È tutto bianco. Sembra quasi neve.
*
Usciamo dal portone diroccato, il riparo che abbiamo diviso con due cadaveri mummificati, solo quando non cade più niente. Il cielo è grigio, livido.
Otto minuti di bombardamento, proiettili di ghiaccio grossi come pugni, e siamo fortunati: questo cielo ha seppellito Aleppo sotto due mesi di grandinate peggiori.
Adesso è così: pochi minuti d’inferno e poi tregua, ogni giorno, continuamente, senza sosta. Senza sapere quando sarà la prossima. Se mai si rivedrà il sole, da queste parti.
“Sembra neve,” Aguilar raspa lo stivale sul manto ingombro di ghiaccio che si scioglie quasi subito, la temperatura s’alza dopo ogni fenomeno. “Sembra quasi neve.”
Aleppo è in rovina, non s’è salvato nulla. Dieci anni di guerra, poi questo. Non c’è più niente, è stato tutto riutilizzato, bruciato, depredato, usato per sopravvivere in questi mesi di condizioni assurde, in una città isolata e tagliata fuori da ogni aiuto umanitario, alla mercé del clima e dei ribelli.
“Muoviamoci,” accenno alla catena di veicoli distrutti che ingombra la strada, un centinaio di metri più avanti. Aguilar, McCormack, sono buoni soldati; eravamo nello stesso reparto durante la crisi di Manila, li ho voluti nel mio staff dopo la promozione, in Colombia; hanno fatto la differenza nell’inferno di Haiti. Nessuno dei due s’è mai lamentato di quel che abbiamo passato, né della Siria, mai una parola fuori posto.
Il mondo sta impazzendo, un grado alla volta, e continuerà a farlo, non importa quanto ai miei superiori interessi capire e, a volte, nascondere la polvere sotto il tappeto.
Il ghiaccio stride sotto le suole rinforzate degli anfibi.
Teniamo i fucili automatici puntati sulla carcassa dell’Humvee: ha la mimetica color sabbia scrostata dalla grandine e dai segni di battaglia; giace inerte tra i resti di decine d’automobili distrutte, barricate improvvisate, macerie.
L’emblema del 76° Fanteria, su una portiera, è crociato di rosso con vernice spray.
“Copritemi.” Mi accosto al mezzo, è vuoto, c’è sangue secco sui sedili. Tutto intorno, anche se nascosti dal caos, molti dettagli mi parlano di movimenti recenti, camion in transito, stivali.
“Supervisore,” McCormack si tocca il naso con l’indice.
La strada, larga, decrepita, scorre diritta tra gli edifici sventrati, con lo stesso cielo grigio perenne stagliato sullo sfondo: l’odore stona, è putrefazione.
“Lo sento anch’io. A ventaglio, controlliamo l’area.”
Non sappiamo cosa cercare né dove cercarlo. Quando è arrivato l’inferno di grandine, in Siria, il 76° era di stanza qui, per tenere a bada i ribelli; è stato dato loro l’ordine d’evacuazione, non hanno obbedito. Non hanno lasciato la città.
I satelliti faticano a vedere oltre la turbolenza permanente e il silenzio radio ha fatto il resto: non si sa più nulla di loro.
Proseguiamo con la sensazione d’essere osservati, dai piani sfondati dei palazzi, dai tetti informi; è tutto bianco, mentre la grandine si scioglie e sembra il Montana in dicembre.
Incrociamo un’altra strada, larga, bordata d’edifici distrutti e veicoli sfondati. C’è un silenzio che fa male ai sensi.
“Gesù Cristo.” Aguilar indica un punto al bordo della via: l’odore diventa insopportabile man mano che ci avviciniamo, armi tese, i nervi più ancora.
Una quindicina di corpi giacciono scomposti lungo il muro crivellato, le uniformi sono inconfondibili.
“I nostri.” Aguilar si afferra mento e bocca per soffocare un rigurgito di sdegno. “Sono i nostri.”
Mi chino sui cadaveri, hanno ancora le piastrine al collo ma non le armi o i giubbotti antiproiettile. Dal colore dei volti e l’intensità dell’odore devono essere stati uccisi molti giorni fa.
