aspetteremo poco lontano, in qualsiasi momento avrai bisogno dovrai solo chiamarci» ha detto mamma.
Ci siamo, tra poche centinaia di metri affronteremo quella curva, ripongo carta e penna, chiudo gli occhi…
Tenevo la mano di Camilla quando l’auto non ha più trovato la strada; avevo gli occhi chiusi, il cuore pieno di quel contatto da ormai quasi due ore e per una frazione di secondo ho pensato di essermi addormentato: la sensazione è stata quella di certi sogni quando sembra di precipitare e per un momento nel sonno è come se mancasse l’aria.
Quando ho capito cosa stava succedendo ho stretto più forte la sua mano ma è stato solo un attimo, la macchina ha rimbalzato la prima volta e io ho perso Camilla, per sempre.
Non ricordo altro ma una cosa mi è rimasta impresso, l’incredibile silenzio dentro l’abitacolo, nessuno ha gridato, nessuno ha detto una mezza parola, solo un grande silenzio.
Papà ha fermato la macchina a circa ottocento metri dal punto dove ci eravamo fermati noi un anno fa; sono sceso senza dire nulla, anche loro non hanno detto nulla, non ce ne era bisogno, li ho sentiti vicini come mai in questi ultimi mesi.
Ho steso la coperta e aperto lo zaino da cui ho tirato fuori i panini, la pesca e la borraccia dell’acqua; ho cominciato a mangiare mentre il sole lentamente scendeva dietro le montagne colorando il cielo di giallo, arancio, rosso.
Mi sono riempito gli occhi e il cuore di tanta bellezza sapendo che ne avrei avuto bisogno più tardi.
Mi sono steso e ho socchiuso gli occhi, non mi sono addormentato ma semplicemente assentato per un po’.
Infine il buio è arrivato, il buio più profondo che ha permesso al nostro cielo di candidarsi all’UNESCO, il buio così simile a quello sceso dentro di me da quella sera.
Ma ci ho messo poco ad abituare la vista e accorgermi che il cielo non era uniformemente nero: era punteggiato da una miriade di stelle.
Ho atteso pazientemente di vedere la prima di quelle stelle cadere, poi ho chiuso gli occhi e mi sono ritrovato indietro di un anno.
L’escursione era stata in forse fino all’ultimo in quanto a inizio pomeriggio si era messo a piovere.
Era stato il cielo stesso a farci cambiare idea regalando un arcobaleno magnifico dopo il temporale: ci era sembrato un invito cui è impossibile dire di no
Così avevamo caricato sul fuoristrada di Marco i nostri zaini con panini e bevande, le cerate da stendere sul prato e tutto l’entusiasmo e la gioia delle nostre giovani età.
Eravamo arrivati in tempo per assistere a un magnifico tramonto che aveva restituito al cielo tutta la bellezza che lui poco prima aveva elargito a tutti noi con l’arcobaleno.
Poi le tenebre avevano via via preso il sopravvento e il cielo si era colorato di un nero intenso finché a una a una, come tante lucciole, si erano accese le stelle.
Ci eravamo coricati sulle cerate e le chiacchiere, le risatine, i sussurri erano andati spegnendosi.
Ognuno di noi si era concentrato per cercare di scorgere la stella cadente che gli avrebbe permesso di esprimere un desiderio.
Io percepivo la vicinanza di Camilla e continuavo a ripetermi che se fossi riuscito a vedere una stella cadente mi sarei fatto coraggio e le avrei preso la mano.
E la stella alla fine era caduta!
Mentre ad occhi chiusi rivivo gli stessi momenti di un anno prima li sento arrivare, uno alla volta si stendono accanto a me e sono di nuovo loro, Marco “Appo”, Nicolò, Elia, Camilla, Samuele; e poi Anna, Chiara e Marco, i sopravvissuti come me.
So che è assurdo ma improvvisamente apro gli occhi e mi sembra che le stelle lassù in cielo disegnino i loro volti: «Camilla» dico, ma nessun suono esce dalla mia bocca, è solo dentro la mia testa.
Intuisco che il cielo sta provando a fare pace con me.
Ricordo che mentre ci dirigevamo verso il fuoristrada a fine serata giocavamo a “svela il desiderio” mentre Anna protestava: «se sveliamo il desiderio non si avvererà mai».
Avevo sorriso a Camilla mentre ancora la tenevo per mano e lei mi aveva sussurrato «il tuo si è già avverato» facendomi arrossire: per fortuna c’era molto buio.
Poi mi aveva detto che il suo desiderio era di vincere i campionati mondiali di cheerleader con le sue compagne.
Ora provo a immaginare i desideri degli altri perché nessuno alla fine aveva svelato il proprio e vedo Appo urlare di gioia dentro lo Stadio per lo scudetto del suo Toro, vedo Nicolò che esce da scuola con in mano il diploma edile, vedo Elia con in mano un grosso pesce appena pescato, il più grosso che si possa immaginare, vedo Samuele che mi dice «io avevo chiesto di non perderci di vista e di essere ancora qui insieme per tanti anni sotto questo cielo a cercare le stelle cadenti».
E, finalmente, piango.
Li ho sentiti arrivare, in silenzio, lentamente; si sono stesi al mio fianco, uno da una parte e una dall’altra.
Mi hanno preso una mano ciascuno.
E li ho sentiti piangere in silenzio assieme a me.
Dopo un po’ papà ha detto: «ho appena visto una stella cadente e ho chiesto a questo bellissimo cielo di tenere sempre tra le sue braccia i nostri “ragazzi delle stelle”; ora scendiamo, è tempo di tornare a vivere».
Il Dottor Parenti si è tolto gli occhiali e si è massaggiato la radice del naso tra l’indice e il pollice; fa sempre così quando cerca di prendere tempo.
Mi ha guardato e mi ha detto: «credo che possiamo salutarci, Danilo; ora puoi tornare a camminare con le tue gambe».
L’ho guardato sentendo dentro allo stesso tempo tutta la forza che è riuscito a darmi in questo anno e una grande paura di non essere più in grado di fare a meno di lui.
Mi ha anticipato: «in qualunque momento riterrai di avere bisogno di me sai dove trovarmi».
Ci siamo alzati e ha allungato la mano per salutarmi; ho avuto un attimo di incertezza e poi l’ho abbracciato.
So che non si fa ma non sono riuscito a frenare l’impulso.
Mi ha dato una carezza dietro la nuca e poi sorridendo mi ha congedato: «ora va e cerca di trovare la felicità che meriti».
Sono uscito e ho pensato a Camilla e alla nostra storia durata poco più di un’ora e proprio in quel momento uno squarcio tra le nuvole mi ha mostrato un pezzettino di cielo azzurro intenso come erano i suoi occhi.