Almeno questa volta sono piovute rane. Molto meglio di quando piovvero cavallette, oscurando il cielo; ci chiudemmo tutti in casa per tre giorni mentre gli insetti divoravano i raccolti, gli orti, tutto. Meglio le rane. Geppino dice che le rane sono buone da mangiare e le raccoglie per farle fritte. Boh? A me fanno un po’ schifo. Poi la maggior parte si è sfracellata precipitando giù dal cielo, e abbiamo tutti collaborato per ammucchiarle nel fosso dietro la casa dei Forti, che ha il lato sud scosceso e può raccogliere tutti quei cadaverini puzzolenti. Dopo gli abbiamo dato fuoco. Quello stupido di Geppino rideva e diceva che bell’arrosto, che festa, rane arrosto per tutti! Mangiare le rane, che idea balorda. Ormai di rane in giro non ce ne sono più. La puzza è quasi sparita. Guardo il cielo e mi preoccupo; chissà chi ci abita, e perché ci butta giù quella roba? Pazienza le rane, in qualche modo abbiamo rimediato, ma ricordo bene quando piovvero piccoli pesci nauseabondi. Poiché venne giù anche acqua, e tanta, ma tanta davvero, e per le strade era tutto un impetuoso scorrere d’acqua e pesci morti, dovemmo restare a casa per giorni, e il pesce marcì rapidamente sprigionando una puzza nauseabonda, molto ma molto peggio delle rane. Io vomitavo due o tre volte al giorno. E quando smise di piovere, e uscimmo cercando di ripulire le strade, la putredine salmastra dei pesci aveva reso le strade viscide e schifose e si faticava a camminare, figurarsi il pulire! Pesci non ne sono piovuti più, per fortuna. Ma ogni tanto casca giù qualcosa di molesto e non richiesto. Il Savio del villaggio dice che quelli di Su ci mandano le loro schifezze per punirci. Però non sa dire chi siano, né perché dovrebbero punirci; io, per esempio, cos’avrei fatto di male? Quelli di Su sono degli stronzi, comunque.
Ora come ora il cielo sta diventando colore della giada; il colore è bellissimo ma annuncia guai; come dice il detto, cielo di giada tienilo a bada, cielo giallino spera nel mattino. Il Savio ha detto di non incominciare viaggi o iniziative impegnative perché pioverà certamente e non si può sapere se assieme all’acqua verranno giù cose brutte. Che palle, questa volta cosa ci manderanno quei bastardi di sopra? Ecco che incomincia a piovere. Piove normalmente, acqua verdina, ma molta. Le strade sono di nuovo un pantano e chi ha potuto ha messo sacchi di sabbia davanti alle porte. Il problema non è che piove, ma che il fiume Orbo è pieno pieno. Su in collina la gente ha smesso di abitare da tempo, nessuno pulisce gli alvei e, anno dopo anno, fra rami secchi, carogne di animali, schifezze lanciate da quelli di Su, si creano degli ostacoli che fanno montare l’acqua che poi si riversa, di colpo, giù da noi. Tra le nubi piovose, ogni tanto, una schiarita momentanea ci lascia vedere quella specie di buco porporino nel cielo; è una porta? Io credo sia una specie di porta fra noi e quelli di sopra; è da lì che ci buttano le rane, le cavallette, quello che pare a loro. Maledetto buco. E noi qui sotto a farci innaffiare di acqua putrida, a farci cadere in testa schifezze, a patire questa umiliazione. Però mi è venuta un’idea; ne dovevo parlare col Savio perché è assolutamente l’ora di fare qualcosa. Eminentissimo Savio, gli ho detto quindi, non possiamo vivere in balìa della malvagità di quelli di sopra, che ci buttano giù acqua putrida, fango, ma anche insetti e rane e chissà cosa inventeranno poi. Giusto? Dobbiamo fare qualcosa. Lui mi guarda col suo occhio da pesce lesso, fa un sorriso paternalista e mi dice perché, carina, cosa credi che si possa fare? In quel momento l’ho odiato. Sarà savio quanto vi pare ma non mi piace essere presa per cretina. Facciamo una scala! gli ho detto, una bella scala che arrivi fino al cielo. La costruiamo tutti assieme, arriviamo fin lassù e li facciamo smettere con le buone o con le cattive, chiunque essi siano! Il Savio teneva stampato sulla faccia un sorriso ebete. Glielo leggevo nel pensiero che non