Da quando sono qui non faccio altro che imbattermi in morti, di ogni genere e tipo, ma ora è diverso; ora le iridi vitree sono quelle di ragazzi che avrei potuto incontrare solo un mese fa a Camp Solomon.
“Chi ha fatto questo?” Aguilar inspira duro, ha il battito accelerato.
“Guarda come sono disposti. È stata un’esecuzione.”
Li hanno fucilati, in riga.
“Chi?!”
Raccolgo uno dei tanti bossoli sparsi come formiche tra il ghiaccio. “Munizioni americane.”
“Li hanno giustiziati con le loro armi?!”
Stringo l’ogiva nel pugno guantato. “Credo che la verità sia peggiore.”
Faccio segno di rimetterci in cammino, le loro facce sono scure, ombrate, come il cielo che ci sovrasta. L’aria si fredda di colpo e l’inconfondibile suono della grandine, intorno, fa saltare un battito ai nostri cuori.
“Là! Al coperto!”
Corriamo imprecando mentre il cielo riprende a vomitare bianco, mentre il ghiaccio martella gli elmetti, le armi, crea lividi sulla pelle dove le protezioni in kevlar non coprono l’uniforme da fatica. Troviamo scampo sotto un porticato in tempo per evitare lo sfogo peggiore: altri morti, nudi e incartapecoriti, se ne stanno per sempre al riparo in ciò che resta d’un androne. Tutto intorno diventa una cortina bianca martellante, assordante, fatta di crepitii acuti e sordi, il cemento, il metallo, le lamiere torturate delle auto.
Sembra quasi neve, sotto steroidi.
“Crede in Dio, supervisore?” Aguilar mi guarda, poggiato di spalla al muro, la testa inclinata.
“Non qui.”
Lui tira fuori dal colletto una catenina, la Madonna col Bambino al seno cesellata su semplice ferro. “In cosa crede allora?”
Scuoto il capo. “Nelle scelte giuste.”
Bacia l’icona, la lascia svanire di nuovo nell’alveo caldo del torace.
Il frastuono scema e così il flusso di ghiaccio: com’era iniziato, finisce. Sei minuti.
“Andiamo.”
Di nuovo allo scoperto, ci spostiamo su un pavimento irregolare di sfere bianche e detriti. Non si muove nulla, non c’è niente di vivo. I morti costellano il paesaggio tanto quanto il biancore, abbandonati per le strade o ancora seduti nelle loro automobili. Molti sono civili, altri sono ribelli, o questo dice ciò che resta delle loro uniformi, dei volti secchi e digrignati. Sono i fantasmi di un’ecatombe che diventa sempre più grande, man mano che avanziamo verso una meta arbitraria, cercando qualcosa che non sappiamo cos’è: risposte, a questo punto.
Pure, qualcosa continua a sussurrare che non siamo davvero soli.
“Non possono essere tutti morti,” McCormack sputa attraverso la barba rossastra, “un’intera città.”
“È il 76° il nostro unico obiettivo. Tralasciate i civili.”
“Perché non si sono ritirati quando è arrivato l’ordine?”
La risposta è in un altro assunto che ho formulato prima, ma non ne do voce.
Quando alla guerra degli uomini si aggiunge la guerra degli elementi, del cielo stesso, allora non ci sono più possibilità di vittoria; rimane solo l’istinto primordiale della sopravvivenza. L’ho visto a Manila, in Colombia, ad Haiti, e in mille altri posti dove Dio non c’è e non ha mai neanche messo piede.
Quando tutto cade, quando resta solo l’impulso a sopravvivere, le decisioni si fanno più ardue, gli sbagli più probabili. Basta poco per una scelta impropria, un punto di non ritorno. Guardo i morti che sono ovunque, tappezzano la città come poster sbiaditi: ognuno di loro ha fatto una valutazione errata, una delle tante possibili.
“COPERTURA!”
McCormack è il primo a gettarsi a terra dietro un’auto, al lato della strada; lo imitiamo in uno scoppio d’adrenalina, un attimo prima che una nuova grandine, questa volta in lega di piombo, ci investa con eguale furia.
Proiettili di più calibri sfondano le lamiere, scheggiano l’asfalto, si sentono le urla di uomini appostati tra le barricate di detriti, di fronte a noi.
Spariamo senza mirare, a caso, per spezzare il loro tiro; striscio verso sinistra in cerca d’una posizione migliore, scorgo le forme di stivali anfibi da qualche parte più avanti, memorizzo, calcolo il percorso più sicuro per aggirarli.
“Allargatevi, teneteli impegnati!”
Mi alzo solo quando raggiungo la copertura d’un bus sventrato, lo percorro in lunghezza, nel frastuono delle scariche di fucile. Quando volto oltre il muso, arma tesa, vedo uno di loro inginocchiato dietro un riparo, spara come un pazzo verso i miei uomini.
Ha l’uniforme americana. L’elmetto americano.
“Getta l’arma, idiota!” Lo punto col cuore gonfio e una smorfia d’amarezza. “Siamo dei vostri!”
Lui si gira, avrà vent’anni, la pelle nera, gli occhi sbarrati. In questi non c’è traccia di valutazione sbagliata, solo volontà d’uccidere.
Quando alza il fucile per spararmi, lo freddo con il colpo perforante della seconda canna in pieno torso: un urlo e uno spruzzo di sangue vaporizzato nell’aria.
Avanzo oltre, basso, sento grida di stupore e imprecazioni. Scavalco una barricata, irrompo dietro una protezione in lamiera e sacchi di sabbia, dove altri due soldati si voltano con quell’attimo di ritardo che mi basta per sparare loro in testa: uno degli elmetti si stacca dalla cinghia e rotola sull’asfalto.
Ammazzatelo, ammazzatelo!
Un terzo si alza da dietro il riparo, mi punta, non posso voltarmi in tempo: Aguilar lo fredda con una raffica dalla distanza, lo guardo accasciarsi scomposto in un frastuono secco di stoffa e kevlar. Un altro arretra malamente, nel farlo si scopre a sinistra, un nuovo colpo preciso lo abbatte, echeggiato dal suo verso di morte.
Il sangue ruscella da sotto il corpo, si mischia al ghiaccio che va sciogliendosi, ora nel silenzio.
Attendiamo secondi infiniti prima di stabilire che non ce ne sono altri.
“Che cazzo succede?!” McCormack guarda attonito gli uccisi. “Abbiamo sparato ai nostri?!”
“È stata legittima difesa, soldato. Sapevano chi siamo.”
“Come sarebbe?!”
Aguilar si sbraccia, poco più in là, lo raggiungiamo.
“Questo è ancora vivo, signore.”
È il primo di loro cui ho sparato. Mi guarda con occhi sgranati e la bocca ripiena di sangue. Poggio un ginocchio a terra; la mia voce è fredda, più del voluto. “Supervisore Grant, CIA. Che cos’hai fatto, soldato?”
Lui gorgoglia, tossisce. “Va’ all’inferno,” la sua, di voce, è calda di polmoni forati, “porco.”
Guardiamo, in truce silenzio; la mia mano si muove da sola, d’istinto, cinge la manica del morituro, dove la bandiera americana e il logo del 76° sono stati crociati con nastro adesivo rosso, una X di puro diniego.
“Che cazzo avete fatto?!” McCormack si butta a terra, stringe il bavero del caduto e più ancora la sua anima, alla ricerca d’una goccia di pentimento. Non c’è risposta mentre due occhi lividi ruotano al bianco e si spengono.
Ho la bocca secca. “Il 76° ha disertato.”
“Tutto il 76°?!”
“Non tutto.” Accenno dietro, lontano, ai cadaveri dei soldati fucilati.
McCormack si massacra la barba e scuote la testa, attonito. “Ma per quale ragione?”
Non lo so. Non ancora.
Guardo intorno e tutto mi parla di battaglie continue, requisizioni, repressione, strada per strada. Morti che non è solo la grandine ad aver consumato. Aleppo è una città cannibalizzata da due mesi di follia. E nella follia si prendono decisioni errate.
Il mondo sta impazzendo, un grado alla volta.
“Che cosa facciamo?”