sapeva come rispondermi, tanto scema gli era sembrata la mia proposta. Ma non aveva il coraggio di dirmelo in faccia. E uhm, e beh, e altri mugugni, e anche ma no, non credo si possa fare, non si è mai fatto, poi come si fa, chi la fa questa scala, e quanto tempo ci vorrà e così via. Dopo mezz’ora di questa nenia mi sono rotta e gli ho detto: caro Savio, io ti ho dato un’idea; mi puoi ringraziare e farla tua e darti da fare, oppure mi organizzo da me. Non so bene come sia finita, ma so che sono uscita dal suo reliquiario abbastanza scocciata. Allora sapete cosa ho fatto, no? Ho incominciato a girare casa per casa e ho spiegato la mia semplice idea a una persona per volta. Ah, tranquilli, il Savio si è subito accodato. Prima per controllare, l’ho capito benissimo, e in maniera un po’ defilata, del genere io con questa qui non ho nulla a che fare; poi, visto che parecchie persone si entusiasmavano al mio progetto, sempre più mettendosi davanti, passando dall’idea di questa cara ragazza alla nostra idea e infine, lo spudorato, a questa mia idea. Ma tanto, ormai, nel villaggio tutti sapevano che c’ero io, dietro. E insomma, come sapete certamente, ci siamo messi a costruire questa grande scala per arrivare al cielo. Ehi, gente di sopra, mi sentite? Stiamo arrivando, bastardi!
Ma quelli, intendo quelli di Su, non sono stati con le mani in mano. Finché scavavamo le fondamenta niente di che, qualche acquazzone, una bufera nera che non si vedeva nulla a due passi e toccava stare con un fazzoletto attorno alla bocca, che si anneriva subito; cose spiacevoli ma abbastanza conosciute. Ma quando i più giovani del villaggio hanno iniziato a tirare su la scalinata che giorno dopo giorno cresceva in altezza, ecco che la risposta non ha tardato ad arrivare. Eravamo indaffarati nella fabbrica; io impastavo coi piedi fango e paglia per fare la malta che teneva assieme i blocchi di pietra, e quel cretino di Gualtiero non aveva trovato di meglio che mettersi con me a pestare buttando lì quelle frasi sceme che vorrebbero essere spiritose, con allusioni al fatto che gli avevo concesso il mio letto un paio di volte, bisbigliando stupidaggini che i maschi hanno confezionato una volta, nella notte dei tempi, e tutti soddisfatti ripetono da secoli senza aggiungere e senza togliere, ché lo sforzo per loro è eccessivo. Tutto questo solo per un paio di scopate niente di che, che poi ho trovato una scusa e l’ho mollato. E dunque ero lì con Gualtiero e mezza dozzina d’altri che pestavo l’impiastro, cercando di non ascoltare il deficiente, quando la luce diventò improvvisamente verde. Verde giada, capite? Decine di teste si alzarono verso il cielo per cogliere i segni, ben noti purtroppo, di un’imminente precipitazione. Via, via! gridarono tutti, e in un parapiglia generale ciascuno si precipitò a casa sua. Gualtiero, che si era ingrifato da solo all’idea di avermi un’altra volta, cercò di infilarsi nella mia, ma io fui più svelta e gli chiusi la porta sul muso. La luce si spegneva velocemente virando su tonalità verde scuro come i fiaschi di Giangio il taverniere. Si cominciò a sentire un brontolio, poi un rumore più sordo, poi botte micidiali sui tetti e sulla strada, mentre centinaia di anguille cascavano giù sfracellandosi per lo più nell’impatto. A me prese un colpo, perché lì per lì pensai a serpenti. Fortunatamente solo anguille. Il giorno dopo il solito Geppino le andava raccogliendo gridando a squarciagola che l’arrosto di anguilla, con un po’ di basilico e prezzemolo, è una prelibatezza, ma nessuno gli badava. Le anguille erano grosse e alcuni tetti si erano sfondati, un mulo era morto e l’Orbo si era intasato e lo si doveva liberare. Impiegammo una settimana per sistemare le cose e la scala, ovviamente, subì un arresto. Avevamo appena ricominciato a costruirla che, daccapo, una pioggia di angurie scombussolò tutto creando danni assai maggiori. E questa volta Geppino, preso in mezzo alla fronte da un cocomero, ci rimase secco.
Il Savio convocò l’adunanza, indossò la sua faccia grave e disse che certamente quelli di Su non volevano che noi si costruisse la scala; non volevano che noi raggiungessimo il cielo. E già: noi siamo gli abitanti della terra, loro del cielo; le cose stavano così da sempre e siamo stati impudenti noi a sfidare l’ordine naturale delle cose. Molti dei presenti annuivano, impauriti dalla potenza di quelli di sopra; ma io ero furiosa. Ma come, mi misi a urlare, siamo a così buon punto e vogliamo mollare? È evidente che quelli di Su non ci vogliono, ma dobbiamo chiederci perché. Cosa nascondono? Che tesori celano? Ho detto tesori senza pensarci, ma poi mi sono accorta subito che era una parola magica; l’idea che quei fetenti di Su non ci volessero per preservare i loro tesori suscitò desiderio in molti dei presenti, che si misero in testa che lo sforzo da compiere, e i sacrifici, in vista delle ricchezze che si potevano trovare, valevano la pena di qualche anguilla o di quel cavolo d’altro che si sarebbero inventati i nostri nemici. La parola nemico divenne usuale. Prima pensavamo a quelli di Su come a degli stronzi, dispettosi, molesti vicini di casa; ora erano diventati dei nemici che celavano tesori inimmaginati e facevano di tutto per non dividerli con noi. Nemici. Egoisti. Ma noi li avremmo sconfitti. Tranne i soliti scettici, ben presto emarginati dai patrioti del villaggio, ci mettemmo con rinnovata foga a costruire la scala. Chi impastava il fango con la paglia, chi spaccava le pietre, chi tagliava tronchi per ricavarne i puntelli e i pilastri di sostegno, chi scrutava il cielo per dare l’allarme ai primi segnali dei sempre più frequenti rovesci. In quei mesi piovve di tutto; una volta scolopendre gigantesche che mi misero una fifa blu; un’altra volta viscide lumache che impiastricciarono tutto il villaggio in una specie di bava collosa. Una volta perfino erba, che all’inizio ridemmo perché ovviamente era morbida, ma scese per cinque giorni ininterrottamente creando un tappeto di un metro che non si riusciva a camminare. Non vi dico quanto impiegammo per ripulire tutto, anche perché l’erba marcì rapidamente diventando scivolosa. Ma era chiaro che da sopra stavano aumentando il tiro quando per tre giorni piovvero nidi di vespe che si squarciavano all’impatto liberando sciami di insetti puntuti. Avevamo un bel tapparci in casa; quelle entravano dappertutto e nessuno fu risparmiato; un paio di anziani morirono in seguito alle punture e la cosa creò in tutti un sentimento profondo di rabbia. Quelli di sopra erano evidentemente disperati e speravano di intimidirci. Ma noi diventavamo sempre più furiosi. La scala cresceva a vista d’occhio ed eravamo diventati veramente bravi a correre via pochi minuti prima che si scatenasse qualche altra bufera, e a tornare al lavoro subito dopo, mentre una squadra si occupava di ripulire alla bell’e meglio le strade, tanto che ci importava di tenere a posto, aggiustare, lucidare? Che ci pensassero quei poveri illusi che non si volevano unire alla nostra impresa; che ci pensassero loro a pulire ben bene il loro bel villaggio smerdato da quelli di Su, sempre a capo chino, acquiescenti, pavidi, vili, col loro Savio in testa. A noi le piogge dei nemici infastidivano, ma non ci facevano demordere. Che ci importava di quei dispetti, che altro non erano, quando stavamo per conquistare il cielo, con tutti i suoi tesori, le sue bellezze, le meraviglie che non conoscevamo ma che immaginavamo, e ne discutevamo fra noi mentre impastavamo il fango, mentre ripulivamo gli alberi dalla loro corteccia, mentre portavamo a spalla le pietre sempre più in alto, per aggiungere gradino a gradino?