Guardo Aguilar, ma solo per specchiarmi nelle sue iridi scure, per trovare lo stesso filo conduttore che ho seguito in molti altri posti prima di qui. “Questi erano una retroguardia. Non penso che il resto del 76° sia lontano.”
“Li avremo addosso, allora.”
Le tracce fresche di pneumatici, i movimenti recenti di mezzi e uomini.
“Non credo. Si stanno spostando, verso nord, forse.”
“Il confine turco? Vogliono farsi massacrare?”
“Vogliono passare, negozieranno.”
Lui impreca, scuote il capo.
L’ho visto succedere altrove, ma mai coi nostri. Difensori che diventano oppressori, predatori, assassini. Non hanno lasciato Aleppo, l’hanno conquistata, l’hanno saccheggiata. Sono diventati essi stessi dei ribelli.
Tolgo di tasca il comunicatore cifrato, invio poche parole in codice ai miei superiori perché facciano i loro calcoli.
76° disertori, fucilati soldati USA leali, intenzioni ignote. Città fantasma. Attendo ordini.
La risposta è rapida come la grandine che, di lì a poco, ricomincia a cadere.
Coprire questa infamia, qualsiasi azione necessaria, discrezione assoluta. Carta bianca.
*
Abbiamo avuto altri due scontri con pattuglie del 76°. Il caos delle sparatorie potrebbe attirarci addosso l’intero reggimento, o quel che ne resta, invece non arriva nessun altro.
Questi uomini difendono a più strati qualcosa, e quel qualcosa è ancora oltre, verso il confine nord della città; combattono con rabbia, con odio, ma i mesi passati qui hanno minato la loro lucidità.
Li uccidiamo uno alla volta con metodica efficacia, ripetendo a noi stessi che non sono più soldati americani. Quando cade la grandine, anche loro, stesi sull’asfalto crepato, diventano parte del biancore.
Scorgiamo la meta quando i quartieri mutano in filo spinato, reti d’acciaio e sbarramenti fatti coi resti di corazzati distrutti. Scritte in arabo stentato, verniciate col rosso, danno indicazioni di cui non comprendo il senso. Un ufficiale pende impiccato a un lampione.
“Bastardi traditori.”
Il perimetro non sembra presidiato. Gesticolo per mantenere la calma. “Saliamo. Voglio vedere cosa difendono.”
C’inerpichiamo sulle scale di un caseggiato aperto in metà. Una balconata superstite offre visuale sul macilento fortilizio del 76°: un’accozzaglia informe di tende, ripari anti-grandine eretti con paratie, portiere d’auto, tetti in lamiera, pareti di container arrugginite. Hanno usato ogni cosa possibile per sfuggire all’inferno di ghiaccio che cade dal cielo.
La visuale è scarsa, l’infinità di ripari limita la vista, ma i suoni sono inconfondibili: decine di motori accesi, ordini impartiti, figure che appaiono e scompaiono.
“Se ne vanno.”
Il 76° si prepara a evacuare la città, verso nord, come previsto.
Devono essere ancora un buon numero, forse cento, forse duecento uomini. Il visore termico mi mostra numeri molto maggiori, sagome informi, calde, ammassate sotto le tettoie in attesa dell’imbarco sui mezzi disponibili.
“Cosa facciamo, supervisore?”
Coprire questa infamia, qualsiasi azione necessaria.
“Eseguiamo gli ordini.”
Calcolo il tempo d’intervento, i minuti passati dall’ultima grandinata, stimo quelli che mancano alla prossima. Il nemico è radunato in un unico posto e non ci sarà occasione migliore per un repulisti completo.
Richiesto intervento aereo immediato, coordinate a seguire.
Esito un istante, è l’ora delle decisioni.
La grandine ricomincia a cadere, fitta, scrosciante, imbianca ogni cosa. È quasi neve.
Appena finirà, la temperatura tornerà a salire di colpo. Il nemico ha molti ripari che lo costringono in spazi angusti. C’è una cosa, una, che con questa combinazione di fattori diventa persino più efficace delle testate tradizionali.
Richiesto munizionamento al fosforo bianco.