A un certo punto vedemmo la meta vicina. Quello che da terra sembrava un buco porporino, da vicino si palesava come l’ingresso di una specie di grotta nel cielo. Il porpora, visto da vicino, apparve come variegata miscela di colori rossastri, con una sembianza d’insieme carnoso, come di un gigantesco sfintere che continuava a riversare sulle nostre teste le cose più stravaganti. Un ultimo sforzo, ci dicevamo l’un l’altra, fratelli nell’impresa di porre fine a quella ciclopica ingiustizia. Un’ultima sofferenza, si leggeva nei nostri occhi mentre portavamo pietre e legni, malta e sudore, su e giù per la nostra grande scala. L’eccitazione fra noi era al massimo. Eccoci, eccoci, arriviamo! A un paio di metri dall’ingresso il cretino, e ovviamente parlo di Gualtiero, anziché attendere la posa degli ultimi scalini si lanciò nella rosea imboccatura. La centrò per un pelo e ci guardò ridendo. Qualche centimetro più corto e sarebbe precipitato nel vuoto. Eccoci! si mise a urlare verso l’interno. Eccoci, vi veniamo a prendere, voi che abitate nel buco del culo del cielo, mi sentite? E sull’onda dell’entusiasmo altri due o tre giovani del villaggio lo seguirono. Io non ci ho proprio pensato: sono piccolina, ho le gambe corte, meglio aspettare. Un paio d’ore dopo arrivarono gli ultimi scalini, furono posati, e in molti entrammo. La grotta era larga e aveva un pavimento abbastanza soffice e roseo; ci inoltrammo all’interno e dopo poco arrivammo a uno slargo, una specie di camera ampia, dove Gualtiero e gli altri stavano tenendo a bada un gruppetto di anziani, mai visti, chiaramente spaventati. Siete arrivati finalmente, apostrofò Gualtiero col suo fare da bulletto; guardate un po’ chi abbiamo trovato. Questi vecchi erano proprio decrepiti, dimostravano cent’anni per gamba, e avevano tutti una specie di divisa rossa sbiadita, consunta e anche abbastanza lurida. Anche se impauriti, o forse proprio per quello, dissero presto quello che volevamo sapere e che tutti avevamo più o meno intuito: erano gli stronzi che ci cacavano addosso tutte quelle porcherie. Gli abitanti di Su, del cielo; il Savio aveva avuto torto nei suoi timori, perché questi vecchi tremebondi non ci potevano proprio fare alcuna paura. Ora eravamo arrivati noi e la musica sarebbe cambiata, oh sì! Passammo diverse ore a esplorare quella strana, enorme, grotta celeste; trovammo dormitori, cucine, magazzini, un meraviglioso giardino in abbandono, e insomma non ci sarebbe voluto molto per sistemare tutto e trasformarlo in un posto bellissimo dove vivere. Trovammo diversi altri vecchi; tutti gracili e sbilenchi che non seppero spiegare perché ci inondavano di bestie, insetti, acqua sporca e tutto quello che sappiamo: lo facevano da un tempo immemorabile, l’avevano sempre fatto e, dicevano, quello era il loro lavoro, il loro scopo. Qualcuno osò addirittura dire che noi eravamo stati folli e sconsiderati a dare l’assalto a quel loro sacro compito, di cui si era dimenticato il senso, e per questo si beccò immediatamente una sberla da uno dei ragazzi, e se l’era proprio meritata, diciamolo.