Aguilar mi guarda, cereo in volto. “È… la cosa giusta?”
Decisioni. Scelte.
“Quegli uomini hanno fatto una scelta.” Le bandiere crociate col nastro rosso. “Io devo farne una di conseguenza.”
“Quella merda… quella merda è orribile, signore. Il fosforo bianco.”
Annuisco. Lo guardo tirare fuori la collanina dal petto, baciare l’icona della Madonna col Bambino.
Forse è la grandine, questo continuo stare coi sensi in allerta, per giorni, per mesi, per sempre: porta a prendere decisioni sbagliate. Quegli uomini hanno preso la loro.
La grandine cessa com’è iniziata, l’aria fresca cala di colpo.
I droni atmosferici, da qualche parte oltre la coltre di nubi, hanno già aperto il fuoco.
Testate a basso calibro, ripiene d’agente aggressivo, forano il cielo e impattano, in un silenzio spettrale, su ciò che resta del 76°: una grandine chimica contro la quale non c’è riparo.
Alzo il bavero su naso e bocca per coprire l’odore, così simile all’aglio, che presto arriverà anche qui, nonostante la distanza.
Quel che non posso coprire sono le urla, strazianti, lancinanti, che salgono in un miasma cacofonico, che ridanno vita all’intera Aleppo, come se i morti avessero parlato tutti insieme, per breve.
Scendiamo solo quando cala il silenzio.
*
Il 76° non esiste più.
I loro mezzi sono in fiamme, i corpi dei soldati, bruciati, anneriti, giacciono ovunque, contorti in pose agonizzanti e urla di dolore rimaste sui denti digrignati.
Camminiamo nella devastazione fumante, le armi a mezza altezza perché nulla è davvero in grado di porre una minaccia, non i pochi uomini che, in agonia, rantolano o si trascinano al suolo con gli arti sciolti, la carne bruciata.
È tutto bianco.
La grandine s’è dissolta in un attimo, non il fosforo dove è rimasto attaccato, sul cemento, sul metallo. Ha imbiancato tutto, persino l’aria, un’aria intrisa di cenere immacolata.
Questi uomini hanno scelto da soli tutto questo, io sono solo un tramite. Un esecutore.
Ho dovuto prendere questa decisione.
“No…” La voce di Aguilar ha un tono flebile che non avevo mai sentito.
Lo guardo accostarsi a uno dei ripari più grandi, un vecchio silo rinforzato con ogni sorta di lamiere. “Gesù Cristo, no…”
Mi accosto, una nota stonata nel mio stesso respiro.
“No, no…”
“Mantieni il controllo, soldato.”
Aguilar non risponde, cade sulle ginocchia.
Il silo è ingombro di cadaveri fumanti, ustionati a morte. Non hanno uniforme, non hanno armi. La mia mente annebbiata continua a mancare il nesso, McCormack, appena dietro, lo coglie al mio posto in un sussurro. “Civili?”
“Non è possibile.”
Ogni riparo, ogni anfratto, ogni alcova, ogni tettoia di quest’improvvisato fortilizio: i corpi dei morti, gli ultimi morti di Aleppo, sono gli stessi che erano sopravvissuti abbastanza a lungo da vedere una via d’uscita.
Aguilar si strappa il bavero e lascia il fucile, arranca implorando sulle ginocchia fino alla salma contorta, ancora seduta, d’una donna che stringe al petto un ragazzino, entrambi sfigurati fino all’osso, le mani scarificate strette in un ultimo disperato abbraccio.
La stessa immagine cesellata sulla collana che porta al petto.
“Per questo hanno disertato!” McCormack non ha neppure le forze per torturarsi la barba. “Stavano evacuando i civili rimasti.”
Decisioni, scelte.
“Perché è questo che hanno ordinato dal comando, non è vero?! Ritirarsi! L’ha detto lei stesso, tralasciate i civili!”
È questo posto, è il mondo che impazzisce un grado alla volta. Ti porta a prendere decisioni sbagliate.
Resto immobile, una statua di sale. Persino la grandine, per ironia o calcolo, tarda a tornare.
Intorno è tutto bianco, un dipinto al fosforo.
Sembra quasi neve.