Dopo diverse ore avevamo completato l’ispezione e raggruppato tutti i vecchi in un luogo facile da sorvegliare. Da uno che sembrava il capo, ed era il più sciancato di tutti, ci facemmo spiegare a furia di pizzicotti e schiaffi, ma non forti perché avevamo paura di romperlo, come funzionava il meccanismo di scarico delle robe da buttare di sotto. Lui ci portò in una stanzetta alla quale avevamo dato poca importanza e ci fece vedere. Si pigiavano certi bottoni, si tiravano certe levette e si scorreva un elenco pieno di nomi conosciuti come acqua nera, anguille, topi, scolopendre, e anche altre parole strane che adesso non ricordo. E qualcosa nel cielo si attivava e spazzava, qua e là per il mondo, gli oggetti o gli animali richiesti e ne riempiva il magazzino adiacente; poi bastava pigiare qualche altro tasto e quel che s’era raccolto pioveva già. Al momento alcuni settori del magazzino erano già pieni: scorpioni, ci disse, ma anche cacca di cane. Fantastico!
E adesso? Lo chiesi a voce alta ma era un pensiero che mi frullava in capo già da un po’, e capii subito che anche gli altri condividevano la stessa confusa incertezza: l’impresa incredibile ci aveva riempiti di slancio, entusiasmo, coraggio e curiosità. Ma quell’impresa era finita. E adesso? Ci guardammo in faccia; quasi tutti i giovani del villaggio ci avevano seguiti ed eravamo una cinquantina di ragazzi e ragazze, con qualcuno un po’ più grande ma, come noi, con lo sguardo fiero e la mente libera. Torniamo giù ad avvertire quelli rimasti? Ma perché mai! Siamo noi ad avere fatta tutta la fatica, diceva qualcuno, e adesso potremmo godercene i frutti, no? Non aveva torto. Io avevo i piedi rovinati per avere impastato per settimane, mesi, quel fango maledetto; tutti gli altri avevano calli e vesciche e al Brufo avevano dovuto amputare due dita dopo un brutto incidente, mentre portava un pietrone su per la scala. Certo che avevamo qualche diritto. Per carità, nel villaggio tutti amici, anzi: fratelli; ma chi ha fatto tanto per arrivare qui ha qualche diritto rispetto a chi non ha fatto niente, è rimasto a guardare e a criticare, perché lo so benissimo che quei vigliacchi, dietro dietro, criticavano il nostro sforzo. L’idea venne da sé, un’idea giusta, un’idea egualitaria. Noi, gli artefici dell’impresa, uguali nella fatica, nel sacrificio e nella speranza; quelli della scala, quelli dell’assalto al cielo, quelli che hanno sconfitto i prepotenti e malvagi di Su. Adesso meritavamo di godercela. Grazie alle conoscenze tecniche di Gualtiero, che per essere stupido era proprio stupido, ma in queste cose ci sapeva fare, la scala fu fatta crollare su se stessa, lasciando un cumulo di macerie appena fuori dal villaggio.
Poi, per fare capire a tutti, ma proprio a tutti, come stavano le cose, e come sarebbero andate da quel momento in poi, facemmo cadere la nostra prima pioggia sui codardi e vigliacchi rimasti Giù: una bella pioggia rossa di vecchi bacucchi. E mentre allegramente andavamo a vedere cosa poter mettere sotto i denti, che ci era venuta una gran fame, facevamo a gara a proporre cosa far piovere sul villaggio il giorno successivo.